Caro Carmine ( Legambiente) .
Ti ringrazio per avermi voluto inviare, in allegato alla tua mail, la brochure sulla Festa della Montagna che si terrà a Sipicciano: mi ha fatto piacere riceverla anche se, del suo equivalente cartaceo, ero già in possesso avendolo ritirato dal banco vendita di una pasticceria.
Complimenti, comunque, per la bella iniziativa.
Il testo della brochure mi ha stimolato alcune riflessioni di cui vorrei farti partecipe.
Sapevo dei briganti Pace, Guerra e Fuoco che si aggiravano, nei tristi momenti che seguirono l’unificazione del Regno delle Due Sicilie col Regno di Sardegna, nei boschi di Vallemarina.
Mi ha fatto piacere leggere e, dunque, veder riconosciuto che, sotto il governo dei Borbone, i contadini e le classi meno abbienti godevano di vantaggi economici.
Meno, se posso dirtelo, mi è piaciuto leggere che, questi vantaggi, erano ristretti al solo campo economico, erano per di più limitati e, peggio ancora, dovuti al sistema feudale borbonico.
Qui non mi ritrovo e non mi ritrovo neanche quando leggo, più avanti, che …”il brigantaggio si sviluppò inoltre dalla ribellione all’introduzione degli oneri fiscali”.
Ma quando mai!? Sotto i Borbone, è vero, esistevano solo quattro imposte dirette (Fondiaria, che dava il 30% del gettito complessivo, addizionale per il debito pubblico, addizionale per le province ed esazione) e quattro indirette (dazi, che davano il 40% del gettito fiscale, imposta di registro e bolli, tassa postale e imposta sulla lotteria) ed è vero che, dopo l’unità, ne furono introdotte altre 15, ma questo non autorizza a descrivere i briganti quasi come una sorta di violenta conventicola dedita all’evasione fiscale … tanto è vero che, a lamentarsi di questo aumentato prelievo fiscale, per altro con forti sperequazioni tra Nord e Sud, sperequazioni che vedevano avvantaggiati gli abitanti del Nord, non furono soltanto le classi meno abbienti ma anche gli industriali e gli operai che, a fabbriche meridionali chiuse e a produzione trasferita al nord, si ritrovarono senza lavoro e con la sola prospettiva di emigrare in America per non morire di fame…: "Sa il signor presidente del Consiglio i dolori e le perdite che hanno subite gl'industriali delle province meridionali? Sa il signor presidente del Consiglio quante centinaia di migliaia di persone sono a languir dalla fame per quelle modificazioni?" urlò, rivolto a cavour in piena assemblea parlamentare il 25 maggio 1861 (come vedi erano passati pochissimi messi dall’unificazione!), l’onorevole, eletto nel collegio di Sora, Giuseppe Polsinelli che, prima dell’unità, era un industriale di Arpino (facente parte, fino al 1860, del regno dei Borbone). Ma questo amaro grido di dolore (post unitario!) non servì a nulla: le industrie tessili che, nella valle del Liri, operavano fin dai tempi di Cicerone, dopo l’unità chiusero tutte, anche quella di Polsinelli … e a poco valse, a quest’ultimo, il fatto di essere stato un acceso sostenitore della causa unitaria tanto da giungere ad armare, di tasca sua, ben 70 uomini per farli combattere al fianco dei piemontesi che scendevano da Nord!
E questo è soltanto uno dei numerosi fatti che si potrebbero riportare per dare una lettura corretta e veritiera di quanto allora accadde.
Ma tantissimi altri se ne potrebbero riportare per dimostrare quanto ai Borbone stessero a cuore anche le classi meno abbienti (dall’orario di lavoro nelle fabbriche ridotto rispetto a quello vigente nelle fabbriche inglesi e francesi – come industrializzazione il Regno delle Due Sicilie era secondo solo a Inghilterra e Francia – al praticamente nullo sfruttamento del lavoro minorile ecc ecc): basti, a riassumere le attenzioni regali per quella parte della popolazione, una illuminante frase di Nitti (che certo non può essere tacciato di partigianeria filoborbonica!): “Bisognava leggere le istruzioni agli intendenti delle province, ai commissari demaniali, agli agenti del fisco per sentire che la monarchia – quella dei Borbone – cercava basarsi sull’amore delle classi popolari. Il re stesso scriveva agl’intendenti di ascoltare chiunque del popolo; li ammoniva di non fidarsi delle persone più potenti; li incitava a soddisfare con ogni amore i bisogni delle popolazioni”. Io non ho letto quelle istruzioni, ma Nitti sì: per averne parlato deve averle lette e quindi si può concludere che non poteva essere solo una questione di pascolo perché una popolazione di 9.000.000 di anime non poteva avere bisogno solo di pascoli agevolati. E, infatti, la mortalità infantile più bassa l’avevamo al Sud (borbonico) dove avevamo il più alto numero di medici per abitante (1 su 958 contro 1 su 1.834 delle altre parti d’Italia) e le prime vaccinazioni, obbligatorie fin dal 1818 (nel regno di Sardegna lo divennero nel 1859!) ... per tacere del resto.
Avevamo un PIL di 2.620 milioni di lire mentre nel regno di Sardegna era di appena 1.610 milioni: dunque, anche per questo, non potevano esistere solo vantaggi feudali limitati alla pastorizia.
E infatti …”Il 1860 trovò questo popolo del 1859 – il Popolo delle Due Sicilie – vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto. La pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia. Adesso veruna cattedra scientifica…Nobili e plebei, ricchi e poveri, qui tutti aspirano, meno qualche onorevole eccezione, ad una prossima restaurazione borbonica (conte Alessandro Bianco di Saint-Joroz, ufficiale piemontese, capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale, 1864). E ha scritto proprio … “tutti aspirano” non riferendosi, evidentemente, alle sole classi meno abbienti e a chi, poi, non volendo emigrare, morire di fame o tradire i propri principi si diede al brigantaggio.
Dunque, chi si ribellava non aveva tutti i torti a farlo …tant’è che una lancia a favore dei cosiddetti briganti la spezzano anche gli avversari di allora: “Capisco che gli Italiani hanno il diritto di far la guerra a coloro che volessero mantenere i Tedeschi in Italia, ma agli Italiani che, rimanendo Italiani non volessero unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibugiate […] Non so niente di suffragio, so che al di qua del Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di là sì. Si deve dunque aver commesso qualche errore; si deve quindi o cambiar principi o cambiar atti e trovar modo di sapere dai Napoletani, una buona volta, se ci vogliono sì o no” scriveva Massimo d’Azzeglio in una lettera all’onorevole Matteucci del 2 agosto 1861.
E qualche errore (qualche…?!) doveva essere stato commesso se Garibaldi stesso scrive, in una lettera del 1868 ad Adelaide Cairoli, che … ” Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali – dopo il 1860 – sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male – qui o mente o soffre di una forte amnesia, come ben dimostrerebbe il caso Melisurgo - nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”.
Ma “errori” di che tipo? ……“Il dissidio tra la Lombardia … e molta altra parte d’Italia ha origine in una serie di fatti: sopra tutti il sacrificio continuo che si è fatto degli interessi meridionali” scriveva, sempre Nitti, al direttore del politecnico di Milano, Giuseppe Colombo, il 5 luglio 1898 (riporto questa frase emblematica per evitarmi un lungo elenco di fatti post unitari negativi per l’industria, l’artigianato, l’agricoltura, la scuola, la cultura e, in conclusione, per le Genti dell’ex Regno delle Due sicilie, pastori o meno che fossero).
Scriveva Benedetto Croce che…“Con la fine del regno di Napoli, con l’annessione dell’Italia meridionale al resto d’Italia, ha termine la sua storia…senza l’Italia meridionale, quella del settentrione si sarebbe ristretta a una vita angusta e piccina; che nel Mezzogiorno, l’industria del settentrione ha trovato il suo mercato, mentre esso, con l’unità, ha visto sparire quanto possedeva d’industrie locali” …e sì che eravamo, prima dell’unità, la terza potenza industriale al mondo (e la Campania vantava il primato di regione più industrializzata d’Italia).
No: decisamente non è una questione di pascoli feudali.
Altrimenti non ci potremmo spiegare perché, un altro acceso fautore … preunitario dell’unità, Giustino Fortunato, senatore, avrebbe scritto che…”l’Unità d’Italia … è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. (Lettera n° 89 del 2 settembre 1899 indirizzata a Pasquale Villari)
E Gaetano Salvemini? “Se dall’unità d’Italia il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata…è caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone”.
Che cosa avrebbe potuto generare la crisi di Napoli? Questa città era “l’unica capitale d’Italia” essendo le altre città italiane delle “Lione rafforzate” (come ebbe a scrivere Stendhal); essa era, aggiungeva Melville, “scintillante di carrozze” tanto che quasi non si riusciva a “distinguere da Broadway”…
Dunque: a meno di non pensare che i suoi abitanti vivessero di pastorizia, c’è da credere che ben altri furono i fattori che generarono la crisi post unitaria di Napoli e dell’intero territorio appartenuto al Regno delle Due Sicilie.
…O no!?
Un caro saluto
Fiorentino Bevilacqua