“LA CONGIURA DELLE PASSIONI”, UN ROMANZO-VERITÀ SULL’UNIFICAZIONE ITALIANA TRA DOCUMENTI E LETTERATURA. “Cosa è grave? I fatti o che questi vengono raccontati? Cosa si teme? Che di questi tempi tristi si debba rendere conto alle future generazioni provandone
vergogna anziché
onore?”. È uno dei passaggi più significativi del romanzo di Pietro De
Sarlo e rappresenta, per diversi aspetti, la sintesi di queste oltre 200
pagine di storia e letteratura. Questo romanzo è una sapiente,
emozionante, commovente e avvincente fusione di invenzione e verità, di
luoghi e personaggi reali e fantasiosi tutti uniti, però, da un’esigenza
sentita in maniera profonda dall’autore: quella di raccontare quello
che è avvenuto dalle parti dell’ex Regno delle Due Sicilie e
dell’attuale Sud ed in particolare della Lucania (e di quei “morenti
borghi montani della Basilicata” citati anche nella dedica) oltre un
secolo e mezzo fa. Con un’altra “missione” chiara e netta e che ci
accompagna dalla prima all’ultima pagina: raccontare queste storie alle
prossime generazioni, anche se si tratta di storie delle quali si
potrebbe (e forse si dovrebbe) “provare vergogna” nell’ambito della
storia nazionale. Al di là di tutto questo, però, la lettura è piacevole
e appassionante e per chi tratta temi storici questo è un aspetto
tutt’altro che secondario. E così chi legge si sente coinvolto nelle
vicende del Barone e del Notaro, di Corsini, di Emilio Sole e di
Caterina, di Pietrino, di Mirna e della “Masciara”, protagonista vera e
simbolo, forse, tormentato e misterioso di tutta una terra. E così
quelle storie private, quelle piccole storie, tra amori, tradimenti,
misteri, figli legittimi e illegittimi, paure, gioie e sofferenze, si
intrecciano con le grandi storie, tra sbarchi di “Garibaldo” e
rappresaglie dei “Piemontisi”, tra il cinismo dei Lombroso e dei
Cialdini e la fedeltà dei Quandel o dei Borjes, tra paesi “spaccati” e
famiglie potenti, contadini e briganti, il (falso) plebiscito (“l’aria
era tesa, anzi plumbea”), gli usi civici (preziosi e aboliti con il
1860) e le svendite post-unitarie, gli orfanatrofi borbonici trasformati
in caserme sabaude, la Chiesa e i preti legittimisti, l’assedio di
Gaeta, gli scontri, le fucilazioni, la fine dei Borbone e l’emigrazione e
quel popolo intero “tra prospettive di miseria o di morte: non
resteranno che le Americhe”. E a proposito di briganti, è proprio la
loro storia a stare al centro di tutto il libro e ad essere raccontata
in maniera obiettiva come spesso, troppo spesso, la storiografia
ufficiale non ha fatto per inseguire questa o quella tesi precostituita.
Efficace e originale l’uso di citazioni famose riportate come parole
dette dai personaggi del romanzo e così leggiamo le parole di Gramsci e
di Francesco II o di Nitti ma le apprezziamo come se fossero ridiventate
vive. E così il racconto delle stragi di Pontelandolfo e di Auletta o
quello della deportazione dei soldati borbonici nella fortezza di
Fenestrelle (“a Fenestrelle i napolitani avrebbero abbassato la
criniera, e risero”), diventano scene “attuali” e descritte come se
capitassero oggi davanti ai nostri occhi o nel racconto di chi aveva
visto o aveva ascoltato: “Pare che Garibaldo sia sbarcato nei Reali
Domini di là del Faro e nell’isola ci sia battaglia”... Tutti i capitoli
sono scanditi dai versi di “Marzo 1821” di Alessandro Manzoni: una
sorta di “timbro” ufficiale su storie non ufficiali, forse una sorta di
“rimpianto” perché chi ha vissuto quelle vicende e non ha avuto, finora,
l’onore di un poeta che ne raccontasse le gesta così come il poeta
lombardo aveva fatto con i liberali piemontesi contro l’Austria. E
stridono quei versi aulici con la speranza dell’Italia unita con i fatti
che accompagnarono, poi, quella unificazione. E a proposito di vite
quotidiane, non si possono non evidenziare quei rituali e quelle
tradizioni che segnavano le ore e i giorni delle popolazioni di quel
tempo: la vendemmia, la mietitura, le grandi tavolate festive o la
raccolta delle olive e il lavoro dei frantoi. Il tutto descritto nei
particolari come nei particolari sono descritte le case, quelle povere e
quelle ricche, case piene di vita e viste come se fossimo proprio lì,
in quelle stanze o dietro le loro finestre fino a sentirne quasi gli
odori, i sapori, i rumori con i morti che si uniscono ai vivi, anime e
“malumbre” benedette e maledette. E si legge così il racconto delle
lacerazioni addirittura familiari e che mai erano avvenute prima in
quelle contrade (e si tratta di un’altra conseguenza pesante dei fatti
risorgimentali): “Avete capito? Questi vogliono pure soldati i figli
nostri che poi devono venire a carcerare a noi”. E si legge la tensione
di certi momenti e di certe domande: “Ma veramente i Savoia faranno
quello che il Re Borbone non fa o i vostri amici son venuti a fare gli
scialapopolo con noi?”. Quello che è sempre mancato nella storia del
Mezzogiorno d’Italia è forse proprio un racconto come questo, un
racconto che potesse diventare “epica” e opera teatrale o
cinematografica in questo caso più che mai per gli intrecci, gli sfondi,
la capacità dell’autore di incrociare luoghi e personaggi tra scene e
sequenze con un ritmo sempre serrato. “Pensavamo di poter vivere in pace
ignorando il resto del mondo, di tenere fuori le nuove idee. Il mondo
cambiava e noi credevamo di poter rimanere sempre uguali e il mondo si è
sbarazzato di noi”. Anche questa è una sintesi efficace di queste
pagine, sintesi di una storia importante non solo per il Sud
dell’Italia, una storia tutta ancora da ricostruire e da conoscere nella
necessaria ricomposizione di un mosaico fondamentale sospeso tra
passato e futuro: quello delle nostre radici e della nostra identità.
Dalla prefazione di Gennaro De Crescenzo
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