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NAPOLI 1820-2020 TRA “ESERCIZI DI MEMORIA” E AMNESIE SELETTIVE PDF Stampa E-mail
FerdinandoIIdelleDueSicilie-Wikipedia

NAPOLI 1820-2020 TRA “ESERCIZI DI MEMORIA” E AMNESIE SELETTIVE. Su proposta del Mattino diversi enti (Presidente della Camera, Comune, Università) celebreranno i duecento anni del “primo parlamento a suffragio universale” (Napoli, 1820) in quello che il programma definisce “esercizi di memoria”. È chiaro che ognuno

è libero di celebrare i primati che vuole ma qualche osservazione è necessaria. Si celebra un (controverso) primato borbonico che di fatto è un primato anti-borbonico (con le annesse accuse ai Borbone di averlo cancellato dopo pochi mesi). Peccato, però, che gli stessi giornali e le stesse istituzioni, oltre a non ospitare mai democratici dibattiti, non abbiano mai celebrato primati borbonici senza contenuti anti-borbonici, vittime forse, di amnesie “selettive”… Peccato che quegli “esercizi di memoria” abbiano dimenticato altre date da diversi anni: ad esempio il 13 febbraio (fine dell’assedio di Gaeta e del Regno delle Due Sicilie, giorno da tanti proposto come “giorno della memoria per il Sud”) o il 10 maggio (ingresso di Carlo di Borbone a Napoli e nascita del Regno) o i 200 anni della morte di Carlo di Borbone o della nascita di Ferdinando II o i 100 di Francesco II. La sede del parlamento, allora, sarà al centro di quegli “esercizi di memoria” ma sono numerose da decenni le amnesie per altri luoghi:  ad esempio l’Albergo dei Poveri o il Molo San Vincenzo (luogo dei primati marittimi del Regno) o i resti (macerie) della prima ferrovia, tra gli altri. Prevale, allora, la lettura sempre e comunque giacobina, massonica, liberale o risorgimentalista della storia anche per quei moti repressi allo stesso modo in tutta Europa (Piemonte incluso) e che tra l’altro molti osservatori (tutt’altro che neoborbonici) giudicarono in maniera negativa. Per Nitti si trattò solo di una rivoluzione carica di retorica e opera di una setta “piena di misteri massonici”, lo stesso Croce parlava di interessi personali tra i rivoluzionari e tra le conseguenze (non raccontate) prevalsero dissidi interni, caos, assassini brutali, banchi saccheggiati e una sistematica lontananza del popolo. La stessa, forse, che si registra nelle celebrazioni attuali.
Gennaro De Crescenzo

FONTI.

Archivio del Senato (Francesco Saverio Nitti, “Sui moti di Napoli del 1820”)
. Per Nitti “la rivoluzione del 99 ebbe i suoi retori ma anche i suoi martiri: la rivoluzione del 1820 quasi non ebbe che retori… la setta dei Carbonari era composta da possidenti, benestanti delle classi medie, militari desiderosi di avanzamenti, provinciali e curiali bisognosi di impieghi, una setta piena di misteri massonici che fra le altre cose giuravano l’esterminio di tutti i re… La monarchia borbonica non aveva contro di sé che una setta…”. Per Nitti, allora, Guglielmo Pepe era “un ciarlatano ed un eroe che sconciamente imitava fogge e gesti di Murat” e tutta quella “rivoluzione non fu opera di popolo ma di cospiratori e di forensi, battaglieri in pace, pacifici in guerra”. Altro che “la larga parte della società meridionale”, come sostenuto da Mascilli sul Mattino. Nessun riferimento nell’articolo di Mascilli (che è storico famoso e di professione)  ad altre fonti come, ad esempio, quelle conservate presso l’Archivio di Stato di Torino a proposito delle crudeltà di quei moti in Sicilia con “la barbara carneficina dei due Principi Aci e Cattolica; delli quali recise le teste, e per le strade trascinati i cadaveri furono abbruciati le membra, lo incendio delle loro case, il saccheggio dei loro effetti e di altri molti distinti personaggi; lo sprigionamento dei rei detenuti nelle carceri e nella galea; l’uccisione di molti onesti individui”. Nel quadro romantico dell’articolo manca anche la notizia di quel direttore di polizia (Giampietro) massacrato nel gennaio del 1821 a casa sua con 42 coltellate e nonostante la presenza della moglie e dei 9 figli che, aggrappati alle ginocchia del padre, chiedevano pietà ai suoi carnefici. E mancano pure le notizie relative al caos e all’anarchia di quei giorni o quelle relative al mezzo milione di ducati mancanti nel Banco o agli 80 milioni di ducati complessivi costati al Regno, alle fughe tutt’altro che eroiche degli ufficiali e ai loro continui dissidi (vera orgine del fallimento).



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