NEL LIBRO DI PINTO SUL BRIGANTAGGIO MOLTE VERITA’, ALCUNE VERITA’ NASCOSTE E DIVERSI SPUNTI DI RIFLESSIONE. Fu una guerra “politica” e non “sociale”. La strage di Pontelandolfo fu voluta da Cialdini ed è ancora tutta da studiare (altro che “13 morti”). Nacquero nel sangue le classi dirigenti meridionali tuttora inadeguate… E’ un libro difficile da sintetizzare quello
del prof. Carmine
Pinto non solo per la quantità di pagine (oltre 500) ma anche e
soprattutto per la quantità di tesi che contiene, alcune condivisibili,
altre meno e altre spesso in contrasto tra loro. Stiamo parlando di “La
guerra per il Mezzogiorno”, pubblicato da qualche giorno dal titolare
della cattedra di storia contemporanea a Salerno. Si tratta del prof.
che mesi fa si impegnò nella “battaglia” contro il “giorno della
memoria” delle vittime meridionali dell’unificazione italiana, che ha
partecipato a vari convegni sul “neoborbonismo” e che tempo fa fu
protagonista (con il sottoscritto) di un vivace ma corretto e utilissimo
dibattito a Santa Maria Capua Vetere (sono ancora diversi i ragazzi che
ci scrivono e ci chiedono informazioni e aggiornamenti). Non possiamo
non condividere del libro la tesi del brigantaggio come guerra politica:
è una nostra vecchia “battaglia” spesso al centro delle nostre ricerche
e delle nostre pubblicazioni. In questo caso sono numerosi i documenti
citati e che dimostrano il carattere “borbonico” di quella guerra
scoppiata dopo il 1860 nell’ex Regno delle Due Sicilie. Le gerarchie
quasi militari, le medaglie e gli appelli firmati dai capibanda con i
continui riferimenti a Francesco II, a Maria Sofia o al Papa (“voi
dipendete dai vostri superiori come noi dipendiamo dai nostri comandanti
noi siamo leggere Truppe Napolitane”), i “nastri con i colori borbonici
o papalini, e qualche volta una piastra con l’effigie di Francesco II,
che bucata portavano a guisa di medaglia”, le “dichiarazioni, i
proclami, i manifesti che annunciarono sempre l’obiettivo di riportarli
sul trono. Il sogno della restaurazione, il ricordo di quelle passate,
fu uno dei motori più forti per continuare la guerra […]. Insieme alla
fedeltà monarchica i briganti professarono sempre orgoglio per la loro
religiosità: i simboli cattolici erano un elemento decisivo della
propria appartenenza”. Solo in qualche caso “diventò rabbia sociale
contro i galantuomini: l’universo dei briganti ruotava intorno a pochi
concetti chiave, semplici e comprensibili – il re e la Chiesa, in forme
più confuse la patria e il popolo –, contro le idee straniere o di
rivoluzionari e notabili traditori e oppressori. Francesco II, l’unico
contrappeso possibile”. Lapidarie, ancora, le affermazioni successive:
“In sintesi, non apparirono mai eterodossi: re, Chiesa e banditismo
rurale erano i poli del loro immaginario. Non volevano distruggere
l’ordine socioeconomico né sfidare la struttura sociale, a parte le
dichiarazioni contro i notabili unitari locali e i galantuomini (che
erano, però, sempre avversari di altri notabili loro sostenitori) […].
Gli episodi di occupazione di terre demaniali, diffusi in quegli anni,
non furono mai politicizzati dai briganti e non si trasformarono in
nessun modo in una guerriglia contadina […]. La loro guerra colpì il
perno dell’economia meridionale, ma non propose mai rivolte sociali,
occupazioni di terre o distribuzioni di beni demaniali […]. Non dissero
mai di voler rivoluzionare i valori della loro società, ma ne esaltarono
quelli più semplici e tradizionali, a partire dalla religiosità e dai
suoi usi e simboli”. Ovvio, invece -aggiungiamo noi- che le commissioni
governative o i famosi esuli napoletani (e i loro eredi culturali di
oggi) sottolineassero la natura “atavica” o “sociale” di quel
brigantaggio per ridimensionare la gravità dei loro interventi e per
ridimensionare le loro responsabilità. Ovvio anche che i borbonici e
Francesco II respingessero le accuse di di complicità formulate da
quelle commissioni e da quei politici (neanche Pinto riesce a
quantizzare o a documentare quegli eventuali “aiuti” e gli stessi
borbonici e Francesco II presero semplicemente atto del consenso reale e
di massa radicato e diffuso in tutto l’ex Regno).
Non
possiamo non condividere anche il riconoscimento che Pinto fa della
diffusione delle nostre tesi: ormai gli eroi risorgimentali sono stati
sostituiti dai briganti per il “successo di questi temi nel discorso
pubblico con un crescente e continuo tentativo di ridurre lo spazio
temporale che ci divide da questi eventi”. Quello del rischio di evitare
di attualizzare la storia, del resto, è uno dei crucci principali di
Pinto e non solo in questo libro: senza scomodare Cicerone (qualcuno lo
avverta che la sua storia “maestra di vita” è una bufala), è una
posizione quanto meno strana: perché mai la storia “ufficiale” non si
può toccare in quanto ancora “fondante” per l’Italia di oggi e quella
che ne critica alcuni aspetti non dovrebbe collegarsi al presente? Conseguenza
di questa lettura “politica” che è nei fatti e nella logica degli
eventi che insanguinarono gran parte del Sud tra il 1860 e il 1870 è lo
smantellamento della lettura “sociale” di quelle lotte al centro di
recenti pubblicazioni in cui si cerca anche (inutilmente) di
ridimensionare la gravità dell’eccidio di Pontelandolfo: non basta di
certo utilizzare (per 42 volte, come fa un giornalista in una sua
recente pubblicazione, autore anche di una recensione nella quale, forse
senza aver letto tutti i documenti, pubblicati da Pinto, parla
addirittura di “false alleanze” tra Borbone e briganti) la parola
“incendio” per dimostrare che quello non fu un eccidio (13, centinaia o
migliaia di morti che fossero e non furono di certo 13…). Altro che
“disordini sociali e rivolte contadine” o “risentimenti sociali”… E’
l’Atlante dei Crimini Nazifascisti elaborato da una commissione di
studio internazionale ad usare per circa 50 volte la definizione di
“eccidio” per crimini con vittime anche inferiori di numero a 13. Per
Pinto, allora, “a Pontelandolfo i dati disponibili parlano di meno di
una quindicina di morti tra i civili (non si escludono però altri morti
non registrati) e dell’incendio di parte del paese” (ed è la tesi che da
sempre sosteniamo e che da sempre autori puntali e documentati come
Gigi Di Fiore sostengono nelle loro ricerche: diverse fonti attestano
centinaia di morti e gli archivi non sempre -come sa chi frequenta
davvero gli archivi- conservano tutte le tracce di quelli che 150 anni
fa come durante l’ultima guerra, per dimensioni e gravità, non si
possono non definire “eccidi”). Sempre a proposito di Pontelandolfo la
tesi di Pinto è ancora più chiara e in contrasto sempre con gli stessi
autori di cui sopra e che (addirittura) cercherebbero (inutilmente) di
difendere Cialdini: “Altri due reparti di bersaglieri e volontari, su
ordine espresso di Cialdini, fecero una rappresaglia a Pontelandolfo e
Casalduni”…
Del
resto, sul piano logico, ci si chiede come mai quelle lotte “sociali”
sarebbero scoppiate proprio e solo in coincidenza dell’arrivo di
Garibaldi a Napoli o del cosiddetto plebiscito (settembre-ottobre 1860,
come dimostrano diversi documenti relativi a sommosse in provincia di
Napoli e di Avellino). Le differenze sociali nelle Due Sicilie non erano
maggiori di quelle riscontrabili nel resto dell’Italia a quel tempo, al
contrario di quanto sostenuto da Pinto che si limita a citare gli studi
di chi avvalora la tesi del “Sud arretrato” evitando di citare, tra gli
altri, i recenti Daniele e Malanima che smantellano il Felice riportato
da Pinto o il risolutivo e decisivo John Davis quando nel suo “Napoli e
Napoleone” (2014) sentenzia che la tesi del Sud arretrato fu inventata
dagli unitaristi (in testa Croce) per giustificare i loro fallimenti.
Poco attendibile anche il dato denunciato da Pinto a proposito
dell’eccesso di impiegati pubblici nelle Due Sicilie: il numero di
quegli impiegati era inferiore rispetto a quello del resto dell’Italia
anche in considerazione della presenza di una capitale amministrativa
antica e consistente come Napoli (frutto forse di distrazione anche quel
Filangieri, ufficiale borbonico citato più volte come Gaetano e non
come Carlo).
Poche
le basi anche per la tesi del brigantaggio come “guerra fratricida” se
pensiamo ad una guerra tra meridionali e non (come fu, purtroppo) ad una
guerra tra italiani (del Nord e del Sud). Sfugge a Pinto una ovvietà
che poteva accertare anche solo rileggendo alcune famose dichiarazioni
del deputato milanese Giuseppe Ferrari: “voi potete chiamarli Briganti,
ma i padri e gli Avoli di questi hanno per ben due volte ristabiliti i
Borboni sul Trono di Napoli, ed ogni qual volta la Dinastia legittima è
stata colla violenza cacciata, il Napoletano ha dato tanti briganti, da
stancare l'usurpatore e farlo convincere che, nel Regno delle Due
Sicilie, l'unico Sovrano che possa governare, dev'essere della Dinastia
Borbonica, perché in questa Famiglia Reale soltanto si ha fede, e non in
altri. Dicano quel che vogliano i nemici dei Borboni, ma la mia
convinzione è questa, ed è basata sull'esperienza del passato e sui
fatti che attualmente si compiono”. Pinto,
invece, attribuisce a strani, “ciclici” (e quasi magici/misteriosi)
ritorni lo scoppio periodico delle guerre brigantesche eppure la storia è
chiara: al di là di fenomeni delinquenziali ordinari e diffusi in tutti
i paesi del mondo (cos’erano i “bravi” manzoniani seicenteschi se non
briganti/criminali?), quel tipo di guerra per bande nel nostro Sud si
era verificato nel 1799 e nel 1806 a favore sempre dei Borbone e contro i
francesi. Pinto, evidentemente, anche a dispetto dei documenti che lui
stesso ha ritrovato e pubblicato, è riluttante ad ammettere che nel Sud
preunitario le masse popolari, quando furono chiamate a farlo, si
schierarono apertamente a favore dei Borbone come rare volte era
capitato nella storia non solo italiana per altre dinastie. Pinto,
allora, sembra confondere il potere con il consenso popolare: il primo
era sabaudo e cercava di crearsi un consenso con i suoi mezzi (spesso
superiori e impietosi), il secondo era legato alla dinastia borbonica ed
è lo stesso Pinto a rivelarci che esisteva un “enorme numero di
manutengoli” per giunta di estrazione varia e non solo tra i contadini:
“tra i 478 processati dai giudici militari di Salerno risultavano
possidenti, sacerdoti, professionisti; una cinquantina mugnai,
tavernieri, artigiani, poco meno di trecento contadini, braccianti,
mulattieri, pastori, giumentari”; in altre bande “artigiani, mugnai,
possidenti e sacerdoti. Emergeva un contesto dove prevalevano
sostenitori di bassa estrazione sociale, ma anche un ambiente più
politicizzato e una significativa presenza di notabili e artigiani”.
Furono arrestati anche 20 operai della Cartiera del Liri “che avevano
fatto parte di una banda in combattimento ed erano tornati in azienda”.
Le bande, allora, risultavano “indefinite nella loro composizione”, come
indefinite erano stati da sempre gli eserciti irregolari e
autenticamente volontari della storia non solo italiana. In
seguito “il Mezzogiorno era così raccontato come parte fondante della
nuova nazione”: peccato, però, che quel racconto prevedesse
semplicemente retorica, miti e (come ci illustra Pinto) centinaia di
strade e monumenti dedicati ai Savoia o ai Garibaldi in giro per
l’Italia del Sud e peccato che negli stessi anni, prima durante i
massacri dei briganti e poi mentre milioni di meridionali iniziavano a
partire come emigranti (fenomeno mai conosciuto prima nel Sud
dell’Italia), nascevano e si aggravavano questioni meridionali mai
raccontate e mai risolte. Altro,
allora, che brigantaggio come “guerra fratricida”, come “fenomeno
plurisecolare” o “endemico” se (come ammette paradossalmente lo stesso
Pinto) “la novità furono le proporzioni dell’azione italiana, decisa a
mobilitare ad ogni livello istituzioni e gruppi sociali per spezzare il
sostegno dei civili ai briganti”. Quando e per quanto tempo era capitato
che il brigantaggio di epoca borbonica coinvolgesse tanti uomini, tanti
soldati e per circa dieci anni e con tante vittime? I numeri
(spaventosi) delle forze in campo è sempre Pinto a citarli senza
accorgersi che smantella da solo la tesi del brigantaggio “endemico”:
“All’inizio dell’anno il Gran comando di Napoli era riuscito a schierare
116.799 regolari. Con la riorganizzazione della guardia nazionale nelle
province meridionali (tranne la Capitanata e Reggio Calabria di cui
mancano i dati) c’erano oltre 360.000 uomini, di cui 208.000 nel
servizio ordinario, 50.000 nella riserva e ben 101.000 nella guardia
mobile, quasi 9.000 i carabinieri (il 20% in Sicilia)”. Oltre 300.000
uomini, allora, utilizzati per dirimere “antiche fratture” come se
fossero stati quasi dei litigi locali se non condominiali?
E
il racconto delle atrocità commesse dagli unitari contro i briganti è
chiaro, dettagliato e crudo: “inseguimenti e imboscate, rastrellamenti e
arresti, sfide personali e fucilazioni spietate. Schierarono tutte le
tipologie di armi: fanteria, bersaglieri, artiglieria, cavalleria,
marina, carabinieri e polizia, insieme alla guardia nazionale e alle
squadriglie, senza contare spie, infiltrati, guide, guardaboschi,
doganieri, addirittura prefetti, sindaci o segretari comunali”…
Confermata anche la notizia più volte ripresa nelle nostre pubblicazioni
a proposito delle vergognose decapitazioni e delle umiliazioni dei
corpi dei briganti: “L’uccisione dei capibanda diventò occasione per
macabre esposizioni simboliche. L’esibizione dei nemici uccisi poteva
stimolare gli avversari alla resa o alla defezione […]. I cadaveri dei
briganti caduti in uno scontro saranno sempre trasportati nei paesi, ad
oggetto di convincere maggiormente le popolazioni, incredule sempre
quando trattasi di vantaggi ottenuti dalla truppa”. La testa del
brigante Egidio Pugliese fu portata nel suo paese presso Matera e gli
unitari la misero su una picca e la mostrarono in trionfo per la
cittadina per tre giorni. Il sergente Macry uccise un capobanda “e poi
gli tagliò la testa, che fu esposta su un palo nel paese vicino”.
Difficile, allora, con queste drammatiche premesse, credere a quel
brigantaggio come “avventura giovanile di libertà, bevute, denaro,
donne” o al brigantaggio come possibilità di guadagni (sarebbe stato più
conveniente e facile schierarsi con gli unitari). Così come stride con
queste notizie quella relativa alla “disponibilità a farsi fotografare”
che per Pinto tutti i briganti mostravano (omettendo di scrivere che in
gran parte dei casi si trattava di foto poco prima della morte o
addirittura dopo la morte). “Il nucleo della campagna di
contro-insurrezione era la distruzione del consenso, spaventando,
identificando, raggruppando e colpendo i civili nemici: schedatura della
popolazione rurale e dei parenti dei briganti; blocco dei comuni e del
trasporto di viveri fuori dai paesi; rastrellamento dei sospetti
collaboratori e dei familiari; massiccio deferimento all’autorità
giudiziaria politica o militare (a seconda del momento storico). A
volte, quando si mettevano in movimento le colonne mobili, venivano
chiusi i paesi e «murate o guardate da forze» paramilitari le masserie,
suscitando forti resistenze a provvedimenti che si rivelavano negativi
per l’economia locale”. Tragici i precedenti: nel decennio francese
Murat aveva promulgato “un decreto che consentiva l’azione contro i
familiari dei briganti, la costituzione di corti speciali e il sequestro
dei beni ai favoreggiatori”. Ed è sempre bene ricordare che i francesi,
tra il 1799 e il 1806-1815, massacrarono non meno di 100.000
meridionali… Una riflessione, poi, andrebbe fatta su quella tragica
“schedatura” di parenti e sospettati che richiama alla memoria
schedature altrettanto tragiche ma più recenti, ad opera del regime
nazista.
Diverse,
nel libro, le “forzature”, frutto di una linea che il prof Luigi De
Matteo ha più volte felicemente definito “tesismo”: si espone una tesi e
si cerca di dimostrarla a tutti i costi e anche se le fonti dimostrano
che quella tesi non è fondata. Nessuna “antica frattura” della società
meridionale, allora, ma un semplice “urto esterno” (definizione di
Benedetto Croce) che arrivò a provocare il crollo delle Due Sicilie.
Nessuna (vera) adesione neanche al “partito unitario” da parte dei
meridionali. Dati alla mano (confermati anche da recenti studi
“unitaristi” della prof.ssa De Lorenzo), i famosi esuli napoletani a
Torino erano meno di cento. “Dalla Campania per l’Italia” era il
titolo di un grande convegno organizzato dalla massoneria a Napoli per i
150 anni dell’Italia unita, a dimostrare “il contributo” del Sud per
l’Italia e la tesi di fondo che furono i meridionali a volere l’Italia:
evidentemente è questa la tesi centrale del “tesismo” di cui sopra per
dimostrare a tutti i costi che l’unità fu voluta dai meridionali. Non si
specifica, però, da quanti e quali meridionali. Ed è puro stile
massonico/sabaudo diffuso in quel convegno presumere che gli italiani
buoni erano quelli “unitaristi” e quelli cattivi i “borbonici” (magari
da sterminare mentre si faceva la storia o da cancellare quando quella
storia si doveva raccontarla).
E
qui possiamo aprire una parentesi importante. Pinto ci perdonerà per
questo parallelo tra passato e presente ma se il passato presenta così
tante connessioni con il presente come in questo caso affrontando il
tema della inadeguatezza delle classi dirigenti meridionali, questi
paralleli possono essere ancora utili per capire come riuscire
(finalmente e veramente) a risolvere le questioni meridionali visto che
chi sostiene le tesi di Pinto (più o meno le stesse da 150 anni) non è
riuscito a farlo. Due gli aspetti interessanti. Il primo fenomeno che in
casi di colonizzazione si potrebbe definire “ascarismo” riguardò
migliaia di meridionali assoldati dal nuovo stato unitario come “guardie
nazionali”. Pinto cita diversi casi di “grandi” nemici dei briganti tra
i meridionali ma come definire in maniera diversa chi massacra i propri
concittadini e viene pagato da questo nuovo Stato? Il secondo fenomeno
riguarda le classi dirigenti meridionali ed è lo stesso Pinto
(eterogenesi dei fini) a spiegarci come e perché nascono queste classi
dirigenti meridionali inadeguate da oltre un secolo e mezzo. Pinto cita
di sfuggita il tema delle epurazioni denunciato, tra gli altri, dal
filosofo Giovanni Gentile nelle sue proporzioni enormi. Tra docenti
universitari allontanati, medici che dovettero riprendersi la loro
laurea, maestre e maestri privati degli stipendi (nel fondo Ministero
Istruzione dell’Archivio di Stato di Napoli ritrovai diversi casi di
insegnanti licenziati “per non aver partecipato al plebiscito” o perché
sospettati di simpatie borboniche) o scienziati privati del loro
prestigio (in alcune mie pubblicazioni approfondivo la sorte di diversi
matematici), chi non aderiva al “partito unitario” o non poteva fare
carriera o veniva messo in galera o veniva deportato o peggio… Altro che
“mancanza di progetto politico”: cosa potevano fare i borbonici in
quelle condizioni se non rifugiarsi in “risentimenti, denuncia o
rancore”? Paolo
Macry analizzò tempo fa in un suo testo (Unità a Mezzogiorno, 2012) la
formazione di queste classi dirigenti: gli unitaristi siciliani erano
“uomini primitivi, selvaggi, violenti”, inviati dall'aristocrazia
terriera siciliana a dare man forte a Garibaldi: “la guerra siciliana
del 1860 era poco adatta a essere inserita in visioni oleografiche del
Risorgimento [altro che le elite siciliane citate da Pinto e “schierate
nella loro stragrande maggioranza col nuovo stato”]. Per Macry “il 1860
napoletano è un grande, talvolta spudorato esercizio di travestitismo”.
Lo stesso Pinto cita diversi documenti che dimostrerebbero la validità
di questa tesi ma evita di trarre queste conclusioni in merito alla
nascita di questa classe dirigente meridionale unitarista ma
parassitaria: “le opportunità non erano solo nella rendita agraria,
quanto nell’amministrazione pubblica, dove in tanti avevano ottenuto
posti e ruoli. Spaventa scrisse al fratello, una volta assunta la
direzione degli interni a Napoli, che ‘non ti puoi fare un’idea di
quello che avviene e di quello che si fa: è un chiedere, un acchiappare
da tutte le parti quanto più si può, un armeggio, ed un intrigare’. Gli
unitari, controllando le istituzioni locali, poterono gestire le
relazioni con il governo centrale”. E
non dovrebbe suscitare alcun entusiasmo l’adesione di tanti meridionali
a quel progetto unitario se gli esempi citati da Pinto sono veri:
quelle feste a teatro tra bandiere e ovazioni, le sottoscrizioni tra i
meridionali per i soldati che massacravano altri meridionali o gli
appelli di sindaci e prefetti a ufficiali spietati come Govone, Milon o
Fumel (“concorrere ed incoraggiare, promuovere e facilitare l’opera del
sig. Generale Fumel” è una frase che mette i brividi e dovrebbe far
indignare chi la riporta e chi la legge), gente che massacrò senza
alcuna pietà migliaia di “briganti e non briganti” (era questo il tono
dei loro ordini e resoconti spesso carichi di quel disprezzo e di quel
razzismo che ormai caratterizzava quelle azioni sui modelli di quel
famoso Cesare Lombroso che Pinto pure si limita semplicemente a citare
di sfuggita e non per le sue teorie razziste). Normale e ovvio che poi
quegli unitaristi restassero “compatti sulla necessità di difendere ad
ogni costo l’unificazione distruggendo gli avversari comuni a partire da
briganti e borbonici”: difendendo l’unità difendevano “a tutti i costi”
le loro posizioni acquisite e i loro privilegi che non avrebbero più
perduto da lì in poi per diritto ereditario culturale (le stese
posizioni da oltre 150 anni) o anche genetico (quanti cognomi ritornano
dal passato al presente?). Pinto,
allora, evita di riportare i dati delle prigioni in tutto il Sud
stipate fino all’inverosimile come risulta da numerosi interventi
parlamentari del tempo, evita anche di approfondire, come detto, le
notizie relative ai massacri compiuti in quegli anni non solo a
Pontelandolfo e a Casalduni o a Palermo con la rivolta del “sette e
mezzo” (solo “sfiorata” tra le citazioni), evita di riportare le
cronache crude magari del bersagliere Gastaldi (pure citato per altre
questioni), delle deportazioni (migliaia e, al contrario di quanto
sostenuto da Pinto e come rivelano gli archivi in particolare
dell’Emilia Romagna e della Toscana, anche dopo il 1864) e, infine,
cerca di ridimensionare il numero complessivo dei morti stimandoli in
circa 14.000 (cifra di per sé già vergognosa per uno Stato che avrebbe
ricevuto il consenso dei meridionali ma del tutto inattendibile se
consideriamo le decine di migliaia di meridionali assenti nei confronti
tra i censimenti pochi mesi prima e dopo il 1860 -come attestato dalle
ultime ricerche pubblicate da Pino Aprile in “Carnefici”- o se
analizziamo le parziali relazioni degli ufficiali sabaudi o anche il
numero delle stesse vittime di parte “unitaria”). In
tutto il libro, del resto, a differenza (per citarne uno dei più
recenti e documentati) dei libri di Gigi Di Fiore (“Briganti”, 2017) non
c’è alcun “coinvolgimento” nelle vicende raccontate quando si parla di
briganti. Nessun riferimento, allora, a quello che Di Fiore definisce
(felicemente) un "patrimonio identitario" con queste "pietre smosse
della memoria". Pur nella normale differenza tra gli stili, sono diversi
i casi, invece, di partecipazione con evidente condivisione quando si
parla del “sentimenti” o delle “emozioni” che sapevano suscitare gli
unitari… Ed evitiamo di pensare ai sentimenti e alle emozioni di quei
tanti briganti massacrati dai Fumel di turno. In questo caso i numeri
non possono non contare e l’aplomb quasi inglese misto ad una pacatezza
da osservatore “distante” di fronte alle migliaia di vittime registrate
tra i briganti (centinaia di migliaia se pensiamo ai fucilati, agli
uccisi negli scontri, agli arrestati, processati, deportati o privati
del loro lavoro) non è una nota positiva di questo libro. E così i
contrasti tra i napoletani borbonici all’estero sono, per Pinto,
“sceneggiate” mentre quelli degli unitari, magari, utili e apprezzabili
dialettiche (e Pinto cita l’episodio di un duello famoso e mancato tra
vari esponenti del mondo unitarista senza definirlo, però, una
“sceneggiata”). L’impressione è che Pinto cada spesso nella trappola
della simpatia per il vincitore (se ce lo fate passare lo potremmo
chiamare schema-Juve), “forte e potente” e, in quanto tale, pieno di
sentimenti, idee e mezzi superiori a quelli dei vinti e di per sé più
rispettabile, quindi, del vinto stesso. Scontato, allora, che “Francesco
II era il monarca sconfitto non il monarca trionfante della nazione
italiana e i suoi modesti eroi non potevano competere con Garibaldi o
Cavour”… Come non provare, però, un senso di distacco umano e morale
–aggiungiamo noi- quando pensiamo ad un Tommaso La Cecilia, meridionale
“cacciatore di briganti”, con il suo “entusiasmo di appartenere a una
rivoluzione vincente”, la sua “sintonia ammirata con gli uomini venuti
dal Nord” e il “disprezzo nei confronti di avversari provenienti dalla
sua stessa terra”? E, al pari di La Cecilia, quel Nicola Amore ancora
oggi celebrato con statue e piazze, accanito nemico di briganti e
borbonici e (Pinto evita di raccontarlo) protagonista dei drammatici
fatti di Pietrarsa quando, da questore, diede ordine di sparare sugli
operai che scioperavano per difendere il loro lavoro uccidendone
(almeno) sette, come riuscii a ricostruire grazie alle mie ricerche di
qualche anno presso il fondo Questura dell’Archivio di Stato di Napoli.
Poco da festeggiare, secondo il nostro parere, anche di fronte alla
successiva affermazione di Pinto: “Gli italiani si dimostrarono abili a
isolare e sconfiggere i briganti, registrando una sproporzione tra i
loro caduti e quelli dei briganti”.
Nacque
proprio così la classe dirigente meridionale subalterna e inadeguata e
capace di creare questioni meridionali e di non risolverle per 150 anni
rendendole sempre più gravi. Del resto (è Pinto stesso a confermarlo più
volte nel testo) i borbonici non furono in grado di costituire un
movimento di idee o politico e per 150 anni non si hanno tracce di
formatori o formati (tra le classi dirigenti) con posizioni
“borboniche”. Si tratta di una continuità che non possiamo ignorare ed
eviteremo di seguire il suggerimento rivolto spesso ai neoborbonici
(“non mischiate il passato con il presente”): non possiamo evitare di
mischiarli se il passato è già così mischiato con il presente e di
fronte a classi dirigenti geneticamente o culturalmente eredi di quelle
del 1860. Nacque in quegli anni, del resto, quel patto stato/mafia di
cui ogni tanto avvertiamo l’esistenza. Numerosi anche i documenti citati
o sintetizzati relativi alla parte “borbonica” pur con gli accademici e
consueti “distinguo”: l’autore avrebbe dovuto chiarire, a questo
proposito (magari senza la paura di essere definito “neoborbonico” da
qualche suo intollerante collega), se quello che citavano gli scrittori o
i politici “borbonici” era vero o meno senza limitarsi a pubblicare le
notizie prendendone quasi le distanze. Avrebbe dovuto chiarire (se non
ora, quando?) se era vero o meno, ad esempio, che il plebiscito era
stata una “farsa” (parola di molti osservatori stranieri, in testa
l’ammiraglio Mundy) o se era vero che erano state mafie e camorre a
gestirlo e a gestire il passaggio dai Borbone ai Savoia (come attestano
recenti testi di Benigno, Fiore o Sales). E il tutto, secondo noi, è
riconducibile, infine, ad una conseguenza tra le meno analizzate della
unificazione: una lacerazione sociale e culturale che ancora paghiamo e
che prima non conoscevamo affatto. Il
libro, però, lascia la sensazione di essere “irrisolto” su diverse
questioni. Frequentemente si parla di “vicende poco chiare”, della
necessitò di “altre ricerche” o di dati “incompleti o di dati “parziali”
a dimostrazione del fatto che la questione-brigantaggio resta complessa
e aperta così come restano aperte e complesse, quando si parla di fonti
archivistiche, questioni-simbolo molto discusse in questi anni come
quella di Pontelandolfo o di Fenestrelle (a prescindere da chi, come il
prof. Barbero, pur consultando magari 63 delle oltre 2700 unità
archivistiche esistenti sul tema le ha dichiarate chiuse). Singolare un
altro dato: nel libro sono citati (a campione) alcuni episodi o alcuni
dati che rivelerebbero grandi verità ma per Pinto e per altri accademici
la stessa metodologia non vale quasi mai se la utilizzano i “non
accademici” per dimostrare altre verità… Non
convince neanche la tesi di un brigantaggio in sostanza finito intorno
al 1865 se nello stesso libro sono citati numerosissimi episodi
successivi con una nota dominante: la preoccupazione di generali e
politici di fronte ad una guerra che non si riusciva a chiudere
nonostante i mezzi messi in campo. Nel 1868 il ministro Cadorna aveva
convocato a Firenze diversi prefetti ottenendo la costituzione di un
comando generale delle truppe per la repressione del brigantaggio in
Terra di Lavoro, Aquila, Molise, Benevento, Avellino, Salerno, Cosenza e
Potenza (“il massimo livello di centralizzazione mai raggiunto nella
lotta al brigantaggio”). Negli stessi mesi si denunciava il “numero
sterminato di manutengoli” in Calabria e il 15 marzo 1868 “alla Camera
fu discussa una petizione di decine di consigli comunali che chiesero
quasi un ritorno alla legge Pica per contrastare le bande ancora in
campo. Il governo formò un comando dotato di poteri straordinari,
riconoscendogli la possibilità di misure extralegali”. Colpiscono
alcuni episodi relativi ai briganti nei loro atteggiamenti “eroici”: il
settantenne Vincenzo Viscogliosi, detto l’Amante si mostrò “del tutto
indifferente di fronte alla morte e volle andare diritto e a piedi al
luogo dell’esecuzione”; schema simile per un gruppo di condannati vicini
alla fossa già pronta “non spavaldi, ma neppure avviliti né dimessi,
consapevolmente predisposti”. Suggestiva anche la descrizione del
“corredo brigantesco” rintracciato dopo l’arresto di una banda: “vi si
contenevano alla rinfusa libri, candele, filacce, pane diseccato,
formaggio, polvere da schioppo, stampini da proiettili, lastre di
piombo, carta per cartucce e per scrivere lettere minatorie, lapis,
calze, camicie da donna per fare bende o filacce, posate d’argento,
monete di diverso metallo, calzature di varie forme, fusciacche, nastri,
necessario per scrivere, bottoni, filo, forbici, e molti altri bizzarri
oggetti”.
Aveva
ragione, allora, quel capitano Massa citato alla fine del libro: il
brigantaggio fu guerra di “italiani contro altri italiani”. Ma
raccontare oggi che gli italiani del Nord mossero guerra contro gli
italiani del Sud con la complicità di pochi meridionali (alcuni in
buona, altri in cattiva fede) è un nostro diritto e forse anche un
nostro dovere: una strada per capire (finalmente) come nasce questa
Italia duale che ci ritroviamo ancora oggi con una parte (quella
meridionale) che ha la metà dei diritti, del lavoro, dei servizi, delle
occasioni e delle speranze dell’altra. Altro che “autoassoluzioni”,
altro che “rischio di dividere l’Italia” o di mettere oggi “gli italiani
contro” (l’Italia è divisa nei fatti e gli italiani sono “contro” nei
fatti e nei diritti e non lo ammette solo chi oggi in questa situazione
vive o sopravvive bene più o meno da 150 anni). Il racconto di queste
verità, anche partendo da alcune verità raccontate in questo libro, può
essere importante per creare (finalmente) un’Italia unita da Torino a
Trapani come non lo è stata mai per oltre 150 anni e di certo non per
colpa dei briganti, dei borbonici o, magari, dei neoborbonici…
Gennaro De Crescenzo
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