“10 MAGGIO 1734/2019: E CARLO DI BORBONE CAMBIÒ LA STORIA". Nel 1734 il re entrò trionfante a
Napoli. Se nel 1860 Garibaldi e i Savoia avessero evitato spedizioni e
conquiste, il 10 maggio al Sud sarebbe una festa nazionale… Se
Garibaldi&Savoia nel 1860 avessero evitato spedizioni e conquiste,
il 10 maggio al Sud sarebbe stata festa nazionale. Era la mattina del 10
maggio del 1734, era un lunedì ed esattamente 285 anni fa la città di
Napoli era pronta per una festa che non era nuova nella sua storia:
stava per arrivare un nuovo re. Ma quella sarebbe stata una festa
diversa perché stava per fare il suo ingresso nella capitale del
viceregno prima spagnolo e poi (per pochi anni) austriaco un ragazzo di
diciotto anni, magro, con i tratti chiari e un naso abbastanza
pronunciato. Era Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna e di
Elisabetta Farnese e quella mattina iniziava la storia autonoma del
Regno di Napoli e poi delle Due Sicilie. I nobili lo aspettavano a Porta
Capuana, il corteo si mosse lento e solenne tra monete d’oro e
d’argento lanciate ad una grande folla, colpi di cannone a salve in
lontananza, tante coperte colorate ai balconi, fazzoletti bianchi e
grida di "viva 'o rre". Da via Tribunali al Duomo, da Spaccanapoli a via
Toledo: iniziava così la storia di una Napoli capitale tra le poche,
vere capitali del mondo insieme a Parigi, Madrid, Vienna e Londra.
Difficile sintetizzare le opere di Carlo di Borbone, III di Spagna, VII
di Napoli. Ci basterebbe pensare che, quando dobbiamo ben figurare
magari nei vertici internazionali dei nostri tempi, dovremmo ringraziare
re Carlo: la reggia di Caserta e di Portici, quella di Capodimonte con
le fabbriche di porcellana, gli scavi di Pompei ed Ercolano con
l'Accademia Ercolanese e la nascita, dalle nostre parti, del
Neoclassicismo, il Teatro San Carlo costruito in meno di sei mesi (“non
vi è nulla di simile in tutta Europa”, scrisse il famoso Stendhal) e,
ancora, strade, piazze, porti, l'Acquedotto Carolino (fantascientifica e
colossale opera che portava l'acqua da Benevento a Caserta fino a
Napoli), il Foro Carolino (attuale Piazza Dante, con le statue che
riproducono le virtù del re), il palazzo dei Regi Studi diventato Reale
Museo Borbonico con la collezione Farnese ereditata e lasciata alla
città (attuale Museo Archeologico Nazionale) o anche il Real Albergo dei
Poveri, città nella città, con una delle facciate più grandi mai
costruite e migliaia di poveri assistiti ma anche formati nelle più
diverse professioni (e oggi conosciamo tutti i limiti dei rapporti tra
scuola e lavoro in luoghi, come i nostri, che "vantano" ormai solo i
primati della disoccupazione). Napoli e il regno diventarono un enorme
cantiere sempre aperto, meta preferita dei grandi viaggiatori
internazionali, con una corte frequentata da gente del calibro di
Gaetano Filangieri, ispiratore della costituzione americana e del
concetto della "felicità dei popoli", di Genovesi, con la prima cattedra
di economia al mondo, di Sant’Alfonso de’ Liguori, autore di trattati
teologici ma anche della popolarissima “Quanno nascette Ninno” o del
Principe di Sansevero con i suoi misteri e le meraviglie della sua
cappella e di musicisti come Scarlatti, Pergolesi, Cimarosa o Paisiello,
autore anche dell’inno nazionale del Regno (fu la scuola musicale
napoletana a formare il giovane Mozart). E fu sempre Carlo a riformare
leggi e codici imitati e invidiati da tante altre nazioni e a riformare
il sistema fiscale a vantaggio di chi non era ricco. Intanto, a 22 anni,
il timido e malinconico re di Napoli aveva sposato una quattordicenne
bionda, altera e con gli occhi azzurri: Maria Amalia di Sassonia, dalla
quale avrebbe avuto (tradizione borbonica e napoletana) ben 13 figli e
tra essi Ferdinando, futuro re Ferdinando IV. Ma, tra le tante storie
legate alla storia di Carlo, ci piace ricordare un episodio poco
conosciuto: fu chiamato a Madrid come re di Spagna (era il 6 ottobre del
1759) e tra migliaia di persone accorse, in lacrime, per salutarlo, si
tolse un anello che gli era stato regalato durante gli scavi di Pompei
perché “apparteneva allo Stato”. E preferiamo evitare confronti con gli
attuali politici. Gennaro De Crescenzo
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