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L'orgoglio di essere meridionali

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“IL PATRIOTA. SERGENTE ROMANO, IL TEMPO RESTITUISCE L’ONORE RUBATO”: PRESENTAZIONE A NAPOLI PDF Stampa E-mail

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SABATO 24 NOVEMBRE ORE 18.00, PRESENTAZIONE A NAPOLI: “IL PATRIOTA. SERGENTE ROMANO, IL TEMPO RESTITUISCE L’ONORE RUBATO”. LIBRERIA "IO CI STO" (via Cimarosa 20, Vomero, presso piazza Fuga) con l'autrice, Monica Lippolis e Gennaro De Crescenzo. Qualche parola su un libro bello e

  importante...
Quando pensiamo alla nostra storia siamo abituati a pensare a documenti, saggi o articoli nei quali, spesso polemicamente, spesso contro gli storici “ufficiali” e gli opinionisti più o meno famosi, ricostruiamo le vicende relative al Regno delle Due Sicilie o alle conseguenze dell'unificazione italiana, “in primis” il cosiddetto brigantaggio o l'emigrazione o le irrisolte e sempre più drammatiche questioni meridionali. Nel caso di un romanzo come “Il patriota” di Monica Lippolis, invece, quelle vicende diventano vive, diventano carne, lacrime, sudore, sangue, grida, sole, polvere, pioggia, caldo o freddo forte e davanti agli occhi e nelle nostre orecchie ci ritroviamo i volti e le voci dei protagonisti, di Pasquale Domenico Romano, il sergente Romano e dei suoi uomini, della sua donna, Lauretta D’Onghia o degli ufficiali sabaudi. “Il tempo restituisce l'onore rubato” scrive la Lippolis ma non è una frase di un romanzo o un sottotitolo: è un grido, un augurio, un progetto, una speranza e vale non solo per la storia del sergente Romano ma per tutti i vinti e i dimenticati della nostra storia, gli stessi ai quali abbiamo pensato in tanti (anche Monica e il sottoscritto) durante le recenti e vivaci “battaglie” per il giorno della memoria, contro i soliti “nemici”, sempre attenti magari a difendere la storia “ufficiale” ma sempre meno attenti a difendere i meridionali (da 150 anni privi di diritti, servizi, lavoro, strutture o occasioni). E così la Lippolis ci apre degli squarci nella vita quotidiana di quei tempi: i tanti caffè caldi, l'odore dei cibi, il lavoro nei campi, i lavori in casa, i rosari sulle teste dei letti, tutti pezzi di una vita semplice, quella che fino al 1860 vivevamo dalle nostre parti, non un “paradiso” (mai scritto, mai detto) ma una dimensione politica, economica ed affettiva oggettivamente caratterizzata dalla serenità. E così, scrive la Lippolis, “gli sembrava impossibile che quei prati sarebbero diventati campi di battaglia” (prima che qualcuno, allora, decidesse di distruggere quelle vite e quell’armonia)… E così viene fuori il racconto della battaglia del Volturno (con i feriti garibaldini salvati dai soldati borbonici: due mondi di valori contrapposti), viene fuori il racconto dell’assedio di Gaeta (“quei valorosi uomini in quel momento erano il Regno delle Due Sicilie”, così come, forse -se mi si consente il paragone- sono “oggi il Regno delle Due Sicilie” coloro che si battono per la verità storica a colpi di libri come questo). Così si descrivono gli usi civici (un perno della vita sociale ed economica del tempo, non a caso spezzato dai “liberatori”) e così si descrive una delle conseguenze meno considerate di quella “liberazione” con quelle lacerazioni profonde, mai conosciute prima e mai più rimarginate nel tessuto sociale (“ognuno ha paura dell’altro, siamo diventati tutti spie”). E le parole di Chiara (Monica!) sono una lapide: “è per quelli come te, i traditori, che il mio Paese ha perso la guerra e ora siamo ridotti in schiavitù” (inutile sottolineare l’attualità del messaggio, con i tanti, troppi meridionali -spesso, troppo spesso “classi dirigenti”-  ancora “complici” di un sistema nord-centrico, in cattiva o in buona fede, per interessi personali o per una scarsa consapevolezza).  E ci scorrono nella mente le immagini crude della morte della giovane Lauretta, quelle fiere di Vito che muore “guardando in faccia i suoi assassini”, quelle di quegli “ulivi con gli occhi” che fanno da sfondo pugliese a tutto il racconto, quelle del suicidio di Marcello, italiano consapevole, disilluso e pentito, quelle del salto nel vuoto verso una libertà impossibile di Carmine. “Avrebbe voluto che Francesco II fosse lì, fiero di loro”… e in tanti continuano, invece, a cancellare la verità storica, a negare i massacri o le vere motivazioni (politiche) di una guerra che durò oltre dieci anni e insanguinò quei campi mai insanguinati in quel modo per circa tremila anni di storia…  “Il Regno delle Due Sicilie non ha mai smesso di esistere”, grida un “brigante” dopo una delle tante battaglie vinte (e quella frase resta impressa nella mente di tanti di noi). Ci piace sottolineare, infine, anche qualche tocco ironico come quello della scelta dei nomi “attuali” per diversi personaggi: tra gli altri quel don Mario De Crescenzo -ottimo personaggio, dalla parte giusta e per questo devo ringraziare l’autrice!-, gli Argenio, “antichi” sarti/stilisti, quelli “perfetti” degli ufficiali sabaudi Giletti&Zaia (chissà a cosa pensava la Lippolis…) e lo stesso, perfido “Giovanni Lippolis” al quale l’autrice, però, non assegna un… ottimo ruolo!  
 “Nessuno ha mai creduto che fossi morto e la gente continuò ad aspettare il mio ritorno”, scrive di sé il sergente Romano nell’ultima pagina del romanzo. Ecco: noi sappiamo bene che il sergente Romano fu ucciso e che con lui furono uccisi tanti, troppi meridionali. Ma, anche noi, come 150 anni fa la gente della sua terra, vogliamo continuare a sognare e a credere che ritornerà: senza fucili e senza divisa da “brigante” o di soldato ma nella fierezza di chi continuerà a raccontarlo e a ricordarlo, nella dignità che i meridionali di domani ritroveranno se continuerà questo complicato ma meraviglioso lavoro di ricerca e di divulgazione che passa anche per romanzi come “Il patriota”.
Gennaro De Crescenzo

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