LIBRI DI SCUOLA ANCORA PARZIALI E OFFENSIVI (E NON AGGIORNATI). NOTA INVIATA ALLA CASA EDITRICE “LA SCUOLA” DI BRESCIA, Gentili responsabili della Casa Editrice La Scuola, come responsabile di un’associazione culturale meridionalista (movimento
neoborbonico),
ho ricevuto in questi giorni diverse decine di segnalazioni relative ad
un vostro testo (“COMPRENDERE LA STORIA OGGI" di GIANNI GENTILE, LUIGI RONGA,
ANNA ROSSI, Edizione 2014). Nel testo si segnalano alcune tesi più che
superate da studi sempre più documentati, aggiornati e diffusi. A
proposito della questione meridionale, infatti, gli autori sostengono: 1)
che il divario Nord/Sud era già esistente prima dell’unità d’Italia
(perché “i terreni della pianura padana erano più fertili di quelli
meridionali”, perché “al Sud c’erano ancora latifondi e al Nord moderne
aziende agricole” e perché la produzione industriale era più diffusa al
Nord); 2) I Borbone avevano governato male perché non avevano fatto
“riforme e investimenti nelle infrastrutture e nell’istruzione necessari
per il decollo della rivoluzione industriale”. Si tratta di tesi infondate, considerato che: 1)
le industrie del Sud erano qualitativamente e quantitativamente di
livello pari o superiore a quelle del resto dell’Italia del tempo; 2)
la crisi industriale meridionale è legata unicamente alle politiche
italiane post-unitarie (tra smantellamenti, svendite e mancati appalti); 3)
per la flotta, il sistema portuale, le bonifiche e le opere pubbliche e
assistenziali o la legislazione relativa al commercio i Borbone avevano
ottenuto risultati notevoli (e trend di crescita) anche superiori a
quelli del resto dell’Italia; 4) la produzione agricola del Sud era superiore rispetto a quella del Nord; 5)
un dato su tutti: con i Borbone che “governavano male” non si
registrava (a differenza del resto dell’Italia) un solo emigrante dal
Sud e la popolazione meridionale raddoppiò i suoi numeri in un secolo
circa (1750-1850): drammatici i trend negativi, invece, dal 1860 in poi e
fino ad oggi, sia dal punto di vista demografico che per i redditi, il
pil, le industrie o il numero degli occupati e degli emigranti. Prima
che le pagine del vostro testo diventino “virali” sui social e che
partano (come è già capitato in altre occasioni) “campagne di
boicottaggio” tra i docenti e i rappresentanti delle case editrici
(insegno da anni in una scuola superiore italiano e storia e conosco il
tema), potrebbe essere opportuno, da parte vostra, un intervento e una
modifica del testo in questione. Restando a
vostra (gratuita) disposizione per ulteriori aggiornamenti, ci
permettiamo di suggerirvi alcune indicazioni archivistiche e
bibliografiche anche per evitare di continuare a diffondere, soprattutto
tra i giovani (del Sud come del Nord), immotivati e dannosi complessi
(rispettivamente) di inferiorità e di superiorità che, da oltre 150
anni, hanno creato un paese duale nel quale il Sud continua ad avere (e a
rassegnarsi ad avere) la metà dei diritti, del lavoro, dei servizi,
delle strutture e delle infrastrutture e delle speranze del resto
dell’Italia e dell’Europa. Cortesi saluti Prof. Gennaro De Crescenzo DOCUMENTO 1 “Non
esisteva, all’Unità d’Italia, una reale differenza Nord-Sud in termini
di prodotto pro-capite […]. Il divario economico fra le due grandi aree
del paese in termini di prodotto sembra invece essere un fenomeno
successivo. Se in alcune regioni dell’Italia Nord-Occidentale, come
Liguria e Lombardia, i livelli di reddito pro capite sono
significativamente superiori alla media nazionale, anche nel Mezzogiorno
vi sono regioni relativamente prospere. In Campania il reddito pro
capite è comparabile a quello della Lombardia, mentre in Puglia e nelle
Isole maggiori è analogo a quello medio nazionale […]. Le condizioni
regionali sono, dunque, molto simili e le differenze esistenti nei
livelli del reddito pro capite non rendono possibile una divisione
secondo la linea Nord-Sud…”. Oltre un milione e mezzo gli addetti nelle
industrie meridionali nel 1861 (circa un milione quelli dell’Italia del
Nord) [cfr. Vittorio Daniele, Paolo Malanima, “Il prodotto delle regioni
e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004)”, in Rivista di Politica
Economica, Marzo-Aprile, UMG, Catanzaro, 2007; le conclusioni sono di
fatto identiche a quelle deducibili dalle ricerche pubblicate dallo
Svimez in 150 anni di statistiche: Nord e Sud (1861-2011), Bologna, Il
Mulino, 2011] DOCUMENTO 2 “La
storia economica è il passato dell’economia, e l’interpretazione di
quel passato. Il divario tra Nord e Sud si sviluppa dopo l’Unità, ché
l’industria non cresce nel Meridione come cresce al Nord; quel
fallimento regionale sembra legato al più ampio fallimento dello
sviluppo nazionale. Non riducono il divario regionale gli interventi
massicci del secondo dopoguerra a favore del Mezzogiorno; questo
fallimento sembra legato al fallimento degli storici economici, che non
compresero i vincoli che condizionarono lo sviluppo dell’Italia
post-Unitaria […] ed è necessario, pertanto, considerare le
responsabilità delle politiche economiche di quel periodo e quelle, non
minori, della relativa storiografia”. Negli anni immediatamente
successivi all’unificazione, quindi, “non si evidenziano, nel
Mezzogiorno, fenomeni di deindustrializzazione […], le quote regionali
cambiano poco tra il 1871 e il 1881 e la differenziazione
macro-regionale è concentrata nel trentennio seguente” [Cfr. Stefano
Fenoaltea, “I due fallimenti della storia economica: il periodo
post-unitario” in Rivista di Politica Economica, marzo-aprile 2007,
Roma, pp. 341-345]. DOCUMENTO 3 Tra
il 1847 ed il 1859 il debito pubblico piemontese aumentò addirittura
del 565 per cento. L’ammontare complessivo sarebbe ulteriormente
cresciuto, grosso modo triplicandosi, tra il 1859 ed il 1861, quando
raggiunse i 2 mila milioni di lire, un valore astronomico per quei
tempi, specialmente per un piccolo Stato come il Piemonte. Sembra che
nell’anno precedente all’unificazione Cavour fosse giunto al
convincimento che, ben presto, l’alternativa sarebbe stata
l’unificazione dell’Italia o l’inadempienza (default) del Regno di
Sardegna. L’unificazione -e il sistema di governo unitario che ne
sarebbe conseguito- avrebbe permesso di raggiungere uno dei più
importanti obiettivi di Cavour e avrebbe altresì offerto una via di
uscita dai problemi finanziari del Piemonte… (cfr. Vito Tanzi, ex
direttore del Dipartimento di Finanza pubblica del Fondo monetario
Internazionale dal 1981 al 2000, consulente della Banca Mondiale, e
sottosegretario all’ Economia dal 2001 al 2003 in una lectio dedicata a
Marco Minghetti presso la Fondazione CRT di Torino su “150 anni di
finanza pubblica in Italia”; cfr. anche Il Giornale, Milano, 26 ottobre
2011) DOCUMENTO 4 “Ancora
alla fine del XIX secolo, i contadini meridionali producevano un terzo
in più di quelli settentrionali. Questi i dati relativi agli indici di
produttività lorda vendibile per addetto nel 1871: Piemonte 60,5;
Lombardia 55,8; Veneto 50,4; Campania 60,0; Puglia 92,0; Calabria 102,7.
Nel 1951 la produttività sarebbe diventata superiore del 40% nel Nord
(PLV: Piemonte 204,2; Campania 114,3) in un trend ormai, come si è già
visto, consolidato nel tempo e nei diversi settori… [Giovanni Federico,
“Ma l’agricoltura meridionale era davvero arretrata?”, Rivista di
Politica Economica, European University Institute, Bologna, Il Mulino,
III-IV, 2007, pp. 317-340]. DOCUMENTO 5 “I
proprietari terrieri, anche meridionali, erano disponibili ad investire
in innovazioni profittevoli anche se molto costose... In termini di
crescita della produzione, invece, l’agricoltura meridionale non è stata
inferiore a quella del Centro-Nord e non si può neppure escludere che
il Sud fosse inizialmente più produttivo” [Guido Pescosolido, Unità
nazionale e sviluppo economico, Bari, Laterza, 1998, p. 81]. DOCUMENTO 6 “L’arretratezza
industriale del Sud, evidente già all’inizio della prima guerra
mondiale -scrivono gli autori di una pubblicazione edita dalla Banca
d’Italia- non è un’eredità dell’Italia pre-unitaria”. “Si rafforzano
così le principali ipotesi revisioniste suggerite dai dati regionali
[...]: un cambiamento radicale avvenne solo negli anni ’80 e ’90, quando
emerse il triangolo industriale” [Milano-Torino-Genova]. Altrove, la
conseguente deindustrializzazione fu la regola”. Altri dati dimostrano,
tra l’altro, che nel 1871 il tasso di industrializzazione del Piemonte
era del l’1.13%, quello della Lombardia 1.37%, quello della Liguria
1.48%. Erano già trascorsi dieci anni di smantellamento dell’apparato
industriale dell’ex Regno delle Due Sicilie, con il ridimensionamento di
importanti stabilimenti come le officine metallurgiche di Pietrarsa
(oltre 1050 addetti prima dell’unificazione, ridotti a 100 nel 1875), e
della Mongiana in Calabria (950 addetti nel 1850, ridotti a poche decine
di guardiani nel 1873), ma l’indice di industrializzazione della
Campania era ancora dello 1.01% (con Napoli, nel dato provinciale,
all’1.44%. Più di Torino, che era all’1.41%), quello della Sicilia allo
0.98%, (ai livelli del Veneto, 0.99%) [Carlo Ciccarelli e Stefano
Fenoaltea, “Attraverso la lente d’ingrandimento: aspetti provinciali
della crescita industriale nell’Italia postunitaria”, in Quaderni di
Storia Economica (Economic History Working Papers), n. 4, luglio 2010,
Roma, Banca d’Italia ] DOCUMENTO 7 “Come
il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la
Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del
costo del debito più basso in assoluto”… [Stephanie Collet, A Unified
Italy? - Sovereign Debt and Investor Scepticism, Université Libre de
Bruxelles (ULB), March 15, 2012] DOCUMENTO 8 “Alla vigilia dell’unità d’Italia il Sud si presentava con i conti in ordine, il Nord pieno di debiti: il rapporto debito/Pil era al 16,57% per le Due Sicilie, al 73,86% per il regno sabaudo” [Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2011] |