ANCORA MEMORIA, ANCORA GLI ACCADEMICI, ANCORA REPLICHE PUBBLICATE SU "REPUBBLICA" (31/8/17) "CONTRO" MUSI E VALENZI... La prof.ssa Lucia Valenzi, nel suo articolo su Repubblica
del 25/8/17, attacca
la "storia sui social" e il giorno della memoria. Su una cosa possiamo
concordare con lei: non basta scrivere su fb per proclamarsi storici.
Spesso, però, non basta neanche avere una cattedra o scrivere su riviste
accademiche se è vero quello che qualche (rigoroso e onesto) accademico
come il prof. Luigi Musella scrive ("nelle accademie è prevalsa una
lettura ideologica ed è mancata una ricerca rinnovata sul Sud... È stato
un errore snobbare i neoborbonici e il successo della loro impostazione
è evidente"). È un errore, allora, anche continuare a sostenere tesi
vecchie e superate (anche) da ricerche di altri accademici più
"coraggiosi" (e, forse, liberi da preconcetti e ideologie). Le Due
Sicilie non erano "fatiscenti" e non subirono affatto un "crollo
endogeno" (è lo stesso Croce a negare una tesi tra l'altro
inconciliabile con quei 120.000 soldati sabaudi inviati da queste parti
e... "pare che non bastino", come scriveva quel D'Azeglio che si poneva
anche il dubbio se era giusto o no imporre a gente che non li voleva la
loro "presenza"). Moderne o meno, le industrie al Sud c'erano e
occupavano oltre un milione e mezzo di operai (22,8 per cento della
popolazione "attiva nell’industria" contro il 15,5 del Centro-Nord).
Ovvia la crisi progressiva di quelle fabbriche se lo stato unitario
decide di appaltare ferrovie e navi nel Centro/Nord o di prelevare i
macchinari delle nostre fabbriche (un occhio ai documenti dell'Archivio
del Comune di Piombino le avrebbe evitato di pensare che si trattasse di
una "leggenda neoborbonica") o di sparare sugli operai di Pietrarsa che
protestavano per la perdita del loro lavoro (agosto 1863, ASN, fondo
Questura, almeno 7 morti: i primi martiri operai almeno italiani ed è di
certo strano che accademie e fondazioni così attente a questi temi non
li abbiano mai affrontati). Che il "brigantaggio" sia stato legato alle
lotte sociali è tesi non del tutto dimostrata se leggiamo i resoconti di
chi ha studiato per decenni i documenti superstiti: il colonnello
Cesari o lo stesso Ferrari (uomo della sinistra radicale del tempo) con
la convinzione della matrice politico/borbonica o lo stesso Molfese, per
il quale non era ipotizzabile una coscienza di classe tra gli
insorgenti (per giunta sopravvenuta stranamente fin dal giorno
successivo all'arrivo di Garibaldi a Napoli se guardiamo ai dati
archivistici relativi alla provincia di Napoli o di Avellino e Foggia!).
Sul numero di quei "giovani generosi" unitaristi e antiborbonici la
prof.ssa Valenzi potrebbe chiedere informazioni adeguate alla prof.ssa
De Lorenzo che li ha quantizzati in circa 100 esuli in tutto. Tanti i
dubbi sul suo stesso concetto di democrazia se il "sacrificio di quegli
eroi" al centro della sua mostra nel 2011 non viene almeno confrontato
con il sacrificio successivo di centinaia di migliaia di meridionali
massacrati, feriti, incarcerati o deportati (v. i dati degli Archivi di
Modena o Livorno, ad esempio o le denunce di tanti parlamentari tra gli
Atti della Camera) per oltre un decennio dal 1860. Altro che "leghe del
Sud": i neoborbonici da 24 anni non si sono mai candidati neanche nei
loro condomini e gli stessi accademici oggi impegnati contro il giorno
della memoria non si sono mai rivolti contro quella lega che al governo
c'era e c'è ancora o contro le scelte antimeridionali dei governi di
turno Altro che "uso politico della storia": per 150 anni è l'Italia che
ha usato politicamente la retorica e le mistificazioni
risorgimentaliste. Altro che "secessionismi": noi vorrremo semplicemente
e finalmente unire questo Paese ma assicurando ai nostri giovani gli
stessi diritti, lo stesso lavoro, gli stessi servizi e le stesse
speranze dei giovani del resto dell'Italia e dell'Europa perché -forse
qualcuno dall'alto delle sue cattedre o delle scrivanie dei giornali non
se n'è accorto- quei giovani da 150 hanno la metà di quei diritti e di
quelle speranze. E
resta un dubbio: e se invece di criticare i social o i neoborbonici,
iniziassero a fare un poco di sana e inedita autocritica quelle classi
dirigenti (e i loro formatori) che, generazione dopo generazione, in
questi 150 anni non hanno risolto le questioni meridionali e le hanno
anche aggravate? "Il Sud sarà presto un deserto", scrive l'Istat di
fronte alle nuove emigrazioni giovanili anche queste passate nel
silenzio degli accademici oggi impegnati a gridare contro il giorno
della memoria. E se fosse davvero arrivato il momento di cambiare classi
dirigenti (e i loro formatori con le loro tesi) per far posto a giovani
consapevoli e fieri e (finalmente) pronti a salvare il Sud di domani? Prof. Gennaro De Crescenzo. Il
prof. Aurelio Musi, nel suo articolo su Repubblica del 27/8/17 opera un
apprezzabile tentativo di capire il fenomeno
neoborbonico&revisionista ma quello che lascia più perplessi sono
proprio le premesse storiche e le metodologie che suggerisce per ridurre
il gap tra accademie e "masse" (mix vincente di
neoborbonici&revisionisti). Il problema, forse, non è nella forma o
addirittura nelle location ma proprio nei contenuti. In sintesi: non è
facendo lezione nelle discoteche che gli accademici vinceranno... Non
regge più, alla luce di ricerche nuove e documentate e della loro
diffusione sul web, la tesi della "inesistenza dei primati borbonici"
(sono falsi i dati sulla crescita demografica o sulla mortalità
infantile o quelli sugli iscritti alle università o sull'assistenza
sociale o sulla flotta mercantile e così via?). Non regge più, forse, la
tesi del 1848-spartiacque (fu lo stesso Croce a ringraziare Ferdinando
II per aver salvato la Sicilia dalle mire inglesi). Non regge più la
tesi dell'implosione del Regno (la smentì sempre Croce ed il quadro di
un complotto extra-nazionale è chiaro nei recenti studi del prof. Di
Rienzo). Non regge più la mitizzazione dei "capolavori diplomatici di
Cavour" o delle "capacità militari di Garibaldi" (sempre più in dubbio e
sempre più da collegare ai danni procurati al Sud) o di quei patrioti
appartenenti a settori "non marginali della popolazione meridionale"
(meno di cento esuli, secondo i calcoli della De Lorenzo). Non regge
neanche la tesi dell'unificazione come "unica via per integrare l'Italia
nell'Europa più avanzata" visto che Napoli e il Sud erano già da tempo
(per cultura) nell'Europa avanzata con indici di industrializzazione o
di crescita demografica o redditi medi o pil pari o superiori a quelli
del resto dell'Italia fino al 1860 e fino a far sospettare che (visto lo
sviluppo duale di questo Paese) si favorì l'ingresso del Centro/Nord
nella "Europa avanzata" (ammesso che "avanzata" lo fosse davvero)
attraverso l'uscita del Sud da quella Europa (è lei stesso a scrivere
che "il distacco del Mezzogiorno dall’area più avanzata del paese, si
avviò a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento": siamo noi ad
aggiungere che quel distacco non è stato mai colmato e di certo non per
colpa di neoborbonici o revisionisti ma di classi dirigenti e formatori
inadeguati da 150 anni). Non regge più neanche il modo con il quale si
definiscono gli "interlocutori/avversari" (amare la propria storia non
significa essere "nostalgici", divulgarla come magari fa -con successo-
il cantautore Povia non autorizza nessuno a definirlo "neofascista o
razzista"). Non regge più neanche la tesi delle "vittime tra fautori e
oppositori del nuovo Stato" in una sorta di indimostrata e
indimostrabile "par condicio" tra le vittime post-unitarie se pensiamo
ai circa 120.000 soldati sabaudi scesi dalle nostre parti non per fini
turistici, se pensiamo ai documenti degli archivi centrali (militari e
civili) e locali che rivelano ogni giorno di più le dimensioni di una
tragedia che (tra fucilati, uccisi e feriti negli scontri, incarcerati e
deportati e paesi eccidiati e distrutti) causò centinaia di migliaia di
vittime. Esattamente quelle che dopo un secolo e mezzo avremmo
semplicemente il diritto e il dovere di ricordare. Proprio da qui e non
dalla criminalizzazione di chi ha proposto e democraticamente votato
quel giorno della memoria, potrebbe partire (a prescindere dalle
location usuali o "inusuali") un nuovo corso per chi studia la storia a
livello accademico e chi la studia (non esistono più regimi, esclusive o
monopoli, per fortuna) da volontario senza patenti da storico
"ufficiale" ma con passione, libertà e orgoglio (forse gli elementi che
spesso mancano nelle accademie). Cortesi saluti. Prof. Gennaro De Crescenzo
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