Qualche osservazione sul nuovo libro di Eugenio Di Rienzo (“L'Europa e la ‘questione napoletana’ 1861-1870”) con una perplessità di fondo: Di Rienzo in questo libro spesso sostiene tutto e il contrario di tutto e spesso
smentisce se stesso e le
tesi esposte nei precedenti libri. Nella premessa, a proposito delle
celebrazioni dei 150 anni dell'Italia unita, ritiene "doverosa la
replica alle tesi revisioniste della cosiddetta tendenza neo-borbonica"
pur evidenziando i limiti della "vecchia ricetta neo-sabauda". Peccato
che Di Rienzo stesso, in occasione della pubblicazione del suo libro
sulle "Due Sicilie e le potenze europee", abbia denunciato che "quelle
che erano ritenute leggende neoborboniche erano la verità". Peccato che,
pur essendo per noi motivo di orgoglio, è un'operazione non del tutto corretta mettere sullo stesso piano 150 anni di monopolio della
storiografia ufficiale (accademica, neosabauda e lautamente finanziata
con pubblico denaro) e la (povera e recente) storiografia
"neoborbonica". Per Di Rienzo "è vano soliloquio parlare di primati
economici della Nazione Napoletana, di lager dei Savoia, di genocidio
del Sud". Peccato che il concetto di soliloquio sia smantellato dal
dibattito che queste tesi hanno acceso in questi anni e dai suoi stessi
libri (compreso quello di cui parliamo) e nati proprio per rispondere a
certe tesi (trattasi di "dibattito" o "dialogo" e non "soliloquio").
Peccato che di sostanziali primati economici abbiano parlato studiosi o
accademici come Nitti, Tanzi, Daniele, Malanima, Fenoaltea, Ciccarelli,
Collet o Davis. Peccato che quei "lager" esistessero davvero (per i
soldati come per i civili deportati a decine di migliaia, come ci dicono
i documenti degli archivi di Emilia o Toscana). Peccato che con quelle
modalità e quelle quantità di repressione sia lo stesso Lemkin
(inventore della parola) a spiegarci che "genocidio" è la parola adatta.
Peccato che lo stesso Di Rienzo (pur definendo "vani soliloqui" quelle
tesi) utilizzi una parentesi di ben 8 righe per dire che in fondo
qualcosa che non andò per il verso giusto ci fu (l'arretratezza non era
solo italiana, la "prigionia dura e infamante" dei soldati, "gli
spietati metodi della controguerriglia"). Peccato che se non ci fosse
stata questa storiografia "di tendenza neo-borbonica" o se non ci
fossero stati grandi divulgatori magari come Pino Aprile a scrivere e
spesso a gridare queste verità lo stesso Di Rienzo non avrebbe
affrontato questi temi e in tanti starebbero ancora a raccontare le
storielle dei mille in camicia rossa da Quarto a Marsala (come hanno
fatto per 150 anni). "Stolta" la mitologia borbonica, "stolta" quella
risorgimentale e giù con altre 5 righe (tutto e il contrario di tutto)
di "ammissioni" (la perdita di sovranità ecomomica e politica, la
sconfitta per mano straniera, il peggioramento delle condizioni di
vita, il razzismo antimeridionale, il confronto con altre storiografie
che non hanno omesso le loro storie: tutte tesi -aggiungetemmo noi-
"neoborboniche"!). Significativo, poi, l'elogio del concetto di amore
per la propria terra "ma senza inutili recriminazioni". È qui la sintesi
del problema perché alcuni di noi (neoborbonici e non) fanno ricerche e
(soprattutto) divulgazione, convinti che certe notizie non devono e non
possono restare chiuse (dopo 150 anni!) nella polvere e nella muffa di
archivi e accademie. Non ci interessa una storia sterile e settaria, una
storia "per pochi", una storia senza connessioni con il presente (mi
pare che qualcuno parlasse, tempo fa, di una storia "maestra di vita").
Altro che "senza recriminazioni": a meno che io non sia piemontese e a
meno che io non sia meridionale e in possesso di ville a Posillipo o
incarichi o ruoli di prestigio da difendere (o aspirazioni similari), se
io mi accorgo che da 150 anni la mia terra è sistematicamente
colonizzata, umiliata o dimenticata io ho tutto il diritto e il dovere
(se amo davvero questa terra) di recriminare, di denunciare e di
pretendere una par condicio politico-economica che, dopo un secolo e
mezzo, mi spetta! A proposito di contraddizioni, il testo che viene
utilizzato per aprire il libro (quello di Croce più volte citato dai
neoborbonici e relativo al fatto che il Regno non cadde per "implosione"
ma per un "urto esterno") viene in qualche modo smentito a p. 14 quando
si sostiene la tesi della... implosione: la tesi contraddice, inoltre,
il precedente e corposissimo libro di Di Rienzo a proposito del decisivo
intervento inglese e francese nell'unificazione italiana con la
finalità di "colonizzare il Mezzogiorno". Eppure era Di Rienzo stesso a
sostenere che "la storiografia ufficiale ha sempre accantonato [questa
tesi], spesso con immotivata sufficienza ed essa ha trovato credito
soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a
volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filo borbonica". Sul
brigantaggio-guerra civile (e noi non capiamo cosa ci facessero dalle
nostre parti i circa 150.000 soldati sabaudi) e sulla fine del
Regno-conseguenza della mancata concessione della costituzione possiamo
solo notare che Di Rienzo si adegua alla vulgata risorgimentalista più
classica e retorica (tra i difensori della prima tesi il prof. Barbero,
accanito "oppositore" delle tesi neoborboniche, curatore di una collana
per la quale Di Rienzo ha scritto recentemente un saggio). Numerose
anche altre citazioni di autori più volte citati dai neoborbonici (il
Duca di Maddaloni, Durelli, de Sangro, Cava, Savarese, Garnier o lo
stesso Lennox che occupa la seconda parte del libro o i recenti Daniele o
Malanima). Si ammette così (con lo schema dell'altro libro) che non
sono una leggenda neoborbonica la tesi dei clamorosi deficit sabaudi o
quella degli arresti e delle epurazioni, dei saccheggi e delle stragi
("Reign of terror" per Lennox), la tesi secondo la quale la camorra e la
mafia diventarono garibaldine e liberali con un potere "spaventevole"
(Mecnikov, du Camp), la tesi della "svendita" del Sud da parte di alcuni
eroi meridionali del Risorgimento (Silvio Spaventa tra i primi a
diffondere i pregiudizi di un Regno "ammorbato dal lezzo e dal
fradiciume"), la tesi di un Sud tutt'altro che "immobile" dal punto di
vista economico concedendo "eccellenze" ma con qualche riserva sulla
mancata creazione di un sistema (dov'è che in Italia le industrie
facevano sistema a quel tempo? Non era "sistema" il polo industriale
calabrese a Mongiana o quello della zona Est di Napoli?). Idem per le
industrie "troppo legate allo Stato (ma è vero che i Borbone
"stimolarono le attività produttive"). Idem per l'agricoltura (forte,
però, "l'incremento delle superfici seminate e delle culture pregiate").
Nessuna "Borbonia felix", allora (e chi aveva mai parlato di Borbonia
felix?) ma nessun "Piemonte e nessuna Lombardia felix"): l'Italia era
"tutta arretrata" per Di Rienzo ed è la tesi che portiamo avanti da anni
di fronte a quella della inferiorità del Sud preunitario: ci interessa
quel confronto e non quello magari con olandesi o svizzeri per
dimostrare che quella arretratezza -come sostiene l'ultimo Davis- è
frutto del 1860 e non premessa o addirittura causa dei problemi di oggi.
Deludente, infine, la tesi-sintesi del libro sulla
"meridionalizzazione" dell'Italia: Di Rienzo aderisce sostanzialmente
alla tesi-mantra della storiografia ufficiale dal 1860 ad oggi, da
Lombroso a Barbero, la tesi che garantisce intere pagine di giornali e
ore ininterrotte di tv (se non carriere brillanti ai suoi giovani
sostenitori), la tesi che ha consentito (e consente) ai governi di turno
di lasciare irrisolte le questioni meridionali e di auto-assolversi:
"tutta colpa del Sud". E Di Rienzo sottolinea quella "entrata in massa
dei politici terroni" prima nella burocrazia e poi nella piccola e
grande politica dove si sarebbero prese le decisioni fondamentali che
condizionarono il futuro del nostro Paese". Ed è Di Rienzo stesso a
rispondere alla sua domanda sui "motivi per i quali questi uomini del
meridione, arrivati ai posti di comando, si siano generosamente
nazionalizzati diventando solleciti servitori dell'Italia e rivelandosi
incapaci di colmare il distacco tra Nord e Sud, la cui forbice, come
abbiamo visto, cominciò a manifestarsi e ad allargarsi solo dopo il
1861". Evidentemente, per diventare e restare classi dirigenti, "quegli
uomini del meridione" dovevano garantire al sistema duale italiano la
continuazione di quel sistema di cui, a livello culturale come economico
e politico, erano e sono "complici" pur di non vedere compromessi i
loro interessi personali. Una tesi, questa, sostenuta anche in una
recente pubblicazione di P. Macry (Unità e Mezzogiorno). Quello di Di
Rienzo, allora, è un libro che per certi versi ripete le tesi
neoborboniche e per altri cerca di confutarle. Certo è che qualche
dubbio ce lo fornisce anche la (positiva) recensione di Giuseppe
Galasso, testimonial eccellente della cultura "ufficiale" con una
domanda che ci poniamo e alla quale, con il tempo, riusciremo a dare una
risposta: probabilmente la cultura ufficiale, di fronte all'ondata di
successo della storia "altra" (più o meno neoborbonica) sta cercando di
fare suoi certi temi ma con una impostazione "politicamente corretta",
senza "recriminazioni" e senza rischi di connessioni con il presente e
(soprattutto) con il futuro. L'esatto contrario dei nostri obiettivi.
Che resta quello di formare e cambiare le nostre classi dirigenti
(piaccia o no alle classi dirigenti attuali che magari scrivono o
recensiscono libri): quelle che (dal 1861, solo dal 1861, come ammette
Di Rienzo) hanno ridotto il Sud nelle condizioni che conosciamo e che
abbiamo la speranza, il diritto e il dovere di cambiare. P.S. Il prof Di Rienzo ci ha comunicato di non aver gradito la recensione. Ci dispiace. Ma se il prof. Di Rienzo, a chi non
segue le sue tesi, riferisce "stoltezze" e "vani soliloqui", poteva mai
aspettarsi rose, fiori e recensioni cariche di entusiasmo? Gennaro De Crescenzo
|