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L'orgoglio di essere meridionali

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I Nostri Eroi PDF Stampa E-mail

Capua, 13 ottobre 2001

I nostri eroi

Gennaro De Crescenzo

E' da sottolineare, al contrario di quanto possa sembrare in apparenza, la grande attualità dei temi trattati oggi.

Gli ultimi recenti esempi di orgoglio americano sono stati accompagnati o da una perplessità scettica o da un sottile sentimento di invidia: facciamo fatica, noi italiani, a ritrovare lo stesso orgoglio per la nostra Italia o la nostra bandiera.

E' sempre di questi mesi, poi, il tentativo di rispolverare e dare nuova luce a busti garibaldini o a inni e simboli del "risorgimento": è il tentativo magari compiuto anche in buona fede di salvare la nostra storia e la nostra identità ufficiali ma, a prescindere da chi e da come lo faccia, la sensazione è che anche questi tentativi, dopo 140 anni di una storiografia unilaterale e parziale, non servano e non funzionino relegando bandiere e cori ai pochi spazi che un gol di Del Piero o Totti possono concedere a questo a quel campionato mondiale di calcio.

Che cosa fare, allora, per ritrovare o (come sarebbe più corretto dire) "trovare" il nostro orgoglio e la nostra identità, visto che a quest'Italia, non fosse altro che per tutto quello che gli abbiamo dato noi meridionali in questo secolo e mezzo, non possiamo e non vogliamo rinunciare.

Probabilmente possiamo semplicemente azzerare tutto e restituire verità alla storia: non si costruisce, e questi anni ce lo dimostrano, una nazione e un'identità nazionale fondandola sulle mistificazioni, sulle cancellazioni e sulle falsificazioni che hanno da sempre accompagnato la storia dell'unificazione italiana.

C'è da ricostruire tutto un altro percorso storico magari partendo proprio da quel 1799 che vide insorgere diverse popolazioni italiane ed anche europee contro la devastante onda della rivoluzione francese, o magari partendo dalla storia della nostra patria napoletana e dei nostri eroi, quelli che sono sepolti magari qui sotto i nostri piedi, che hanno camminato per queste nostre strade e sono morti combattendo per l'unica nazione che conoscevano e riconoscevano.

In tempi di global e antiglobal (il discorso ? coerente ) l'unica possibilità che ci resta è quella che proprio i Borbone avevano individuato e difeso fino a quelle estreme conseguenze che conosciamo: la valorizzazione delle nostre tradizioni locali, delle vocazioni del nostro territorio e delle aspirazioni della nostra gente.

Non si può pensare che i nostri ragazzi debbano imparare a memoria la storia del Duomo di Firenze o della Cattedrale di Notredame senza conoscere la storia della chiesa di Santa Chiara o di questa chiesa; non si può insegnare la letteratura inglese o quella (oggi di moda) turca senza spiegare chi erano Giambattista Basile o Ferdinando Russo.

Ma il passato per il passato non ci interessa; la nostalgia fine a se stessa o il rimpianto sterile di ciò che siamo stati sono lontani dalle nostre manifestazioni, dai nostri progetti e dai nostri sogni.

Da vero "movimento culturale" stiamo cercando semplicemente (e con risultati inaspettati) di ricostruire il nostro passato partendo proprio da qui, da questi luoghi, da questi fatti e da questi avvenimenti, di conoscere sempre meglio la nostra storia e di divulgarla il più possibile soprattutto tra i nostri giovani.

E puntiamo tutto su una scommessa: il Volturno raccontato ai nostri ragazzi significa ancora qualcosa:  l'esempio che non abbiamo avuto in tutti questi anni, il riferimento necessario che ci è sempre mancato per diventare veri meridionali e napoletani veri o per andare a costituire quella classe dirigente che ci manca da 140 anni.

Ragazzi più consapevoli, ne siamo sicuri, non avrebbero svenduto a Torino il Banco di Napoli, dirigenti più fieri non avrebbero distrutto a pezzi quello che restava della nostra economia. Partono ancora troppe navi dai nostri porti per pensare che questa storia debba solo essere passato e nostalgia.

Detto questo come necessaria premessa, è utile fare qualche breve esempio di quello che per noi significa l'aggettivo "eroico" ieri come oggi.
Basterebbe anche solo analizzare l'uso di parole come "eroismo", appunto, o "fedeltà", "lealtà", "onore", "dignità" o "orgoglio" nei discorsi ufficiali di Francesco II o negli articoli della Gazzetta di Gaeta.

L'8 settembre del '60 il colonnello Girolamo de' Liguoro, al comando del Nono di Linea e del Tredicesimo Battaglione Cacciatori, accompagnato dal rullo dei tamburi e dalle bandiere spiegate, attraversò la città di Napoli già occupata dai garibaldini da Castel Nuovo a piazza Carlo III verso Caserta e Capua per raggiungere il suo Re: "C'era un'ostinata e sprezzante determinazione negli sguardi e nel contegno di quegli uomini",? racconta l'ammiraglio inglese Mundy.

"Ho combattuto non per me ma per l'onore del nome che portiamo consolato solo dalla lealtà di questa prode Armata" dice Francesco II l'8 dicembre: quale onore e quale lealtà dimostrano di possedere quei politici e quegli intellettuali che continuano a non rappresentare e a difendere la nostra gente

Manca, per tornare al nostro tema centrale, una nostra storia "epica", a partire proprio da quelle giornate tra il 16 e il 24 a settembre a due passi da qui, lungo il Volturno (a Gradillo, a Triflisco, a Piedimonte o a Roccaromana) o da quella mattinata nebbiosa di quel lunedì 1 ottobre del 1860 (erano le quattro e trenta quando iniziarono i combattimenti).

E nessuna strada, nessuna scuola (neanche a Naso, suo paese siciliano originario) e nessun film ricordano quello che poteva diventare il nostro scrittore "epico", quel don Giuseppe Buttà che nel suo viaggio da Boccadifalco a Gaeta, al seguito di esercito e di re, segue e descrive "in diretta" le tragiche vicende finali di un Regno raccontandole con grande passione e con grande seriet? addirittura rammaricandosi, ogni tanto, di non ricordare il nome di questo o quel soldato.

E con lui scopriremmo quei soldati del Nono Reggimento di Linea che il 19 settembre inseguirono i garibaldini fino al convento dei Cappuccini di Santa Maria ritornando "lieti per la vittoria al solito grido di Viva il Re" mentre i nemici retrocedevano fino a Caserta gridando "si salvi chi può"...

Nello stesso giorno il vecchio generale Rosaroll che aveva combattuto anche in Russia contro Napoleone e che "pure essendo al ritiro, volle difendere la patria pericolante e l'amato giovane sovrano", uscì da Capua incitando i suoi soldati e fu ferito gravemente "dando l'ultima prova del suo valore e attaccamento al sovrano e alla patria napoletana" (prima di essere arrestato, una volta a Napoli, come uno dei tantissimi "reazionari").

Sempre negli stessi giorni i soldati del Quattordicesimo Battaglione Cacciatori (e tra essi il tenente Giacomo Malinconico e il capitano Sinibaldo Orlando), nel nome di valori che sarebbero stati cancellati per sempre, "passarono a nuoto il fiume per soccorrere i garibaldini feriti sulla sponda sinistra e due di quei valorosi tanto disprezzati e calunniati vi perdettero la loro vita".

In questo caso fu lo stesso Padre Buttà a dare l'esempio: "mi tolsi in fretta il tricorno e il soprabito e mi slanciai nel fiume: un grido di applauso echeggiò nella valle e non meno di 40 soldati mi fecero seguito [...]; uscito dal fiume, siccome non avevo altri panni per cambiarmi, il freddo mi faceva battere i denti... in un pagliaio potei spogliarmi e restai avvolto in un cappotto da campo... altri soldati accesero un gran fuoco e il capitano Carrubba faceva dello spirito per tenerci allegri e tra le altre cose supponeva il caso che ci avessero assaltato i nemici mentre io e altri soldati ci trovavamo abbigliati in quella semiadamitica toilette"...
E che lo spirito profondamente ironico dei napoletani venisse fuori anche in quei momenti ce lo dimostrano anche altri episodi (1).

Davanti a S. Angelo, le avanguardie garibaldine furono colte dal terrore quando, tra case di tufo e filari di viti, si trovarono di fronte lunghe colonne di uomini dai pantaloni rossi che avanzavano accompagnati da quel loro grido di guerra ("viva 'o Rre"), che sembrava una scarica nel folto di una foresta: riconobbero così i migliori uomini dell'esercito borbonico, quei Cacciatori che a Calatafimi e a Milazzo, erano stati vicini alla vittoria . I garibaldini furono spinti fuori dalle loro "casine fortificate" di S. Angelo e i napoletani, dopo otto ore di un'estenuante battaglia, si gettarono su prosciutti, formaggi e pentoloni del rancio abbandonato dai nemici: alcuni, mangiando, continuavano a sparare (2).

Erano gli stessi uomini che avevano ucciso un cavallo ed il cocchiere di Garibaldi che, non riconosciuto, riuscì a fuggire salvando il suo "risorgimento". Gli stessi dell'assalto all'anfiteatro, spinti dalla presenza dei fratelli del Re, il Conte di Trani e quello di Caserta o dall'entusiasmo delle popolazioni che, come avvenne a S. Maria, "metteva panni bianchi ai balconi gridando Viva il Re e chiedendo armi per dare addosso ai rivoluzionari" (3).
Eroi nonostante tutto e tutti e, soprattutto, nonostante i loro capi e le loro guide, quei tanti generali come il Ruiz (quasi ucciso dalla sua truppa) o l'Afan de Rivera che ebbe per punizione della sua decisiva assenza nei combattimenti il comando della Guardia Reale...(4).

Lo stesso Buttà ebbe il "cuore affranto" quando, la mattina del 16 ottobre, dovette "preparare l'infelice sergente Bruno" prima dell'esecuzione. Il generale Salzano, infatti, usò con lui tutta la severità che avrebbe dovuto riservare ad altri ufficiali: ad un suo rimprovero rivolto agli artiglieri che sparavano cannonate sui garibaldini, il sergente aveva semplicemente fatto osservare, tra gli applausi dei soldati presenti, che era meglio sparare munizioni sui nemici piuttosto che lasciarle a loro.

E qui diventa più ampia e amara la pagina dei rimpianti e della rabbia verso chi avrebbe potuto salvare un Regno e con esso la storia di tutto il Sud proprio in quei giorni (che cosa sarebbe successo se avessimo attaccato anche il 2 ottobre distruggendo, come gli stessi ufficiali piemontesi ammisero, la già provata resistenza dei garibaldini e riprendendoci Napoli come avrebbe voluto fare Francesco II).

Diventano ancora più significativi, allora, quel capitano Ferdinando Campanino che "s'impadronì della cresta del monte e di un fortino nemico, inchiodando due pezzi da campo, menando con sè due obici, armi, munizioni e anche prigionieri"; o quel colonnello Marulli che continuava a combattere con un braccio al collo per le ferite riportate in Sicilia o il capitano Gaetano Cessari che salvò la bandiera del Terzo Cacciatori o il chirurgo Raffaele Davino che continuava a curare i soldati nonostante le sue ferite o il colonnello Matteo Negri "pronto a qualunque ordine, sempre lesto e impavido a rianimare e a dirigere le artiglierie" o quel capitano "de Torrenteros che, davanti all'anfiteatro di S. Maria, prende tra le sue braccia il suo amico ferito, il capitano Cioffi, lo soccorre, lo abbraccia, lo bacia e fa di tutto per metterlo in salvo inviandolo poi all'ambulanza"; o lo stesso Von Mechel che ai Ponti della Valle vede il figlio morire colpito da un proiettile alla fronte, si toglie il cappello, guarda il cielo gridando "Vive le Roi" e continua a combattere; o quei tanti nomi (pochi rispetto ai 1000 morti, feriti e cancellati dalla storia) di soldati e ufficiali, come quel colonnello de Liguoro che abbiamo già ricordato e che ebbero come unica ricompensa una medaglia, un grado o una citazione sulla Gazzetta di Gaeta.

Tutti, senza equivoci e dubbi, eroi; e tutti dalla stessa parte, tutti a difendersi da una guerra (da una rivoluzione) non dichiarata e certamente non voluta, da una colonizzazione che avrebbero portato nella nostra terra morte, distruzione, fame e miseria mai conosciute prima; tutti eroi legittimi che nessuno può confondere con i protagonisti volontari o involontari di un'invasione violenta e illegittima: non c'è la possibilità di sbagliare in questo nostro giudizio tra il bene e il male, tra il giusto e il sbagliato, proprio in questi giorni che hanno avuto la capacità di confondere tutto e tutti...

Tutti eroi, dunque, ma non per essere ricordati dai libri o dai romanzi, semplicemente perchè combattere e morire era l'unica possibilità che rimaneva per difendere una Patria, un Re, se stessi e il proprio mondo senza essere consapevoli della sua successiva rovina e senza neanche pensare ai risultati delle battaglie combattute in quei giorni e il primo di ottobre e che il Buttà sintetizza con grande efficacia: "i regi rimasero nelle proprie posizioni; i garibaldini scemarono di uomini e di ardire e Garibaldi perdette il suo prestigio tanto che dovette sollecitare la marcia dell'esercito sardo" (5).

"Quando i miei bravi soldati torneranno nel seno delle loro famiglie -scrive Francesco II andando via da Gaeta- tutti gli uomini d'onore chineranno le teste al loro passo e le madri mostreranno come esempio ai figli i bravi difensori di Gaeta".

Non andò così, non fu così e 140 di una storia bugiarda hanno cancellato quegli esempi: nessuno li usò come esempi quei soldati e sono in tanti oggi quelli che si vergognano di essere meridionali e quella testa non possono e non sanno più alzarla.

A Gaeta in pochi giorni arrivarono quasi 20.000 uomini. Un Sud con 20.000 uomini consapevoli, fieri e radicati sarebbe già un Sud diverso, oggi.
Un nostro giovane amico ha trovato con le sue attente ricerche i nomi di centinaia di soldati caduti per difendere la loro e la nostra patria, il loro e il nostro onore. Nessuno li ha mai ricordati o raccontati. Ci servono ancora. Ci serve il loro esempio lontano nel tempo. Abbiamo il dovere di continuare a raccontarli e a ricordarli come facciamo stasera.

E se solo una strada o una scuola ricordassero uno solo di quei soldati vinti e dimenticati, noi tutti potremmo dire di aver raggiunto un grande obiettivo e di avere, per il futuro, qualche speranza in più.

NOTE

(1) Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861, Ed. Milano, 1985, pp.257-265

(2) Pier Giusto Jaeger, Francesco II di Borbone, Milano, 1982, pp. 130-131

(3) G. Buttà, cit., p.280

(4) Giacinto de' Sivo, Storia delle Due Sicilie, ed. Napoli, 1964, II vol., pp.277 e sgg.

(5) Cfr. Gazzetta di Gaeta, Gaeta, 1860-1861 e G. Buttà, cit., pp.275 e sgg., 298-302

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