Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagine o cliccando qualunque suo elemento, acconsenti all uso dei cookie. Se vuoi saperne di più vai alla sezioneulteriori info.Ok |
|
|
La Brigata Catanzaro e la grande guerra (vista da Sud)… |
|
|
|
Il 24 maggio di cento anni fa, mentre «il Piave mormorava, calmo e placido…», le truppe italiane davano inizio alle ostilità contro l’esercito austriaco, aggredendo le postazioni difensive situate lungo i confini occidentali dei territori dell’Impero asburgico. Iniziava così, per l’Italia, quella «inutile strage», come il papa Benedetto XV (al secolo Giacomo Della Chiesa, 1854-1922) definì la prima guerra mondiale, che costerà al nostro popolo oltre 650.000 morti ed un milione tra feriti e mutilati.(1) La Massoneria internazionale aveva già da tempo deciso di abbattere, in un colpo, non solo gli Imperi Centrali (austroungarico e tedesco), ma anche quello della cristiana Russia, quale conditio sine qua non per avviare un processo di unione mondiale,(2) il già da allora vagheggiato «Nuovo Ordine Mondiale» massonico. E così
fu.
Per
quanto concerné l’Italia, more solito, la vicenda si contornò di
aspetti osceni e vergognosi di doppiogiochismo e tradimenti. Infatti,
fino ad appena venti giorni prima della dichiarazione di guerra, quello
che verrà poi definito il «nemico» era stato un suo «alleato». Ciò in
virtù del patto militare difensivo stipulato il 20 maggio 1882. Tale
patto, denominato «Triplice Alleanza», era stato altresì rinnovato per
ben quattro volte, con la stipula di trattati specifici: nel 1887, 1891,
1902 e nel 1912. Esso prevedeva un’alleanza difensiva con Austria e
Germania, in virtù della quale l’Italietta sabauda si era impegnata ad
entrare in guerra nel caso in cui uno dei suoi alleati fosse stato
attaccato. Il
28 giugno 1914, l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo (1863-1914),
erede al trono imperiale, e sua moglie Sofia, furono assassinati a
Sarajevo per mano (armata dalla Massoneria) dello studente serbo Gavrilo
Princip.(3) Dopo appena un mese dall’uccisione della coppia, il 28
luglio, l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia ed il governo
italiano si trovò di fronte al dilemma se entrare o meno nel conflitto
accanto agli alleati tedeschi e austriaci. Per
quasi un anno l’Italia si mantenne neutrale, senza pregiudicarsi
tuttavia alcuna alternativa, in quanto cercava di capire se avrebbe
potuto «guadagnare di più» dalla neutralità oppure da un’aggressione al
suo vecchio alleato. L’Austria, da parte sua, pur di non aprire un
ulteriore fronte di guerra, quale contropartita per una «benevola
neutralità» italiana, si era dichiarata propensa ad alcune cospicue
cessioni di quelle che venivano definite «terre irredente». Il movimento
nazionalista e irredentista italiano, però, chiedeva la fine della
neutralità e la guerra contro l’Austria. Esso, anche se decisamente
minoritario, era diventato sempre più forte, potendo contare
sull’importante appoggio dei giornali e di figure pubbliche di grande
notorietà, come il poeta Gabriele D’Annunzio. Nel contempo, i
neutralisti furono fatti oggetto di minacce e di intimidazioni. Alla
fine si entrò in guerra per volontà di un gruppo di relativa minoranza,
grazie soprattutto alla sapiente ed occulta regia massonica, inviando a
combattere i giovanissimi figli del popolo, in massima parte dell’ex
Regno delle Due Sicilie, lungo un fronte esteso più di 750 chilometri,
che andava dal mare Adriatico al confine svizzero.(4) L’Italia, quindi,
prese parte al conflitto quando si stava già combattendo da un anno;
giusto il tempo di tradire quegli Stati con i quali aveva firmato
«trattati solenni di collaborazione» ed accordarsi con gli avversari.
Nihil sub sole novi [nulla di nuovo sotto il sole… italico!]. Ma
l’aspetto tragicomico fu quello che, per qualche settimana, essa si
trovò vincolata, contemporaneamente, con entrambi gli schieramenti che
già si stavano affrontando in campo aperto.(5) Per
i tre anni successivi, un milione e mezzo di soldati italiani si
scontrarono con un milione di soldati austriaci in una lunga serie di
sanguinosissime battaglie. La prima guerra mondiale fu una vera e
propria carneficina, nella quale rimasero uccisi più di 650 mila soldati
italiani(6) e quattrocentomila austriaci, a causa della insensata
scelta del governo italiano dell’epoca di conquistare con le armi le
cosiddette «terre irredente»,(7) piuttosto che acquisirle pacificamente e
dignitosamente per via diplomatica. Circa l’inutilità del conflitto,
quindi, i fatti dettero pienamente ragione al papa Benedetto XV. I
maggiori sacrifici, in termini di vite umane, furono sopportati dalle
popolazioni meridionali della Penisola italiana. Infatti, come sempre,
toccò soprattutto al Popolo del Sud pagare il più alto tributo di
sangue. Al riguardo di quelle tristi vicende, è un dovere morale per noi
duosiciliani ricordare, in particolare, l’emblematica tragedia della
«Brigata Catanzaro», episodio purtroppo ancora sconosciuto ai più,
soprattutto ai giovani. Si tratta di una storia raccapricciante che,
oltre ad evidenziare l’aberrazione ideologica di quella maledetta
guerra, è la prova dell’esistenza, da sempre, di un feroce sentimento
razzista nord-italiota verso la nostra gente. Contadini della Calabria,
delle Puglie, dell’Abruzzo e della Sicilia furono fucilati nella schiena
dai «fratelli d’Italia» come se fossero stati dei comuni malfattori. Un
altro assurdo crimine risorgimentale [la storiografia
liberal-massonica, infatti, ha definito il primo conflitto mondiale come
una «quarta guerra d’indipendenza»] che fa ancora tanta rabbia e che
pesa come un macigno sulla coscienza politica dello Stato italiano. Questi
i fatti.(8) Il 7 luglio 1917, il principe Emanuele Filiberto di Savoia
(1869-1931), in previsione di una nuova offensiva da sferrarsi nella
metà di agosto, ordinò che alle brigate «Sassari» e «Catanzaro», già
eroicamente distintesi in precedenti operazioni sul Carso, venissero
concessi venti giorni di riposo, in modo che, grazie ad una opportuna e
più lunga pausa nelle retrovie, esse si trovassero adeguatamente
preparate, nel corpo e nello spirito, per affrontare il prossimo
scontro. L’iniziativa
fu accolta con grande soddisfazione dai combattenti interessati e,
soprattutto, dai fanti della «Catanzaro», eroica brigata che, sin
dall’inizio del conflitto, era stata quasi ininterrottamente impegnata
sul fronte giulio, tanto da venire definita la «Veterana del Carso». Si
rinnovava, in cuor loro, la speranza di sopravvivere e di vedere la fine
di quel tragico ed immane massacro. Per i soldati italiani, il
conflitto si era oramai arenato da due anni sulle aride pietraie del
Carso, dove avevano trovato una barriera di ferro e di fuoco
insormontabile, che li aveva costretti a scendere nelle trincee in una
spossante guerra di logoramento. Sovente, essi dovevano sostenere
sanguinosissimi assalti, in cui venivano falciati dalle mitragliatrici
nemiche. Infatti,
dal giugno 1915, lo Stato Maggiore cercava inutilmente di travolgere
l’ostacolo con poderose «spallate di masse umane», ma le munite difese
austriache respingevano ogni tentativo ed il prezzo pagato per la
conquista di qualche metro di terreno era altissimo. Nei primi sette
mesi del conflitto, tra morti e feriti, gli italiani persero ben 250.000
uomini del milione che l’esercito aveva inizialmente schierato. I
reparti più esposti, quelli del Carso, vennero quasi interamente
annientati. Basti considerare che quando, nel dicembre 1915, il generale
Luigi Cadorna (1850-1928) chiuse la prima offensiva e la quarta
battaglia dell’Isonzo, la brigata «Sassari» rientrò nelle retrovie con
soli 250 dei 3.000 uomini con cui era entrata in guerra. Anche per la
brigata «Catanzaro» il bilancio risultò analogo: sulle posizioni
assegnatele di Bosco Capuccio e di Sella di San Martino essa aveva perso
ben 2.500 fanti e 90 ufficiali. Nel
maggio 1916, la stessa brigata pagò un ulteriore alto tributo di sangue
per arginare la Strafexpedition (la cosiddetta «spedizione punitiva»)
austriaca sugli Altipiani e, per evitare che l’offensiva sferrata dal
generale Franz Conrad (1852-1925) dilagasse nella pianura veneta, in due
mesi di intensi combattimenti, la «Catanzaro» sacrificò 32 ufficiali ed
oltre 500 fanti. Infine, durante la sesta battaglia dell’Isonzo - che
porterà gli italiani a Gorizia - la brigata attaccò, conquistò e difese
il monte San Michele anche sotto una nube di gas contro cui a nulla
valsero le maschere in dotazione; nella circostanza, di una compagnia di
195 soldati e 5 ufficiali, sopravvissero solo 83 fanti e due ufficiali. Per
questi uomini, il conflitto fu un’ecatombe con rare soste, mentre allo
Stato Maggiore interessavano solo gli aspetti tattici, senza cogliere
l’importanza che l’aspetto umano e psicologico aveva in questa guerra di
logoramento. I comandanti si ricordavano dei soldati solamente quando
si trattava di punire, senza cercare di capire. Inoltre, si pensava di
ridare slancio attraverso la paura, puntando qualche mitragliatrice o
qualche cannone alle spalle dei reparti lanciati all’assalto. Era
inevitabile, quindi, che la depressione morale dilagasse e che forti
fossero le tentazioni alla defezione ed alla resa, in special modo in
unità che, come la «Catanzaro», erano sempre state le più sacrificate.
Già nel giugno 1916, erano stati in molti a gridare di non voler più
essere mandati al macello sicuro sulla famigerata Quota 208 del Carso,
dove nell’autunno precedente, in due mesi di inutili assalti, avevano
perso la vita 65 ufficiali e 3.060 soldati. Quando,
il 26 giugno 1917, la brigata «Catanzaro» prese la strada delle
retrovie, lasciandosi alle spalle i bombardamenti quotidiani e gli
scontri notturni, i suoi uomini sperarono in un lungo riposo che li
tenesse lontani da tanta strage e, pur sapendo che una nuova offensiva
era in preparazione, auspicavano di starne, questa volta, finalmente
fuori. Per un po’ niente trincea! Con questo stato d’animo i veterani
calabresi della «Catanzaro» e gli altri meridionali che avevano riempito
i vuoti creatisi in due anni di guerra, iniziarono a trascorre i primi
giorni di meritato riposo nelle baracche, loro assegnate quali alloggi,
ubicate appena fuori Santa Maria la Longa, un piccolo paese del basso
Friuli. A seguito, poi, del sopra menzionato ordine impartito [il 7
luglio] dal principe Emanuele Filiberto di Savoia, nei medesimi si era
fatto strada il convincimento che al fronte, in loro vece, sarebbe stata
inviata la 45^ Divisione, composta da truppa fresca, da poco
sopraggiunta. Ma, nel volgere di qualche giorno, tutte le aspettative
andarono deluse, cosa questa che divenne l’innesco esplosivo del
malcontento già serpeggiante nei ranghi della «Catanzaro». Il 15 luglio,
infatti, giunse l’ordine tanto temuto: bisognava rapidamente ritornare
in linea sul fronte di Trieste. La rabbia crebbe durante l’intera
giornata, per esplodere al tramonto in una rivolta. Un gruppo di
soldati, impugnate le armi, minacciò gli ufficiali ed incitò alla
ribellione di massa; furono utilizzate anche alcune mitragliatrici,
sparando ad altezza d’uomo. «Perché sempre noi nel peggiore punto del
fronte?», era la reiterata domanda che veniva rivolta con rabbia e
disperazione. Gli ufficiali cercavano di fornire una risposta, invitando
gli uomini alla calma e cercando di tenerli fuori dall’ammutinamento;
ma le loro argomentazioni erano basate solo sulla paura delle
«conseguenze», poiché appariva lapalissianamente inutile parlare di
«senso dell’onore» a quel reparto di eroi. La ribellione fu un gesto
estremo, umanamente comprensibile, generato da profonda disperazione e
dalle grandi sofferenze patite in quegli anni. Il fitto fuoco di
fucileria aumentò durante la notte, quando altre truppe intervennero per
sedare la rivolta. Ma, anche se presi tra cavalleria, carabinieri ed
altri fanti, i ribelli non si convinsero facilmente alla resa. Cessarono
la resistenza solo alle prime luci dell’alba, lasciando sul terreno 2
ufficiali e 9 soldati morti, mentre altri 2 ufficiali e 25 soldati
rimasero feriti. Ristabilito l’ordine, scattò la repressione, che fu
sommaria: 4 soldati, presi con i moschetti carichi e le canne ancora
calde, furono immediatamente passati per le armi. Ed, affinché l’esempio
potesse essere più efficace, lo stesso destino fu riservato ad altri 24
uomini, con la decimazione dei due reggimenti: 12 del 141° e 12 della
6^ compagnia del 142°, che si era ribellata in massa. Il luogo
dell’esecuzione fu il piccolo cimitero del paese, distante qualche
chilometro, dove i condannati furono condotti per strade di campagna
chiuse tra campi di granoturco. Erano
tutti contadini meridionali, pugliesi, calabresi, siciliani, abruzzesi,
portati in quel lontano Nord a combattere una guerra per loro
incomprensibile. Ma anche dopo quella fucilazione, la «Veterana del
Carso», come veniva chiamata la brigata «Catanzaro», non ebbe tregua
dalla giustizia militare. A settembre furono condannati a morte coloro
che erano stati considerati i «tre agenti principali» della rivolta;
avevano 20, 21 e 27 anni, mentre altri due soldati, di 21 e 22 anni,
scontarono lunghe pene detentive per complicità nella ribellione. Queste
sentenze chiudevano la storia dell’ammutinamento della «Catanzaro»,
senza però che l’episodio, il più grave dall’inizio della guerra, fosse
meditato ed inteso come prodromo di una crisi che sarebbe arrivata, di
lì a poco, con la disfatta di Caporetto. Su di esso fu steso un velo di
silenzio che quasi cancellò la memoria della vicenda dell’eroica
brigata, la quale concluse la sua guerra a Trieste. Essa venne definitivamente sciolta nel giugno 1920.
Telese Terme, maggio 2015. Dr. Ubaldo Sterlicchio
Note:
1) Cfr. http://reportage.corriere.it/cultura/2015/lesercito-marciava/ del 23 maggio 2015. 2) Epiphanius, Massoneria e sette segrete. La faccia occulta della storia, Controcorrente, Napoli, 2002, pag. 266. 3)
Albert Mouset, nel suo libro tratto dal resoconto stenografico del
processo svoltosi l’ottobre seguente, L’attentat de Sarajevo, Paris, Ed.
Payot, 1930, riferisce che sia Gavrilo Princip che N. Cabrinovich
dichiararono che Francesco Ferdinando era stato condannato a morte dalla
massoneria. Cfr. Epiphanius, op. cit., nota alla pag. 265. 4)
Mario Silvestri, Caporetto, una battaglia e un enigma, Bergamo, Bur,
2006, pag. 18. Per approfondimenti cfr.
http://it.wikipedia.org/wiki/Neutralit%C3%A0_italiana_%281914-1915%29. 5) Lorenzo Del Boca, La grande guerra, in La Padania di martedì 10 novembre 2009. 6)
Giorgio Mortara, La Salute pubblica in Italia durante e dopo la Guerra,
G. Laterza & figli, 1925, pagg. 28-29. Lo studio realizzato dal
demografo italiano Giorgio Mortara nel 1925, basato su dati ufficiali
del governo, stimò in 651.000 i militari italiani caduti durante il
conflitto, così ripartiti: 378.000 uccisi in azione o morti per le
ferite riportate, 186.000 morti di malattie e 87.000 invalidi deceduti
durante il periodo compreso tra il 12 novembre 1918 e il 30 aprile 1920 a
causa delle ferite riportate in guerra. Per eventuali ulteriori
approfondimenti, cfr.
http://it.wikipedia.org/wiki/Conteggio_delle_vittime_della_prima_guerra_mondiale. 7) Cfr. http://www.ilpost.it/2015/05/24/24-maggio-prima-guerra-mondiale/ del 24 maggio 2015. 8)
Le notizie qui di seguito riportate sono state tratte dall’articolo
Plotone d’esecuzione italiano per gli eroi della “Catanzaro” di Antonio
Pitamitz pubblicato da Storia Illustrata, febbraio 1981.
|
|
|
|
|