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Dal ducato... all'euro: riflessioni sul sistema monetario delle Due Sicilie PDF Stampa E-mail

Il sistema monetario del Regno delle Due Sicilie. A seguito della unificazione dei Regni di Napoli e di Sicilia nel Regno delle Due Sicilie, Ferdinando I di Borbone, con la legge del 20 aprile 1818 nr. 1176, emanò alcune direttive che uniformarono il sistema monetario nei territori continentale ed insulare dello Stato. La normativa in questione apportò le necessarie modifiche per ottenere una monetazione decimale e, nel contempo, soppresse il rapporto legale di cambio fra le monete coniate nei tre metalli (oro, argento e rame), imperniando l’intero sistema su di un monometallismo argenteo puro. Tale riforma fu definita da Lorenzo Bianchini,  
nella sua «Storia delle Finanze del regno di Napoli», come «la prima migliore legge che su tale obbietto si facesse in Europa, talché venne ovunque lodata ed in vari Stati imitata».
Puntualizziamo subito un aspetto importantissimo.
Nel Regno delle Due Sicilie non circolavano banconote, cioè quella carta-moneta stampata ed emessa da una Banca Centrale privata (come all’epoca già avveniva nell’indebitato e fallimentare Regno di Piemonte e come avviene oggi in Italia – e non solo in Italia – con la conseguente illecita cessione della Sovranità Monetaria popolare, da parte degli Stati, a dei soggetti privati), bensì solo monete metalliche aventi un proprio valore intrinseco, il cui conio e la cui emissione venivano curate esclusivamente dalla Reale Zecca dello Stato borbonico.
L’unica eccezione era costituita dalle cc.dd. Fedi (o Polizzini) di Credito, documenti cartacei utilizzati in particolare per le grosse transazioni. La «Fede di Credito» era un titolo nominativo, rilasciato dai Banchi «pubblici» delle Due Sicilie (Banco di Napoli e Banco di Sicilia), pagabile a vista presso qualunque filiale del Banco, emesso a madre e figlia. Aveva la struttura del vaglia cambiario ordinario ed attestava l’avvenuto deposito di numerario da parte di enti o di privati.
La Fede di Credito circolava mediante «girata» e la particolarità di questo titolo risiedeva nel fatto che il girante poteva anche indicare la «causale» del pagamento (ad es. una fornitura di merci) e le «condizioni» alle quali il pagamento era subordinato. In tal caso, la condizione sospendeva il pagamento da parte del Banco, finché non fosse stato dimostrato il suo adempimento. Nessun interesse veniva pagato sulle somme depositate, né alcuna imposta di bollo era dovuta allo Stato (come, purtroppo, avviene oggigiorno in Italia) per l’emissione dello stesso titolo.
All’atto della riscossione di una Fede di Credito veniva seguita una rigorosa procedura che poneva il debitore, il creditore e l’istituto bancario al riparo da frodi di sorta, garantendo in toto la legittimità, la correttezza e la regolarità contabile dell’operazione. A tal fine, il cliente doveva presentarsi all'ufficio ruota con la fede sottoscritta. L'ufficiale addetto alla pandetta (grande rubrica che conteneva i nomi di tutti i clienti, con il numero dei fogli del libro maggiore ove erano accesi i conti) cercava il numero del conto del cliente in questo libro (la c.d. pandetta) e lo trascriveva sulla fede, che passava al pandettario, un impiegato, con funzioni notarili che, dopo aver verificato l'autenticità del titolo e l'adempimento delle eventuali condizioni, apponeva sulla Fede un «visto» e la inviava al libro maggiore. Qui, l’impiegato addetto verificava se sul conto del cliente c'era capienza (ossia credito) e addebitava il conto, scrivendo la parola «bona» sulla Fede, che tornava al pandettario. Qualora, nel corso dell’intera procedura, non fosse stata riscontrata alcuna irregolarità, il pandettario vi riportava la dizione: «pagate ducati ________», la datava e la consegnava al portiere della ruota che la portava al cassiere. Infine, quest’ultimo pagava, tracciava sulla fede due freghi, vi annotava la somma pagata ed infilzava il documento in uno spago con punteruolo.
Grazie a questa rigorosa procedura, fu smascherata la falsità della Fede di Credito (il cui importo originario di 14 ducati era stato alterato nella cifra e modificato in 14.000 ducati) esibita, per la riscossione presso il Banco di Napoli, dal generale Francesco Landi e che lo stesso ufficiale borbonico aveva ricevuto da Giuseppe Garibaldi quale prezzo del suo tradimento nella battaglia di Calatafimi.
A parte la descritta eccezione delle Fedi di Credito, per i nostri antenati, tanto l’uso della moneta cartacea, quanto il fatto che le banconote potessero venire stampate ed emesse da una banca privata, nonché da questa prestate allo Stato (peraltro gravate da interessi annui), sarebbero stati un qualcosa di assolutamente inconcepibile. Infatti, fra il denaro che circolava nel Regno delle Due Sicilie e le banconote attualmente circolanti in Italia (e nell’eurozona), la differenza non è solo formale (metallo da un lato e carta filigranata dall’altro), bensì principalmente sostanziale. Innanzitutto perché, mentre una moneta in lega pregiata (ad es. in oro con titolo 996 millesimi) possedeva un «valore intrinseco» pressoché corrispondente al «valore nominale» della divisa medesima, un biglietto cartaceo, a fronte di un costo di produzione veramente irrisorio (una qualsiasi banconota costa, alla Banca di emissione, appena 30 centesimi di euro), reca stampigliato un truffaldino valore facciale! Si consideri inoltre che, mentre nel Regno delle Due Sicilie il possessore, ad esempio, di una moneta da 30 ducati ne era al tempo stesso «proprietario» e, pertanto, era esente dal dover pagare un qualsivoglia «interesse per l’uso» (da qui deriva etimologicamente il vocabolo «usura») della medesima moneta, oggi chi possiede una banconota, ad esempio, da 500 euro è, ipso facto, «debitore» della stessa verso la Banca di emissione (B.C.E.), nonché destinatario di tutte le conseguenze che un debito comporta.
Sono questi i motivi per cui i nostri bisnonni avrebbero considerato la c.d. «moneta-debito» una vera e propria assurdità, una colossale truffa, una cosa per gli imbecilli!
A quei tempi, la moneta più solida d’Italia era quella borbonica. Essa veniva coniata, prima che intervenisse la menzionata riforma ferdinandea, nei pezzi aurei da 3 - 4 - 6 - 15 e 30 ducati; in seguito, come si vedrà, furono emesse solo le divise da 3 - 15 e 30 ducati.
Il ducato era suddiviso in 10 carlini ed, a sua volta, il carlino equivaleva a 10 grani.
Il carlino, che deve il suo nome al re Carlo I d'Angiò, era una moneta che veniva coniata a Napoli, sia in argento che in oro, fin dal 1278. In epoca borbonica era d’argento e costituiva la decima parte di un ducato napoletano, ovverosia il decuplo del grano.
Il grano (detto anche soldo) era una moneta d'argento nata in epoca aragonese e, fino al 1814, si divideva in 12 cavalli o in 2 tornesi. Nel 1814 fu introdotta la divisione in10 cavalli.
Il cavallo (o callo) era una moneta coniata in rame dal 1472 al 1815 (quando fu sostituito dal tornese); essa era la dodicesima parte di un grano napoletano, ma come già detto, dal 1814 essa passò, invece, a rappresentarne la decima parte. Il tornese, quindi, assunse il valore di 5 cavalli.
Oltre al grano, venivano coniati in rame il ½ grano, detto anche tornese, il 2 grani e ½, detto cinquina, nonché il 5 grani, coniato sia in rame che in argento. Sotto il profilo lessicale, come plurale di grano era indifferentemente usato anche il termine grana.
Lo Statuto monetario di Ferdinando I, in particolare, decretò quanto segue: «Premettendo che la moneta costituisce la misura dei prezzi relativi ad ogni contrattazione, si stabilisce che un solo metallo debba costituire materia per il conio delle monete e si determina che la moneta unitaria, a cui i prezzi ed ogni valutazione debbono riportarsi in numerario, sia il “Ducato”, un pezzo in argento di 515 acini napoletani, cioè pari a grammi 22 e 943 millesimi, coniato con una lega di 833 e ½ di millesimo di argento puro e 166 e 2/5 di millesimo di lega. Quindi, il Ducato ha 5/6 di argento puro ed 1/6 di lega. Il Ducato verrà diviso in cento centesimi o grani per i Napoletani e baiocchi per i Siciliani. Il centesimo, a sua volta, verrà diviso in decimi, chiamati a Napoli calli o cavalli e piccioli in Sicilia. Ciascun grano sarà coniato in rame del peso di 140 acini, vale a dire grammi 6,237, stabilendosi che tali monete in rame saranno adoperate, come moneta di scambio, nelle piccole contrattazioni e che, comunque, il valore del suo numerario verrà garantito dallo Stato. In oro saranno coniate le oncette del peso di grammi 3,786, alle quali sarà assegnato un valore corrente di tre Ducati; le doppie, pari a grammi 18,933, per un valore corrente di quindici Ducati; le decuple, del peso di grammi 37,867, valevoli trenta Ducati».
La nuova monetazione venne, quindi, così articolata:
1 ducato = 10 carlini = 100 grani (a Napoli) o baiocchi (in Sicilia).
1 grano = 2 tornesi = 10 cavalli (a Napoli) o piccioli (in Sicilia)
In Sicilia, oltre al grano di Napoli, anche la moneta estera in genere era chiamata baiocco e, quindi, il ducato napoletano era pari a 100 baiocchi. Sempre nell’Isola, erano poi necessari 3 ducati napoletani per fare un’onza siciliana (1 onza = 30 tarì di Sicilia), che era quindi la moneta avente il più alto valore unitario nell’intero Regno.
Tuttavia, al fine di evitare errori contabili nella Pubblica Amministrazione, con decreto nr. 1908 del 6 marzo 1820, entrato in vigore il 1° gennaio 1821, il sistema monetario venne definitivamente unificato in tutti i territori del Regno delle Due Sicilie, con l’abolizione della monetazione siciliana in onze e tarì.
Le monete venivano coniate in oro, argento e rame presso la Regia Zecca a S. Agostino Maggiore (Napoli).
Oltre al conio delle tre monete auree da 3 - 15 e 30 ducati, ricordiamo anche quello delle monete d’argento da 10 (chiamata anche carlino) - 20 (chiamata anche tarì di Napoli) - 60 (chiamata anche ½ piastra) e 120 (chiamata anche piastra) grani, nonché quello delle monete di rame da ½ - 1 - 1 e ½ - 2 - 3 - 5 e 10 tornesi. Per la Sicilia venivano coniate anche le monete di rame da ½ - 1 - 2 - 5 e 10 grani.
Rapportato alla valuta odierna, si stima che 1 ducato napoletano avesse il potere di acquisto di circa 50 euro (in base alle quotazioni mantenute dall’oro negli ultimi tempi: es. nel maggio 2012 l’oro nuovo costava circa 40 euro al grammo, la moneta aurea da 30 ducati  - 37,867 grammi di oro con titolo millesimi 996 - aveva un valore intrinseco di circa 1.500 euro; pertanto, possiamo ritenere che 1 ducato del Regno delle Due Sicilie avesse il potere d’acquisto di circa 50 euro attuali), mentre il corrispondente valore approssimativo in euro delle altre monete borboniche lo si può evincere dalla seguente tabella sinottica.

1 Ducato = 50,00 €
1 Carlino = 5,00 €
1 Grano = 0,50 €
1 Tornese = 0,25 €
1 Cavallo = 0,05 €

I valori in tabella (riferiti all’anno 2012) sono da ritenersi abbastanza congrui rispetto a quelli delle attuali monete metalliche, anche in considerazione del fatto che, oramai, il pezzo di minor valore attualmente in circolazione è rimasto quello da 5 centesimi di euro, essendo quasi del tutto inutilizzati i pezzi da 1 e da 2 centesimi; peraltro, queste ultime due monetine non vengono nemmeno più coniate, poiché i relativi costi di produzione ed emissione sono superiori, fino a quattro volte, al valore facciale delle stesse, determinando il c.d. «signoraggio negativo» per lo Stato.
In epoca borbonica, era previsto che la Zecca di Napoli potesse coniare monete sia per conto di privati che di Stati esteri, previa fornitura da parte di questi di verghe d’argento puro, convertite poi in monete aventi la caratteristica prevista dalla legge monetaria. Nel 1851 affluì presso la Zecca di Napoli una enorme quantità di verghe d’argento per la coniazione di monete estere, i cui Stati si servivano dei torchi napoletani, data la loro pregevolissima fattura. I nostri maestri incisori erano così rinomati in Europa, per la bellezza delle realizzazioni, che i saggi di conio (prototipi di nuove monete) dell’istituto d’emissione inglese venivano spesso inviati a Napoli per un parere tecnico. La moneta napoletana divenne richiestissima su tutti i mercati d’Europa, essendo ritenuta molto pregiata negli scambi internazionali, per cui fu necessario accelerarne la produzione della divisa. Se fino al 1851 la produzione monetaria annuale della Zecca napoletana si era aggirata intorno al milione di ducati, nel 1852 essa salì alla cifra iperbolica di 32.380.775 ducati, concretando un notevole guadagno per la Zecca che, naturalmente, aveva dovuto provvedere anche all’incremento dei posti di lavoro. Grazie a ciò, aumentò la circolazione monetaria, i prezzi di mercato subirono un rialzo e calarono gli interessi; aumentò la proprietà privata (il danaro fu investito in immobili, poiché era diventato più semplice ottenere prestiti bancari a bassissimo interesse) ed accrebbero le attività industriali, col conseguente aumento dei posti di lavoro anche in quest’ultimo settore.
Inoltre, grazie agli altri numerosissimi suoi primati (cfr. Gennaro De Crescenzo, «Le Industrie del Regno di Napoli», Grimaldi & C. Editori, Napoli, 2012 - v. elenco di 50 primati in appendice; nonché: http://www.realcasadiborbone.it/ita/archiviostorico/primati_01.htm), il Regno delle Due Sicilie si collocò fra le più grandi Potenze europee dell’Ottocento.
Nel Regno delle Due Sicilie il costo della vita era più basso rispetto a quello degli altri Stati preunitari e lo si può dimostrare paragonando i salari, che pure non erano certo elevati, con il costo dei generi di prima necessità. La giornata lavorativa di un contadino era pagata 15 ÷ 20 grani (7,50 ÷ 10 €), quella degli operai generici dai 20 ai 40 grani (10,00 ÷ 20,00 €), 55 grani (27,50 €) per quelli specializzati; 80 grani (40,00 €) spettavano ai maestri d’opera; a tali retribuzioni veniva aggiunto un soprassoldo giornaliero di 10 ÷ 15 grani (5,00 ÷ 7,50) per il vitto; un impiegato statale percepiva 15 ducati (750 €) al mese, un tenente di fanteria 23 ducati (1.150 €), un colonnello di fanteria 105 ducati (5.250). È bene sapere che si trattava di retribuzioni nette, poiché nel Regno non esisteva alcuna imposta sul reddito delle persone fisiche. Di contro, un rotolo di pane (890 grammi) costava 6 grani (3,00 €), un equivalente di maccheroni 8 (4,00 €) grani, di carne bovina 16 grani (8,00 €); un litro di vino 3 grani (1,50 €), tre pizze 2 grani (1,00 €).
Presso le Seterie di San Leucio, una famiglia (in seno alla quale, oltre ai genitori, lavorasse anche qualche figlio adulto che fosse un buon artiere) poteva giungere a percepire un reddito netto fra i 10 ed i 12 carlini al giorno (50 ÷ 60 € giornalieri), garantendo alla famiglia stessa un potere di acquisto fino agli attuali 1.250 ÷ 1.500 € mensili.
Al momento dell’unità d’Italia, la ricchezza dello Stato meridionale, costituita dai depositi aurei esistenti presso le banche delle Due Sicilie, era di poco inferiore al mezzo miliardo di lire-oro ed in quantità doppia rispetto a quella di tutti gli altri Stati italiani messi assieme (cfr. Francesco Saverio Nitti, uomo politico ed economista liberale, nonché Presidente del Consiglio del Regno d’Italia dal 23 giugno 1919 al 15 giugno 1920, Scienze delle Finanze”, Pierro Editore, 1903, pag. 292). A questo si aggiungeva la solidità della stessa moneta circolante, tutta in metallo pregiato (niente carta) che, per il suo valore intrinseco, non si era mai svalutata (quindi, l’inflazione era un fenomeno sconosciuto!) nei 126 anni in cui regnò la dinastia borbonica.
Dopo l’unificazione italiana, precisamente nel 1863, un testimone insospettabile, il capitano italo-piemontese conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz scriverà che: «...iI 1860 trovò questo popolo [delle Due Sicilie, n.d.r.] del 1859 vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comperava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale». Questa è un’eloquente risposta ai tanti denigratori di professione e non, che per oltre 150 anni hanno descritto il Regno delle Due Sicilie come un paese retrogrado e chiuso ad ogni forma di progresso; costoro dovrebbero studiare per bene le leggi, i decreti ed i vari provvedimenti dei re Borbone, per capirne la ratio moderna e liberale e che, a parere di chi scrive, sono un valido esempio di buona amministrazione da imitare. La medesima cosa dovrebbero fare i nostri economisti, politici ed amministratori, locali e nazionali.
Al patrimonio dello Stato napoletano si aggiungeva poi il patrimonio privato, in denaro, ori e preziosi, della famiglia reale borbonica, fra le più ricche d’Europa, unica ad avere ben quattro Regge (Napoli, Capodimonte, Portici e Caserta); ed a queste ricchezze i re molto spesso attingevano per la realizzazione di opere pubbliche. Alla morte di Ferdinando II nel 1859, il patrimonio dei Borbone fu quantificato in 6.000.795 ducati, pari a circa 300 milioni di euro. Dopo l’arrivo degli invasori del nord, di tale denaro non si è saputo più nulla!
Bastarono, infatti, appena sessanta giorni di dittatura garibaldina per distruggere le floride finanze e l’economia del Paese; nel giro di due mesi, infatti, le casse dello Stato napoletano vennero vuotate. Mai nel corso della sua millenaria storia, l’Italia aveva «veduto ladrocini simili a quelli che si ebbero a Napoli durante il periodo garibaldino... Nella capitale del Sud l’eroe dei due mondi, o dei due milioni, trovò denaro in abbondanza, e lo usò in modo sconsiderato, mentre i suoi seguaci si appropriarono indebitamente delle consistenti ricchezze personali di Francesco II e della dote di Maria Sofia. [...] Furono rubati tutti denari depositati nelle banche, tutti i preziosi custoditi nei musei, le opere d’arte nei palazzi reali e nobiliari, le armi negli arsenali e finanche beni personali nelle private residenze di molti cittadini».
A quest’ultimo riguardo, ascoltiamo anche due incontrovertibili testimonianze: quella di Vittorio Emanuele II, il quale, subito dopo l’incontro di Teano, così scrisse a Cavour: «...come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene – siatene certo – questo personaggio non è affatto docile, né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa...»; e quella di Francesco Guglianetti, segretario generale presso il ministero dell’Interno piemontese, il quale, riferendosi ai garibaldini che avevano approfittato della situazione, scrisse a Farini di aver saputo «da persona autorevole che parecchi, partiti miserabili, sono ritornati colla camicia rossa e colle tasche piene di biglietti da mille lire».
Purtroppo, le prove documentali contabili di tutti quegli orrendi sperperi, di tutti i soldi rubati ai Borbone ed al popolo delle Due Sicilie, e poi scialacquati in modo vergognoso ed inetto, finirono nelle profondità del mare delle Bocche di Capri, insieme al piroscafo Ercole ed al povero, ma onesto, poeta ed amministratore dei «Mille», il colonnello garibaldino Ippolito Nievo. Si trattò del primo «delitto di stato» perpetrato nella nuova Italia risorta.
Ma questa è tutta un’altra storia.
Ubaldo Sterlicchio
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