 Un breve saggio documentato e significativo di Ubaldo Sterlicchio nei giorni dell'anniversario della morte di Ferdinando II di Borbone (22 maggio 1859): un omaggio alla memoria di un grande Re e di un grande Napoletano che contribuì con grande capacità alla costituzione di un sistema tributario giusto ed efficace (tema quanto mai attuale). Il sistema tributario del Regno delle Due Sicilie. «Cum per annos plusquam quadraginta huius Regni clavum moderasset, vectigal nullum usquam imposuit». Questa frase latina, tradotta in italiano, significa: «Nonostante avesse retto il governo di questo Regno per più di quarant’anni, giammai impose tributo alcuno». Si tratta dell’epigrafe che appare sulla lapide della tomba di Bernardo Tanucci (1698-1783), uomo politico italiano che, dal 1734 al 1776, collaborò prima con Carlo di Borbone e poi con suo figlio Ferdinando IV, occupando le cariche più prestigiose del Regno di Napoli, fra le quali quella di ministro della giustizia, di ministro degli affari esteri, nonché di primo ministro. A
ragion veduta, possiamo considerare il contenuto della menzionata
epigrafe come il vero e proprio «principio informatore» che ha sempre
caratterizzato il diritto tributario borbonico. Ed allorquando, nel
1830, Ferdinando II di Borbone (1810-1859), appena cinta la corona del
Regno delle Due Sicilie, con l’Atto Sovrano 11 gennaio 1831, programmò
di estinguere il pesante deficit (che cresceva di anno in anno per gli
interessi da cui era gravato) che il giovane re aveva ereditato, lo fece
gradualmente, in soli 4 anni, senza fare ricorso a nuovi tributi. Il
risanamento dei conti dello Stato avvenne attraverso una politica di
austerità, ma chiedendo sacrifici solo ai ricchi e, per di più,
alleviando nel contempo le condizioni di vita del popolo. Infatti,
Ferdinando, dopo aver premesso che «non poteva chiedere né alla
proprietà né all'industria altri sacrifizj, senza portare grave ferita a
queste sorgenti della pubblica prosperità» [si osservi quanto profondo
fosse il rispetto che questo grande statista nutriva per il lavoro e per
la proprietà privata, n.d.r.] e dopo aver preventivamente acquisito in
merito il parere favorevole del «Consiglio di Stato ordinario», decise
di applicare, per soli 4 anni, una ritenuta sugli stipendi e sulle
pensioni che superavano l’importo di 25 ducati (equivalenti a circa
1.250 euro attuali) mensili. Il re applicò quindi delle aliquote
moderatamente progressive, in modo che il peso maggiore ricadesse in
proporzione crescente sui redditi più elevati. I redditi pari od
inferiori ai 25 ducati mensili erano esenti da questo prelievo. Si
trattò di una imposizione provvisoria, che decadde non appena vennero
meno le esigenze che ne avevano giustificato l’introduzione; e ciò fu
fatto in perfetta coerenza con l’onesta mentalità di quei governanti
dell’epoca che si erano mantenuti alieni dall’ideologia
giacobino-liberal-massonica. Sotto l’ancien régime, infatti, le imposte
dovevano essere sistematicamente giustificate e legittimate con un
editto pubblico del re, che ne motivava precisamente la finalità. Per lo
più si trattava di spese per sostenere una guerra, finita la quale,
l’imposta diventava obsoleta e quindi non più prelevabile. Onestà e
senso di giustizia, quindi, caratterizzarono l’impianto fiscale
borbonico, i cui princìpi ben potevano coniugarsi con il successivo
pensiero di Maffeo Pantaleoni (1857-1924), illustre economista italiano,
nonché ministro delle finanze del Regno d’Italia nel 1919, il quale
molto giustamente affermava che: «Qualunque imbecille può inventare e
imporre tasse. L’abilità consiste nel ridurre le spese, dando nondimeno
servizi efficienti, corrispondenti all’importo delle tasse». Nelle
Due Sicilie, il sistema di tassazione poneva il massimo rispetto per la
proprietà e per l’iniziativa privata, agevolando in tutti i modi la
ricchezza di ognuno e, quindi, quella generale. Dopo la parentesi
napoleonica ed, in particolare, durante il primo decennio successivo
alla Restaurazione del 1815, l’amministrazione finanziaria del Regno fu
riordinata ad opera del primo ministro, nonché ministro delle finanze,
cavalier Luigi de’ Medici (1759-1830), il quale strutturò il sistema
fiscale nella forma che vedremo e che restò sostanzialmente invariata
fino alla caduta della monarchia borbonica (1861). Gli atti di governo
di questo grande statista si basarono sul principio secondo il quale «le
risorse finanziarie dello Stato non bisogna cercarle né nel debito, né
nei nuovi tributi, ma esclusivamente nell’ordine e nell’economia. Perché
veramente il miglior governo è quello che costa meno», come affermava
l’economista napoletano Giacomo Savarese (1807-1884). Il sistema
tributario introdotto da Luigi de’ Medici poggiava su di un felice
connubio tra Imposizione Diretta ed Imposizione Indiretta. La prima era
costituita dalla contribuzione fondiaria, la seconda gravava
principalmente sui consumi (dazi e monopoli), oltre che sui
trasferimenti di ricchezza (registro e bollo), nonché sui servizi
postali e sulle lotterie. Il de’ Medici accorpò le varie imposte in 5 scaglioni: - contribuzione fondiaria; - imposte indirette sui consumi (dazi, dogane, monopoli vari); - imposte di registro e di bollo; - imposta sulle lotterie; - tassa postale. La
contribuzione fondiaria, con la leggera aliquota del 10%, gravava sui
terreni, anche se incolti, laghi, canali di navigazione, cave, miniere e
rendite annue superiori ai 100 ducati (pari a circa 5.000 euro
attuali). La tassa veniva applicata sul prodotto netto determinato
attraverso le rendite catastali, nel caso dei terreni, e mediante il
canone di affitto, diminuito di una percentuale, per le case. Il 15
dicembre 1823 venne pubblicato il nuovo regolamento della Tesoreria
generale, la cui normativa mirava al duplice obiettivo di incrementare
le entrate e diminuire le spese pubbliche. Il primo si sarebbe raggiunto
attraverso una maggiore redditività dei cespiti dello Stato; il secondo
sarebbe stato reso possibile mediante un maggior rigore di spesa da
parte dei vari ministeri, nonché attraverso l’accentramento dei conti
delle singole amministrazioni finanziarie nella cassa centrale dello
Stato. Tale sistema prevedeva che la cassa centrale avrebbe provveduto
al pagamento delle singole spese sulla base di specifici documenti
giustificativi, in modo da limitare la discrezionalità da parte delle
singole amministrazioni finanziarie periferiche del Regno. Lo stesso
decreto introduceva anche un nuovo sistema esattoriale denominato
«sistema delle Régie», che prevedeva la concessione in appalto, dietro
corresponsione al Tesoro di un canone fisso annuo, dei diritti di
riscossione per quanto riguardava la vendita dei generi di monopolio
(sali e tabacchi); lo scopo era quello di assicurare all’erario un
introito certo e garantito da cauzione. In un secondo momento, nel 1826,
tale modello fu applicato anche alle dogane. L’11 agosto 1823 venne
introdotto anche un nuovo sistema di tariffe che, rispetto al decreto
del 1818, creava una formidabile barriera protezionistica nei confronti
delle merci dei principali Paesi concorrenti. Le aliquote delle
menzionate imposte non vennero mai aumentate (in taluni casi vennero
anche diminuite), né furono istituite nuove tasse. Infatti, se con il
decreto dell’11 gennaio 1831 fu dimezzato il dazio sul macinato, la
famigerata tassa tanto invisa al popolo, questo tributo verrà totalmente
abolito nel 1847. Nel 1845 e nel 1846 furono emanati alcuni decreti in
ambito doganale che abbassarono le imposte su vari generi di consumo,
per poi giungere, attraverso fasi successive, ad una liberalizzazione
quasi totale con i decreti della primavera del 1860; purtroppo, questi
ultimi provvedimenti normativi non produssero i loro frutti a causa
dell’invasione garibaldino-sabauda e della conseguente caduta del Regno
delle Due Sicilie. L’erario napoletano era il più prosperoso
d’Europa, quantunque a fronte di un sistema tributario giudicato il più
mite del Continente, in quanto le entrate fiscali del Regno delle Due
Sicilie risultarono sempre in espansione, poiché esse crescevano con la
crescita del benessere generale, come poté puntualmente verificare e
dimostrare, attraverso i suoi studi economico-finanziari, Giacomo
Savarese. In particolare, l’imposizione diretta (fondiaria)
riguardava solamente i ricchi, mentre di quella indiretta erano
destinatari tutti i sudditi. Ai nostri antenati erano sconosciuti
l’irpef, l’irpeg, l’iva, l’irap, l’imu, la tarsu, le accise, le imposte
di successione, le varie tasse di proprietà ed i tanti altri odiosissimi
balzelli italici! I dazi comunali borbonici (trasformati in «imposte
di consumo» dal successivo governo italiano) erano decisamente bassi.
Nel 1900, i calcoli di Gaetano Salvemini (1873-1957) dimostreranno come
quelle imposte fossero lievitate, in 40 anni (dal 1860 al 1900), di
oltre il 100% in tutta Italia e molto di più nel solo Sud. Questa
levità fiscale, unita alla particolarità dei dazi tendenti a far
soddisfare prima le esigenze interne delle comunità ed aprire poi,
gradualmente, al mercato estero le sempre più abbondanti produzioni
eccedenti il fabbisogno nazionale, determinavano uno stato di prezzi
molto bassi, una circolazione dei beni sensibilmente alta ed elevati
livelli di impiego della ricchezza (il tutto, ovviamente, secondo i
parametri del tempo). I dazi di importazione erano in linea con quelli
di tutte le grandi economie del tempo, tant'è che le esportazioni delle
Due Sicilie potevano tranquillamente crescere senza incontrare le
difficoltà di «dazi ritorsivi», che ci sarebbero sicuramente stati
qualora il Sud avesse praticato un’esasperata politica protezionistica
per le proprie produzioni. I benefici seguiti alle manovre economiche
ed ai vari provvedimenti politico-amministrativi, in particolare di
Ferdinando II, generarono una lunga fase di crescita, di incremento
della ricchezza e di sviluppo produttivo. In vent’anni circa, la
situazione finanziaria e socio-economica del Regno delle Due Sicilie
raggiunse livelli tali che – per il tempo – erano di valore assoluto.
Infatti, durante il regno di questo lungimirante sovrano, le finanze
dello Stato borbonico conseguirono un’affidabilità ed una solidità tale
che i titoli del debito pubblico, alla Borsa di Parigi, oscillavano tra i
115% ed i 120% rispetto a valori facciali di 100. Gli interessi, pagati
con regolarità, erano in linea con la media degli interessi corrisposti
per i migliori titoli d’Europa ed il capitale veniva puntualmente
restituito. Ferdinando II di Borbone, ispirandosi alle teorie
politico-economiche del santo filosofo Thomas More: «un poco a tutti e
non tutto a pochi», rese reale il «cattolicesimo sociale» descritto
nella Utopia e fondò lo Stato su princìpi di equità, giustizia ed aiuto
alle classi più deboli, costruendo una rigorosa amministrazione pubblica
ed un giusto sistema fiscale e finanziario. La politica economica dello
Stato borbonico fu essenzialmente rivolta al perseguimento
dell’autentico benessere dei sudditi e non al profitto di pochi
(finalità, quest’ultima, tipica del capitalismo); ciò trovava il
riscontro più evidente ed incontrovertibile nel dato di fatto che la
disoccupazione era praticamente inesistente, cosa questa che significava
concreta possibilità, per tutti, di lavorare e di vivere in modo
decoroso e libero, come ad esempio il gran numero degli artigiani aventi
casa propria attigua alla bottega. La leggerissima pressione fiscale
non erodeva affatto i redditi privati, né mortificava minimamente le
attività economico-commericiali, tanto da incoraggiare cospicui
investimenti di capitali da parte degli imprenditori stranieri, i quali
insediarono numerose aziende nei territori del Regno, creando sviluppo e
ricchezza. È lapalissiano che, in un sistema tributario così
strutturato, non trovasse spazio alcuna forma di elusione o di evasione
fiscale. Eppure Bernardo Tanucci, Luigi de’ Medici e Ferdinando II di
Borbone non avevano studiato alla… Bocconi! Ferdinando aveva anche
introdotto severi controlli sulle spese dei Comuni, sempre allo scopo di
alleggerire la pressione fiscale; non di rado, sindaci, intendenti (gli
attuali prefetti) ed esattori locali vedevano giungere all’improvviso
il re, al quale dovevano esibire registri e conti di cassa. Al
contrario, in Piemonte, nel periodo compreso tra il 1° febbraio 1850 ed
il 13 febbraio 1856, erano state emanate ben 22 leggi che aumentavano la
pressione fiscale attraverso l’imposizione di nuove tasse e/o l’aumento
delle aliquote per i tributi già esistenti (cfr. Giacomo Savarese, «Le
finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860», Tipografia
Gaetano Cardamone, Napoli, 1862; a cura di Aldo Servidio e Silvio
Vitale, Controcorrente, Napoli, 2003, tabella riportata alla pag. 28);
questo malvezzo è stato poi puntualmente ereditato (nihil sub sole
novi!) dallo Stato italiano, sia monarchico che repubblicano. Il
sistema tributario piemontese prevedeva: l’imposta personale; le tasse
sulle successioni, sulle donazioni e sui mutui; quelle
sull’emancipazione e sull’adozione; la tassa sulle pensioni; la tassa
sanitaria; la tassa sulle fabbriche, sull’industria e sulle società
industriali; la tassa sui pesi e sulle misure; il diritto
d’insinuazione; il diritto di esportazione sulla paglia, sul fieno e
sull’avena; il diritto sul consumo delle carni, delle pelli,
dell’acquavite e della birra; la tassa sulle «mani morte»; la tassa per
la caccia; la tassa sulle vetture; tutti nuovi balzelli, questi, imposti
al Sud immediatamente dopo la conquista piemontese. La tassa più odiosa
fu quella «sulla successione» che, di per sé, è un’assurdità: «perché
pagare per avere ciò che è già tuo?». Negli anni seguenti, verrà
applicata l’odiosissima tassa «sul macinato», che penalizzerà
soprattutto le classi più povere; successivamente, verrà inventata
addirittura la risibile, se non proprio ottusa, tassa «sulle finestre»! I
conti pubblici piemontesi, infatti, erano stati gravemente provati
soprattutto dai prolungati sforzi bellici, sostenuti sia contro
l’Austria che a danno degli altri Stati della Penisola; e, per
estinguere la montagna di debiti allegramente contratti dal conte di
Cavour fra il 1850 ed il 1861, si rese necessario imporre a tutti gli
italiani, dalle Alpi alla Sicilia, enormi sacrifici che ovviamente
dissanguarono le classi popolari, cioè quelle più deboli! Come le
ricchezze finanziarie del Regno della Due Sicilie erano più consistenti
di quelle piemontesi, così il debito pubblico era più modesto: nel 1859
esso quotava 59,03 lire pro-capite per i regnicoli borbonici, rispetto
alle 261,86 lire pro-capite per i sudditi sabaudi. Pertanto, a seguito
dell’unità d’Italia, con la fusione delle finanze degli Stati
preunitari, i meridionali dovettero pagare anche il debito pubblico
piemontese, che era 4 volte superiore a quello delle Due Sicilie. Vittorio
Sacchi (1814-1899), commissario governativo piemontese, inviato a
Napoli da Cavour quale segretario generale delle finanze, incarico che
ricoprì dal 1° aprile al 31 ottobre 1861, nel suo rapporto inviato a
Torino, riferì: «esser [il sistema tributario napoletano, n.d.r.] meno
costoso che in Piemonte»; egli, infatti, ammirava la semplicità dei
mezzi di riscossione, lodava il sistema di tesoreria e la direzione del
debito pubblico e gli parevano così buoni che voleva «modellarvi il
servizio del debito pubblico nazionale». Sacchi definì, quindi,
«mirabile il meccanismo finanziario del Regno di Napoli», aggiungendo
che: «nei diversi rami dell’amministrazione delle finanze napoletane si
trovano tali capacità di cui si sarebbe onorato ogni qualunque più
illuminato governo...». Francesco Saverio Nitti (1868-1953) affermò
poi categoricamente: «Ciò che è certo è che il Regno di Napoli era nel
1859 non solo il più reputato d’Italia per la sua solidità finanziaria,
ma anche quello che, fra i maggiori Stati, si trovava in migliori
condizioni. Scarso il debito; le imposte non gravose e ben armonizzate;
semplicità grande in tutti i servizi fiscali e nella Tesoreria dello
Stato» e che, in seguito alla estensione del sistema fiscale piemontese
a tutta la Penisola, il Regno delle Due Sicilie si trovò
improvvisamente «a passare dalla categoria dei paesi a imposte lievi in
quella dei paesi a imposte gravissime». Con il nuovo Stato unitario,
vi fu l’imposizione di nuovi ordinamenti e di nuove leggi, nonché di
nuove e più gravose tasse che, nel loro insieme, assunsero i connotati
di vere e proprie confische; furono colpiti i patrimoni delle famiglie
con sistematica rapacità, per ricavare denaro ovunque. Il Sud fu in tal
modo costretto a pagare tutte le spese di guerra del Piemonte; anche
quelle sostenute per aggredire e combattere i meridionali stessi! Innumerevoli
furono gli espropri a carico di chi non poteva pagare (anche se non era
stata ancora inventata Equitalia!). I re Borbone, al contrario, non
avevano mai consentito (e, forse anche, neppure... pensato) che lo Stato
potesse appropriarsi dei beni del popolo! Ma c’è di più. La politica
fiscale perseguita dallo Stato italiano fu un caso di vero e proprio
drenaggio di capitali che, dal Sud, andarono al Nord; ed attraverso
l’uso di strumenti oltremodo scorretti e disonesti, le floride finanze
del Regno delle Due Sicilie, in poco tempo, furono portate al tracollo.
Ubaldo Sterlicchio |