Un interessante e documentato intervento del nostro Ubaldo Sterlicchio, appassionato e puntuale ricercatore delle cose delle Due Sicilie, tra passato e... presente. La storiografia risorgimentalista ha fatto sì che la giustizia borbonica fosse consegnata alla Storia come una fra le peggiori dell'esperienza europea, asserendo inoltre che il Regno delle Due Sicilie aveva una burocrazia farraginosa ed arretrata. Invece non era così! Se volgiamo infatti lo sguardo, con la necessaria attenzione e con onestà intellettuale, alla legislazione penale ed al sistema carcerario borbonici, ci accorgiamo di quanto ciò sia falso e
di come, invece, sia purtroppo vero che la storia venga scritta sempre
dai vincitori. Oggi, senza tema di smentita, possiamo affermare che il
Regno delle Due Sicilie eccelleva sotto gli aspetti sociale, culturale,
industriale, economico, amministrativo, ed aveva delle leggi
all'avanguardia in numerosi settori. In
particolare, il sistema giudiziario meridionale è stato riconosciuto da
molti studiosi come il più avanzato dell’Italia pre-unitaria, in linea
con la grandissima scuola napoletana del diritto. Ed è ap-pena
sufficiente consultare, presso l’Archivio di Stato di Napoli - fondo
Archivio Borbone - la «Col-lezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del
Regno delle Due Sicilie», per rendersi conto della mo-dernità e
dell’elevato livello di civiltà giuridica che caratterizzavano
l’Ordinamento duosiciliano. Legislazione penale Sin
dal 1774, era stato introdotto nell’impianto processuale borbonico
l’obbligo della Motivazione delle Sentenze, in linea con le teorie
illuministe del giurista napoletano Gaetano Filangieri (1753-1788); ed,
allorquando la tortura giudiziaria vigeva ancora con tutta la sua
ferocia nel cosiddetto li-berale Piemonte, le leggi borboniche già da un
pezzo l’avevano vietata. Era stabilito, inoltre, che la corrispondenza
privata non potesse venire in alcun modo manomessa e che non fosse
lecito impri-gionare un povero debitore senza un giudizio di merito che
ne avesse accertato la frode e le relative responsabilità.(1) A
distanza di un secolo e mezzo dall’annessione del Meridione d’Italia al
Piemonte, è possibile af-fermare, con cognizione di causa, dati e
documenti alla mano, che le leggi napoletane erano ottime, tanto che,
nel 1852, Napoleone III inviò a Napoli una speciale commissione di
giuristi e di alti fun-zionari, perché studiassero la bontà di quelle
leggi.(2) È, infatti,
molto interessante esaminare i seguenti articoli della legge del 29
maggio 1817, titolata: «De’ conciliatori, de’ giudici, de’ tribunali, e
delle Gran Corti in generale». Art.
81: «In parità di voti [fra i magistrati componenti le Corti di
Giustizia, n.d.r.], sarà seguita l’opinione più favorevole al reo». Art.
194: «L’Ordine Giudiziario sarà subordinato solamente alle autorità
della propria gerarchia. Niun’altra autorità potrà frapporre ostacolo o
ritardo all’esercizio delle funzioni giudiziarie o alla esecuzione dei
giudicati». Art. 196:
«Niuno potrà essere privato di una proprietà o di alcuno de’ dritti,
che la legge gli accorda, che per effetto di una sentenza o di una
decisione passata in giudicato». Art.
219: «Tutte le sentenze e tutti gli atti dei giudici, de’ tribunali e
delle Gran Corti, saranno scritti in italiano; le sentenze saranno
motivate nel fatto e nel diritto».(3) Sarebbero
sufficienti solo queste quattro norme per attestare, in maniera
incontrovertibile, la mo-dernità e l’elevato livello di civiltà
giuridica che, già nei primi decenni del XIX secolo, caratterizza-vano
il sistema penale borbonico. Il
21 maggio 1819 fu promulgato da Ferdinando I (1751-1825) una sorta di
Testo Unico, diviso in 5 parti: leggi civili, leggi penali, leggi della
procedura ne’ giudizi civili, penali e per gli affari di commercio, che
realizzava una fondamentale unificazione legislativa nel Regno.(4) Il
Codice Penale, in particolare, prevedeva che i magistrati venissero
reclutati per concorso e non per nomina regia, come avveniva in altre
parti d’Italia; quelli, poi, che componevano le 21 Gran Corti Criminali,
presenti nei principali capoluoghi del Regno, dovevano essere in numero
pari poiché, in caso di equilibrio nel giudizio, si doveva decidere
osservando il già citato principio secondo cui «l’opinione è per il
reo». Questa norma sulla composizione paritaria delle Grandi Corti, in
merito alla quale si potrebbe scrivere e parlare per ore, scaturiva da
un’applicazione talmente evoluta del principio giuridico del favor rei,
che con la scomparsa del Regno borbonico non ha più trovato
ap-plicazione, perché non è più affiorata in forma compiuta nella
retriva coscienza giuridica dell’Italia post-unitaria. È
interessante poi notare come, nella parte dello stesso Codice dedicata
alle pene, non si facesse al-cun cenno a reati d’indole sessuale; ciò in
difformità da quanto avveniva in altre legislazioni con-temporanee. Nel
libro II, tit. VII, cap. II, concernente «Dei reati che attaccano la
pace e l’onore del-la famiglia», l’art. 345 puniva genericamente «ogni
altro atto turpe o sregolato d’incontinenza che offenda il pudore
pubblico», perseguendo nella stessa misura sia gli eterosessuali che gli
omosessuali. Al contrario, 20 anni dopo, nel 1839, con l’introduzione
in pompa magna del Codice Penale per gli Stati di S.M. il Re di
Sardegna, in vigore in Piemonte, Liguria, Sardegna e Savoia, l’art. 439
contemplerà la punizione della «libidine contro natura», anche se
avvenuta senza violenza e fra a-dulti consenzienti, sanzionando così
l’omosessualità.(5) L'art. 425 del successivo Codice penale per gli
Stati di S.M. il Re di Sardegna del 1859 riprenderà le disposizioni del
codice del 1839; e sarà quest’ultimo Codice ad essere esteso al neonato
Regno d'Italia, dal 1860 in poi, fino alla sua sosti-tuzione con il
primo codice penale veramente italiano, il Codice Zanardelli, nel 1889.
In questo mo-do, la criminalizzazione dell'omosessualità fu estesa al
nuovo Regno. Con un
decreto del gennaio 1824, ai fini di una più rapida definizione dei
procedimenti giacenti, fu introdotto l'istituto della «transazione»,
molto simile all’odierno «patteggiamento», tra il pubblico ministero ed
il reo, nel contesto di un procedimento abbreviato;(6) si pensi che
entrambi questi istituti («patteggiamento» e «rito abbreviato») saranno
introdotti nel diritto processuale italiano solamente il 24 ottobre
1989, vale a dire ben 165 anni dopo! Soprattutto
Ferdinando II di Borbone (1810-1859) legiferò e si adoperò ai fini
della più corretta amministrazione della Giustizia, garantendo in primis
l’assoluta indipendenza della Magistratura dagli altri poteri dello
Stato. Inoltre, ben sapendo «che nella pubblicità dei giudizi è riposta
la più solenne guarentigia della loro rettitudine, e che codesta
pubblicità è la scuola migliore che aver possa un popolo... ordinò e
richiamò essenzialmente in osservanza la discussione pubblica di tutte
le cause, mirando anche al motivo della gloria del foro, affinché non
scemasse il pregio dell’eloquenza degli avvocati con lasciar trasandata
la perorazione delle cause».(7) Con
l’ordinanza del 18 novembre 1833, lo stesso re prescrisse poi ai
Procuratori Generali del Regno di segnalare al Ministro della Giustizia,
con rapporto circostanziato, i pronunziati delle Corti a pene capitali,
affinché il Re fosse messo in condizioni di provvedere – motu proprio –
per l’eventuale grazia o commutazione di pena. Durante
tutto il Regno di Ferdinando II, infatti, nessuna sentenza capitale,
pronunciata per motivi politici, fu mai eseguita: furono tutte tramutate
in carcere, quando i condannati non furono addirittu-ra graziati,(8)
fatto unico nell’Europa di quei tempi! Pertanto, alla luce di quanto
appena detto, si può ben affermare che, nel Regno borbonico, al momento
dell’uni-tà d’Italia, la pena di morte risultava essere stata, di fatto,
abolita, tanto che lo storico Paolo Mencacci osservò: «a giudicare coi
criteri odierni, che ritengono la pena di morte una barbarie, il Regno
delle Due Sicilie, nel decennio che precede l'unificazione, è senz'ombra
di dubbio uno Stato modello».(9) Il
25 febbraio 1836, Ferdinando II abolì anche la pena dei lavori forzati
perpetui che, invece, nei de-cenni post-unitari, fu largamente inflitta
dal Governo italiano ai cosiddetti «briganti» meridionali. Per
tutelare infine la privacy degli imputati, con un decreto del 1849, lo
stesso re Ferdinando II vie-tò che i giornali ed i periodici
pubblicassero gli atti istruttori delle cause penali in pendenza di
giu-dizio. La trasgressione comportava la reclusione, oltre ad
un’ammenda.
Sistema carcerario
Con
una circolare del 24 ottobre 1800, il re Ferdinando IV (poi I),
promulgò norme innovative in favore dei carcerati, ordinando che per i
detenuti poveri il Fisco – e cioè lo Stato – sostenesse le spese per il
loro vitto. Questo avveniva mentre, nelle restanti carceri europee del
tempo, i familiari dovevano provvedere a fornire il companatico per i
congiunti chiusi in prigione. Nel
1817 Ferdinando I di Borbone emise un decreto assolutamente
all’avanguardia per i tempi. Il provvedimento prevedeva, in primis, la
costituzione di una speciale Commissione per ogni «valle», che vigilasse
sul regolare funzionamento delle carceri, sulla salubrità e sicurezza
dei locali e sulla qualità del cibo somministrato ai reclusi. Il
provvedimento regio conteneva, inoltre, le norme relative alla
concessione di quegli appalti che provvedessero, all’interno delle
strutture carcerarie, alle più elementari necessità dei detenuti, come
la pulizia, la rasatura, il lavaggio della biancheria sporca, il
ricovero dei malati in apposite strutture sanitarie. Ogni prigione
doveva essere fornita di un cappellano, di un medico e di un cerusico. Nel
Codice del 1819 si legge anche che: «…il pavimento del carcere si
laverà ogni 15 giorni… il carcere si imbiancherà ogni sei mesi, sarà
mantenuto anche il barbiere dei poveri …e non potrà pretendere compenso
alcuno dai detenuti …il barbiere raderà i capelli a tutti coloro che
giungeranno al carcere e si dichiareranno poveri. Raderà a costoro la
barba una volta a settimana. Il fornitore stipendierà anche il lavandaio
dei poveri; le biancherie dei letti e le camicie saranno cambiate ogni 8
giorni, se pure non occorresse farlo più sovente».(10) Nel
1845, Ferdinando II emanò un decreto sulla legislazione carceraria che,
se fosse stato integral-mente applicato (infatti, lo fu solo
parzialmente, soprattutto a causa delle gravissime problematiche
provocate dalle continue rivolte, fomentate dai facinorosi rivoluzionari
liberal-massoni, che il Regno dovette affrontare durante quel
turbolento periodo storico), avrebbe senz’altro reso il sistema
penitenziario borbonico il più moderno del mondo. Il decreto, infatti,
prevedeva la suddivisione dei carcerati in varie categorie, a seconda
dell'età e del delitto commesso, nonché la loro separazione in strutture
diverse, per evitare che il contatto fra i detenuti per reati poco
gravi e i detenuti per reati di maggiore entità, potesse avere una
cattiva influenza sui primi; la destinazione al lavoro dei condan-nati
alla reclusione, fino ad allora abbandonati nel più terribile ozio,
presso manifatture da costituirsi all'interno degli stessi penitenziari;
l'istruzione religiosa e morale. Il decreto conteneva, altresì, norme
sulla struttura architettonica del carcere, che avrebbe dovuto
rispondere ai requisiti della vigilanza, della sicurezza, della
salubrità, della capacità e del contenimento della spesa.(11) Il
regime borbonico, infatti, si dimostrò all’avanguardia anche nel
settore dell’edilizia carceraria ed una particolare menzione merita, a
tale proposito, l’esperimento del penitenziario di Santo Stefano. In
un’epoca in cui non esisteva il concetto moderno di detenzione nel
rispetto della «dignità umana» ed in cui il carcere era inteso solo e
soprattutto come «vendetta sociale» e, quindi, esclusivamente come luogo
di espiazione e di castigo, i cattolicissimi re Borbone, ispirandosi
alla clemenza dettata dal Vangelo, la legge perfetta posta alla base del
loro Ordinamento Statale, fecero proprie le tesi «roussoiane» secondo
le quali «L’uomo non è cattivo per nascita, ma perché è la società che
lo cir-conda a condizionarlo negativamente. Pertanto, se lo si sottrae
all’ambiente perverso e lo si intro-duce in un mondo sano e regolato,
egli si redime».(12) Gli ideali cristiani ebbero, quindi, un peso
de-terminante nel campo criminologico borbonico, aiutando a comprendere
che il periodo di isolamento in carcere, e quindi la pena detentiva,
dovesse servire alla correzione della personalità del reo; per usare la
dizione che rinveniamo nell’articolo 27 della Costituzione della
Repubblica italiana, dovesse «tendere alla rieducazione del condannato». Il
carcere che, nel mondo dell’epoca, era caratterizzato da promiscuità e
trattamenti inumani, da noi divenne «penitenziario» e cominciò così a
farsi strada la teoria dell'emenda del reo, in base alla quale la
funzione della pena deve essere quella di «correggere il comportamento
criminoso, al fine di reinserire il soggetto nella società». Forti
di tali principi, i Borbone concepirono il carcere come un luogo di
redenzione e non più solo come punizione (quale rappresaglia di una
società offesa) e realizzarono un regime penitenziale fra i meno
disumani d'Europa. Essi progettarono, prima d'ogni altro Stato europeo,
una riforma in tal campo che teneva conto delle esigenze elementari dei
carcerati e della necessità di educarli, al fine di permettere loro di
iniziare una nuova vita, una volta espiata la pena. I Borbone, pertanto,
compirono la prima riforma carceraria che tenne conto dell’umanità del
condannato, statuendo che i luoghi di detenzione non dovessero essere
più quelle incivili prigioni, dove i detenuti soffrivano la reclusione
nella più bieca ed inumana promiscuità, ammassati in locali senza
servizi igienici e dove molte volte convivevano donne, bambini e uomini.
Si rese, quindi, evidente la necessità di assicurare ambienti adeguati
per spazio e cubatura, igienici e dove i condannati, separati per sesso,
e molte volte per tipologia di reato, ricevessero anche assistenza
sanitaria e religiosa, e potessero svolgere un’attività lavorativa.(13) È
con questo altissimo concetto etico e morale che vennero commissionati
al maggiore del Genio Militare Antonio Winspeare senior (1739-1820) il
progetto ed all’ingegnere Francesco Carpi la rea-lizzazione del «primo
carcere di recupero della storia mondiale», nell’isola di Santo Stefano,
attigua a Ventotene, nelle Pontine. Siamo nel 1795 e, quando tutte le
carceri del mondo sono ricavate in umidi ed oscuri sotterranei di
antichi palazzi, oppure nelle soffitte, nelle torri e nelle segrete di
freddi castelli, i Borbone realizzano una struttura penitenziaria
all’avanguardia, la cui progettazione e costruzione si rifaceva ai
criteri architettonici del cosiddetto panoptikon, suggeriti dal filosofo
in-glese Jeremy Bentham (1748-1832).(14) Visitando
la struttura carceraria, tuttora accessibile, appare evidente la sua
funzionalità e la perfetta e facile fruibilità, da parte dei detenuti in
semilibertà, degli spazi comuni e delle aree circostanti. La pianta a
«ferro di cavallo» rispondeva a varie esigenze. Innanzitutto
psicologiche: i reclusi avevano vista solo verso l'interno e la forma
tondeggiante, come l'isola stessa, dava l'idea di un arroccamento
completo. Poi anche pratiche, in quanto la struttura ad emiciclo del
panoptikon permetteva ad un so-lo sorvegliante, posto al centro, di
controllare tutte le celle contemporaneamente.(15) È
evidente poi come le celle individuali, ricavate su tre piani, fossero
in realtà degli «alloggi» dove i «rilegati», oltre che a dormire,
dovevano provvedere a cucinare e ad accudire a se stessi attraverso una
sorta di autogestione. A partire dalle prime ore del mattino, essi si
recavano nei campi a terrazze dove lavoravano la vigna, coltivavano gli
ortaggi, i cereali e curavano gli animali da latte e da carne. I salari,
così guadagnati, potevano poi venire spesi nella cittadella carceraria
posta immediatamente a ridosso del corpo centrale dove, oltre ad una
«locanda» ben attrezzata (ma senza alcol!), i reclusi potevano disporre
di un «locale barberia», di un «cortile giochi» (bocce, zicchinetta,
strumml’, lippa), di una «lavanderia» e di una «canonica» con annessa
cappella. Come già
detto, la presenza dei carcerieri era estremamente limitata, sia nelle
aree di detenzione notturna, che in quelle diurne; infatti, al centro
dell’emiciclo era stata ricavata, una «cappella/punto di osservazione»,
da cui un solo guardiano, a distanza e con estrema discrezione, era in
grado di te-nere sotto controllo tutte le 99 celle; nella stessa
cappella, tra l’altro, a cura del Cappellano del car-cere, veniva
celebrata la Santa Messa mattutina e recitata la preghiera del Vespro
alla presenza di tutti i detenuti, senza la necessità che gli stessi si
muovessero dall’interno delle proprie celle.(16) Ed
era proprio questa un’altra peculiarità delle «carceri borboniche»: il
servizio religioso, molto cu-rato, nel quale i sacerdoti si impegnavano,
non solo con le funzioni sacre, ma anche con altri compiti
assistenziali per i carcerati. Eppure,
i detrattori continuano a definire il Regno dei Borbone «lo Stato dove
si edificavano infer-nali carceri per inumani trattamenti». Niente di più falso! Mentre,
a seguito della politica radicalmente anti-cattolica del governo
italiano, le quotidiane cele-brazioni religiose nelle prigioni del Sud,
dopo l’unità furono abolite.(17) Purtroppo, proprio con l’unità
d’Italia, il carcere di Santo Stefano perse la sua peculiarità e fu
trasformato in carcere duro ed ergastolo. Dove prima alloggiava un solo
detenuto, ne furono posti due, poi ne furono stipati quattro e poi sei,
mentre cessarono quasi del tutto le attività esterne, lasciando che la
disperazione prendesse il sopravvento sulla speranza che un tempo
sorreggeva gli antichi originari reclusi. I
Borbone, diffamati oltremodo quali «feroci e sanguinari tiranni»,
furono invece, fra i sovrani eu-ropei, coloro che per primi avviarono
una moderna riforma carceraria e si distinsero fra tutti, dando prova di
maggiore sensibilità rispetto agli stessi governanti inglesi, i quali
si limitavano ad approvare i progetti dei riformatori, guardandosi bene,
tuttavia, dal metterli in atto, con la conseguenza che le loro carceri,
malgrado una propaganda mirante a tesserne gli elogi, risultavano le
più terribili e disumane di tutta l'Europa.(18) Anticipando le più
moderne teorie e realizzazioni carcerarie, i Borbone riuscirono, con
questo incredibile esperimento riabilitativo, a reinserire nella società
di allora molti detenuti operando un sicuro vantaggio per la
collettività e per le pubbliche e private casse. L’esperienza
di Santo Stefano, venuta alla ribalta di recente per l’interessamento
diretto dell’UNESCO, dà il definitivo colpo di grazia alle calunnie
artatamente costruite dalla storiografia ufficiale sul «feroce regime
carcerario borbonico» che, come abbiamo avuto modo di vedere, risul-tava
essere invece tra i più organizzati, umani e tolleranti del mondo.(19)
Telese Terme, luglio 2013.
dott. Ubaldo Sterlicchio
___________
Note
(1) Carlo Alianello, “La conquista del Sud”, Rusconi, Milano, 1982, pag. 109. (2) Ibidem. (3) “Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie”, Napoli, 1817. (4)
“Codice per lo Regno delle Due Sicilie”, Napoli, dalla Real Tipografia
del Ministero di Stato della Cancelleria generale, 1819. (5) Doctor J., “Diritto e carceri nelle Due Sicilie”, in http://www.frontemeridionalista.net, 4 gennaio 2011. (6) “Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie”, Napoli, 1824. (7) Carlo Alianello, op. cit., pagg. 167-168. (8) Erminio De Biase, “L’Inghilterra contro il Regno delle Due Sicilie”, Controcorrente, Napoli, 2002, pag. 61. (9) Angela Pellicciari, “L’altro Risorgimento“, Piemme, Casale Monferrato, 2000, pag. 188. (10) “Codice per lo Regno delle Due Sicilie”, menzionato nella precedente nota nr. 4. (11)
Gabriella Portatone, “Il sistema penitenziario borbonico nell’ultimo
lavoro di Giovanni Tessi-tore”: “L'utopia penitenziale borbonica. Dalle
pene corporali a quelle detentive”, Milano, Franco Angeli, 2002. (12)
Alessandro Romano, “Nell’isola di Santo Stefano fu edificata dai
Borbone la prima vera strut-tura carceraria della storia”,
www.reteduesicilie.it, 13 maggio 2011. (13) Antonio Nicoletta, “La giustizia dei Borbone”, Siracusa, 5 novembre 2007. (14)
Jeremy Bentham, “Panopticon ovvero la casa d’ispezione”, a cura di
Michel Foucault e Michelle Pierrot, Venezia, Marsilio, 1983 [Ed.
originale: Panopticon or the inspection-house, London, T. Payne, 1791];
da http://it.wikipedia.org/wiki/Panopticon. L’idea alla base del
Panoptikon («che fa vedere tutto») era quella che - grazie alla forma
radiocentrica dell’edificio e ad opportuni accor-gimenti architettonici e
tecnologici - un unico guardiano potesse osservare (optikon) tutti
(pan) i prigionieri in ogni momento, i quali non dovevano essere in
grado di stabilire se fossero guardati o meno, portando alla percezione,
da parte dei detenuti, di un'invisibile onniscienza del guardiano, che
li avrebbe condotti a mantenere sempre la disciplina come se fossero
stati sempre visti. Dopo anni di questo trattamento, secondo Bentham, il
retto comportamento «imposto» entrerebbe nella mente dei prigionieri
come unico modo di comportarsi possibile, modificando così
indelebilmente il loro carattere. Lo stesso filosofo descrisse il
panottico come «un nuovo modo per ottenere potere mentale sulla mente,
in maniera e quantità mai vista prima». La struttura del panottico è
composta da una torre centrale, all'interno della quale deve stazionare
l'osservatore, circondata da una costruzione circolare, dove sono
disposte le celle dei prigionieri, illuminate dall'esterno e separate da
spessi muri, disposte a cerchio, con due finestre per ognuna: l'una
rivolta verso l'esterno, per prendere luce, l'altra verso l'interno. I
carcerati, sapendo di poter esser osservati tutti insieme in un solo
momento dal custode, grazie alla particolare disposizione della
prigione, dovrebbero assumere comportamenti disciplinati e mantenere
l'ordine in modo quasi automatico. Il regime carcerario del panoptikon
prevedeva, inoltre, che ad ogni singolo detenuto fosse assegnato un
lavoro; si avviava così il processo di passaggio da una formula
carceraria contenutiva ad una formula produttiva. Molte prigioni al
giorno d'oggi hanno ripreso qualche spunto dall'idea del panottico e
addirittura la strut-tura è stata proposta anche per la costruzione
degli ospedali. (15) Antonio Nicoletta, “La giustizia dei Borbone”, opera citata. (16) Alessandro Romano, “Nell’isola di Santo Stefano”, opera citata. (17) Gigi Di Fiore, “Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del risorgimento”, Rizzoli, Mi-lano, 2007, pag. 274. (18) Antonio Nicoletta e Gabriella Portatone, opere citate. (19) Alessandro Romano, opera citata. |