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Associazione culturale Neoborbonica
L'orgoglio di essere meridionali

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Neoborbonici anche alla Mostra di Venezia! PDF Stampa E-mail

                              VeritàneoborbonicheancheallaMostradiVenezia

L’8 settembre è stato presentato in anteprima nazionale (TRAILER ALLEGATO) e in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia il docu-film “Piazza Garibaldi” del regista Davide Ferrario. Oltre un anno fa, alla notizia dell’ennesimo film “garibaldino”, inviammo una mail alla produzione. Ne nacque un serrato dibattito con il regista e con uno degli artefici del progetto e della sceneggiatura (il prof. Giorgio Mastrorocco): il dialogo continuò da vicino serrato e carico di domande e risposte sul Sud che era e che poteva essere, sull’Italia che fu e che doveva essere, fino ad arrivare ad alcune riprese a Pietrarsa e a Mongiana (inaspettate e non previste dal progetto iniziale, “deviato” in corso d’opera...), luoghi-simbolo dei nostri primati sconosciuti e perduti. Nella prevedibile e naturale piccola dose di retorica celebrativa, qualche squarcio di verità neoborbonica, grazie alla correttezza, alla curiosità e all’onestà culturale di Ferrario e Mastrorocco: il film contiene alcuni minuti con interviste a Gennaro De Crescenzo, Francesco Borrelli e Salvatore Lanza (oltre alle note di “Malunità” di Eddy Napoli): il “cuore” del film, secondo le parole dei loro autori... Di seguito il “dialogo tra Nord e Sud” alla base del nostro intervento. Un grande risultato, come dimostrato anche dal trailer (link allegato, dal minuto 4.20) e da numerosi articoli (link Repubblica).

VIDEO http://trovacinema.repubblica.it/multimedia/copertina/piazza-garibaldi/30407879 

REPUBBLICA http://www.repubblica.it/speciali/cinema/venezia/edizione2011/2011/09/08/news/davide_ferrario-21405214/

UN DIALOGO TRA NORD E SUD

Ermanno Rea ha l’età di mio padre e per il lettore impaziente aggiungo che mi ritrovo a navigare con una certa sorpresa verso i sessanta. Credo che il suo ultimo La fabbrica dell’obbedienza sia stato piuttosto sottovalutato: ci si è soffermati sulla diagnosi dell’origine controriformistica dell’inciviltà degli italiani, peraltro condivisibile, trascurando il coraggio ammirevole mostrato nel tracciare le coordinate di una possibile via d’uscita, e nel darle un nome. E quando scrivo di coraggio, intendo quello proprio degli eretici, come proverò a spiegare. C’è un innegabile furore nella costruzione argomentativa di Rea ed io a quel furore intendo rendere omaggio. Per quanto sappia che l’intransigenza oggi non paga e che, come in tanti ci ricordano, la complessità dei giorni nostri non sopporta semplificazioni. Gli eroi del libero pensiero meridionale sono, per Rea, Giordano Bruno, Tommaso Campanella e l’Università napoletana postunitaria, quella di Francesco De Sanctis e, soprattutto, di Bertrando Spaventa. Alla storia meravigliosa di quel “cantiere napoletano di idee unitarie” e alle proposte di Gaetano Salvemini, Guido Dorso e, più di recente, di Giorgio Ruffolo, Rea si riallaccia per riprendere a parlare di questione meridionale, il grande tema rimosso da queste ultime celebrazioni. L’11 novembre 2009 esce sul Corriere della Sera un articolo dal titolo In viaggio con Servillo sulle orme dei garibaldini: vi si dà notizia del progetto cinematografico di Davide Ferrario: Piazza Garibaldi. In qualità di cosceneggiatore del film, ho il compito di rispondere alle numerose lettere giunte dai quattro angoli della penisola alla redazione del Corsera, la maggior parte delle quali firmata da discendenti di garibaldini interessati a dare una mano, quando non entusiasti; la più interessante è tuttavia quella del Prof. Gennaro De Crescenzo, presidente dell’Associazione Culturale Neoborbonica, che con parole di fuoco invita Ferrario a compiere un’operazione di verità ovvero a contribuire al ristabilimento di una memoria corretta dei fatti risorgimentali e postunitari accaduti nell’ex Regno delle Due Sicilie. Gli scrivo, mi risponde, inizia una simpatica corrispondenza, poi arricchita dall’invio di pubblicazioni che diligentemente leggo e annoto. Mi documento su altre fonti e scopro soprattutto sul web la pervasività del fenomeno neoborbonico. Mi convinco, e convinco l’amico regista, della necessità di incontrarli e verso la fine di febbraio del 2010, a Caserta, facciamo finalmente la conoscenzadei neoborbonici.

È grazie alle loro sollecitazioni che abbiamo poi scoperto i vecchi insediamenti industriali di Mongiana in Calabria e di Pietrarsa a Portici, abbandonati per le sciagurate decisioni di politica economica dei governi “piemontesi”. E nonostante fosse già nelle nostre intenzioni affrontare il nodo del brigantaggio e delle mitologie connesse, per cui ci siamo arrampicati fra i boschi del Potentino per assistere allo spettacolo corale della Storia Bandita, devo ammettere che le parole appassionate degli amici napoletani sui ‘patrioti della montagna’ hanno rappresentato qualcosa di più che una pulce nell’orecchio. Anche Rea, da questo punto di vista, non fa sconti ai “piemontesi” e ricorda le ossessioni del Presidente del Consiglio Menabrea che nel 1868 avrebbe incaricato l’ambasciatore italiano in Argentina di cercare nelle terre disabitate della Patagonia luoghi adatti ad ospitare colonie penali per i meridionali ribelli! Quello che mi sembra di aver capito oggi , dopo due anni di letture e documentazioni, incontri, sopralluoghi e viaggi al sud, è che nel fenomeno neoborbonico siano di gran lunga prevalenti gli aspetti culturali rispetto alla sostanza politica: a differenza di quanto accade al nord, gli studiosi meridionali elaborano una rilettura nostalgica della storia patria priva di connotazioni politiche autonomistiche. Rivendicano l’esigenza di raccontarla in altro modo quella storia, e di rendere giustizia alle vite spezzate, alle ricchezze perdute, ai primati dimenticati, soprattutto in relazione alla scuola e alle rimozioni che nell’insegnamento della Storia vi si consumano. E fin qui, qualche ragione non si può certo negare che ce l’abbiano. I problemi sono altri, a cominciare da quelli - certo meno decisivi - relativi alla “demolizione del mito di Garibaldi, nemico del sud”, operazione storiografica che, per quanto debole e contraddittoria (gli stessi neoborbonici non negano i ripensamenti del Generale sui disastri compiuti al Sud nel decennio postunitario), a noi di Piazza Garibaldi qualche fastidio ha dato. No, i problemi veri nascono dal raffronto con il presente e con il passato prossimo delle regioni  meridionali, sul cui evidente degrado ambientale e civile occorrerebbe la riflessione degli studiosi neoborbonici [...].

Di tutto questo abbiamo cercato traccia nella copiosa pubblicistica neoborbonica e, incuranti dei rischi, dato conto nelle discussioni con gli orgogliosi custodi della passata grandezza duosiciliana, ed è qui, appunto, che si rivela la debolezza di quell’analisi socioculturale e politica: gli intellettuali neoborbonici, in sostanza, continuano ad attribuire a quella lontana annessione forzata e al malgoverno successivo, prima piemontese e poi comunque settentrionale, il peccato originale, la fonte di ogni successiva disgrazia, la responsabilità storica dell’attuale disastro. Sta tutto qui il carattere regressivo dell’utopia neoborbonica: nell’insufficienza dell’autoanalisi civile, nell’ostinata e desolante rivendicazione di irresponsabilità [...]. Per tornare ai nostri incontri nelle Due Sicilie, va detto che a consolare chi scrive, insegnante da trent’anni nelle valli lombarde ormai abbandonate al nulla culturale e linguistico della proposta leghista, è stata la sorpresa del buon italiano e dei buoni studi che al Sud ancora resistono, che hanno reso educato e gradevole sempre il conversare con tutti, e che soli fanno sperare nel futuro. Già, il pensiero del futuro, a ben vedere la vera vittima delle passioni revisionistiche, al nord come al sud.  GIORGIO MASTROROCCO

Carissimo Giorgio,
ho letto e apprezzato molto il tuo articolo. Solo qualche osservazione: la verità storica è, per noi, un punto di partenza e non di arrivo. Da lì deve nascere una nuova classe dirigente che sappia trasmettere agli altri un senso di appartenenza e una nuova fierezza in grado di cancellare i marciapiedi sporchi e i paesaggi cementificati. Ci vorrà tempo? Non è colpa mia (da meridionale consapevole) e non è colpa tua (da settentrionale consapevole). I limti, del resto, sono quelli naturali di un movimento che, per ora, è semplicemente un movimento culturale... Serve, come dice Rea, un trauma e noi siamo convinti che questo trauma possa ritrovarsi più facilmente nell’orgoglio piuttosto che in quell’atto di “autoanalisi” e di autocondanna civile che conosciamo e pratichiamo più o meno da 150 anni ma che non ha cambiato di un centimetro lo stato delle cose. Un sogno? Forse sì, ma forse anche più realizzabile di quello dell’autonomia e dei “biblici ritorni” di Rea. Ti allego un passaggio di un mio intervento nel libro “Malaunità” pubblicato un paio di mesi fa con Aprile, Del Boca e altri... P.S. Resto convinto, con un poco di presunzione, che se lasciassero parlare di Italia a 5 Mastrorocco e a 5 neoborbonici, l’avremmo salvata già da un pezzo la nostra terra e la nostra gente...
Un abbraccio GENNARO DE CRESCENZO

 

Le classi dirigenti meridionali, del resto, non potevano che essere subalterne alle scelte politiche centro-settentrionali per restare classi dirigenti e tramandarsi cariche politiche, cattedre universitarie o ruoli di intellettuali “ufficiali” (si tratta, in fondo, di tre-quattro generazioni che hanno ereditato ruoli o attraverso i cognomi o attraverso le idee). Subito dopo il 1860 furono licenziati gli impiegati delle ferrovie giudicati dalla Polizia del tempo “reazionari” o “borbonici” (23). Ancora agli inizi del Novecento il poeta e scrittore Ferdinando Russo fu processato per “borbonismo” a causa di alcune “macchiette” (canzoni ironiche) che affontavano il tema-risorgimento in maniera non omologata... (24). Inutile dire, allora, come furono scelti i docenti, i giornalisti o gli stessi politici e che possibilità avevano di affermare la verità storica e rivendicare le proprie ragioni. E i processi di sradicamento, di “disidentificazione” o di cancellazione di memorie, identità e dignità hanno procurato danni ben più devastanti di quelli materiali legati ai saccheggi o ai massacri. Inutile sottolineare la subalternità ancora attuale dei nostri politici e dei nostri intellettuali. Ma qui non si tratta banalmente di salvare le classi dirigenti meridionali e di attribuire ai “piemontesi” le colpe di un secolo e mezzo di problemi irrisolti: si tratta semplicemente di capire perché ci ritroviamo queste classi dirigenti e cosa fare per cambiarle in maniera radicale. E questa è una priorità assoluta rispetto a qualsiasi progetto partitico, pseudo-secessionistico o federalistico. Nessuna assoluzione, comunque, per le nostre classi dirigenti: solo la possibilità di ricominciare un nuovo percorso ma partendo dalla memoria storica, dalle radici, dall’identità, dall’orgoglio, dal senso di appartenenza: esattamente quello che in 150 anni la cultura ufficiale (negli istituti culturali universitari come in quelli “di prestigio internazionale”) ha dimenticato o ignorato per esaltare questa o quella storia “altra”, lontana e distante dalla nostra storia e dalla nostra cultura a partire dalle falsità e dalla retorica risorgimentalista che ha invaso in maniera monopolistica libri, aule universitarie, tesi e ricerche, film o documentari. Dopo 150 anni, del resto, sarebbe quantomeno doveroso riconoscere i fallimenti oggettivi a livello politico come a livello culturale: chi avrebbe dovuto formarle queste classi dirigenti, del resto? E chi le ha formate nella maniera che sappiamo? E’ doveroso, allora, tentare altre strade. Senza ritorni al passato ma dal passato verso il futuro. Tutti colpevoli gli opinionisti “padani” sempre pronti a bacchettarci per questo e per quello con un complesso di superiorità del tutto immotivato. Tutti colpevoli i “professionisti del meridionalismo” a pagamento, professori del “lo avevamo già detto” (ma dove? Ma quando?) e del “sì, però...” o esperti in celebrazioni con pubblico denaro ma senza mai presentare bilanci almeno culturali, “senza darne conto” (la stessa formula utilizzata da Garibaldi per i prelievi delle sue truppe dai banchi di Napoli e Palermo) (25). Tutti colpevoli di non scrivere, dire o gridare la verità di migliaia di meridionali massacrati, chiamati “briganti” e cancellati dalla storia. Tutti colpevoli per non aver fatto nulla o addirittura (spesso) per avere indicato l’emigrazione come unico rimedio possibile per risolvere “gli atavici problemi del Sud” negli stessi anni. Impegnati in dibattiti sereni e distaccati nell’elaborazione delle loro astratte tesi, lontani dal popolo che avrebbero dovuto rappresentare e sistematicamente contro quello stesso popolo. L’unica strada che possiamo percorrere per “risarcire” i nostri antenati morti o partiti in questo secolo e mezzo è proprio quella della verità storica. Nell’attesa di classi dirigenti finalmente fiere, orgogliose e degne di rappresentare il Sud di domani (dal libro “Malaunità” di Autori Vari, Napoli, Spazio Creativo, 2011).

 

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