Segnaliamo un saggio del cardinale emerito di Bologna Biffi con molte affermazioni vicine alle nostre idee:
L'Unità
d'Italia. Centocinquant'anni 1861-2011
Giacomo (card.) Biffi
- Cantagalli, Siena 2011, pp. 86, € 8 segue un breve stralcio del testo
RICORDIAMO CHE NELLA NOSTRA SEZIONE ATTIVITA' (A SINISTRA), IN PROSSIME ATTIVITA', VI SONO LE IMMINENTI INIZIATIVE NEOBORBONICHE
Il 1796 inizio del
Risorgimento
Per parlare del Risorgimento, il cardinale parte dal 1796, dall’anno
dell’invasione francese, che si distinse dalle altre invasioni straniere per il
desiderio non di semplice conquista, ma di totale sopraffazione e di
spoliazione: «Prima di allora i conquistatori – spagnoli o austriaci che
fossero – non si erano mai permessi di derubarci delle nostre opere d’arte.
Cosa che i francesi fecero invece sistematicamente» (p. 8). “Ladri e
missionari”, li definisce il Cardinale, perché «nascosto negli zaini di quei
soldati, entrò in Italia l’annuncio di un radicale capovolgimento delle regole
di convivenza sociale e l’impulso a intraprendere quel cammino che, discontinuo
e travagliato, avrebbe di fatto condotto i nostri popoli alle moderne
democrazie» (p. 9).
Missionari, va specificato, delle idee sanguinarie del 1789, della violenza
rivoluzionaria, del Terrore che aveva consentito di arrestare e sopprimere
senza procedure giuridiche migliaia e migliaia di persone innocenti; e, tra le
decisioni politiche, il regicidio e il genocidio vandeano.
Dal punto di vista giuridico, le baionette francesi imposero un nuovo
principio: quello secondo cui ogni sovranità risiede essenzialmente nella
“Nazione”: un concetto, questo, molto importante: infatti faceva risiedere
l’origine dell’autorità e del potere non in un principio superiore (Dio), ma in
uno inferiore (sostanzialmente, il popolo).
Sta di fatto che, per emulare i francesi, alcuni italiani decisero di dare a
quella che era un’unica “Nazione” anche un unico Stato, considerandolo come
l’unico mezzo di “risorgere”. E Risorgimento fu.
La vera grandezza d’Italia
Ma chi risorge, se non chi è morto? A ben guardare, la cultura italiana era ben
presente e riconosciuta da tutta Europa che non la si sarebbe certo potuta
definire “morta” se non essendo in grande malafede: a Vienna, capitale
dell’Impero asburgico, i “poeti cesarei” non avevano nomi tedeschi, bensì
quelli italiani di Apostolo Zeno e Pietro Metastasio, che versificavano nella
propria lingua ed erano intesi da tutti, mentre l’italiano era il linguaggio
universale dell’opera lirica; nell’intera Europa (ma anche nelle Americhe) si
costruivano chiese e palazzi sui modelli italiani (dal barocco al neoclassico
di ispirazione palladiana), mentre la reggia di San Pietroburgo imitava quella
di Caserta; e la musica sinfonica (non solo quella operistica) nasceva in
Italia (basti ricordare i nomi di Arcangelo Corelli, Alessandro e Domenico
Scarlatti, Antonio Vivaldi, Tomaso Albinoni, Giovanni Battista Sammartini,
Antonio Salieri, Domenico Cimarosa e Giovanni Paisiello), mentre Mozart venne a
studiare contrappunto a Bologna e Beethoven si firmava inizialmente “Luigi”
(anziché Ludwig) per essere alla moda e per fare l’Italiano – anzi, più
esattamente, il Napoletano, visto che la scuola musicale napoletana aveva dato
alla luce almeno 4.000 opere liriche che furoreggiavano nei teatri di tutto il
continente.
E l’elenco potrebbe continuare con le altre arti, con le scienze fisiche
(Volta, Galvani), economiche (Galiani, Genovesi), giuridiche (Verri, Beccaria),
storiche (Muratori)…
Il bene della Controriforma
Ma chi ha ucciso culturalmente l’Italia? La risposta è presto detta: la Chiesa
Cattolica, naturalmente: «i guai d’Italia e le sue arretratezze derivano dalla
Controriforma. È questa la causa – secondo Francesco De Sanctis (che ha fatto
scuola) – del decadimento spirituale e morale degli ultimi secoli (e così si
spiega anche perché non sia stata riconosciuta la vitalità culturale italiana
del Settecento e si continui a immaginare che non ci sia nella nostra gente
alcuna religiosità, se non esteriore e formalistica)» (p. 34).
Naturalmente, è piuttosto vero il contrario: «Caso mai si può dire che sfortuna
d’Italia è stata che la Controriforma non è riuscita a raggiungere e a
trasformare l’intera penisola. Dove ha agito in profondità – per esempio, con
la Riforma borromaica (e cioè nel Nord, fino all’Emilia) – la gente è stata
davvero educata a superare le antiche propensioni alla furbizia, alla violenza
privata, alla passività, al clientelismo, e si è trovata pronta a entrare nella
moderna società europea» (p. 35).
Quindi Biffi cita Dostoevskij, che nel suo diario, nel 1877 annotava: «L’unico
grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e anche lui non ha pensato a
tutto. Sì, egli è geniale, ha raggiunto il suo scopo, ha fatto l’unità
d’Italia. Ma guardate più addentro, e che cosa vedete? L’Italia porta con sé da
duemila anni un’idea grandiosa, reale, organica: l’idea di una unione generale
dei popoli del mondo, che fu di Roma e poi dei papi. Un’idea universale e chi
non lo sa lo intuisce. La scienza e l’arte italiana sono piene di quella idea
grande. Ebbene, che cosa ha fatto il conte di Cavour? Un piccolo regno di
secondo ordine, che non ha importanza mondiale, senza ambizioni, imborghesito»
(p. 51-52).
Un “piccolo regno imborghesito”, dunque un ben magro guadagno; un’Italia di cui
Crispi scrisse: «Il Cattolicesimo, oltre la potente e mirabile gerarchia, che
tiene stretto i fedeli intorno al Capo, ha, ai fini della sua missione,
l’educazione, l’insegnamento, la beneficenza, l’apostolato. Che abbiamo noi
fatto, in trentaquattro anni, nel Regno d’Italia, per fare cittadini e soldati,
uomini e patrioti?» (p. 40).
Il bene dell’unità
D’altro canto il porporato riconosce alla “rivoluzione italiana” tre “guadagni
provvidenziali”: indipendenza, unità politica e fine del potere temporale della
Chiesa e conclude con due auspici conclusivi: «non mettere in pericolo gli
aspetti positivi della vicenda risorgimentale, e in particolare l’unità
politica della penisola; superare quanto di negativo e di manchevole in essa si
è stati costretti a rilevare» (p. 69).
La laicità dello Stato, conclude, va rispettata, ma essa si realizza
perfettamente nella difesa della realtà nazionale, quindi della fede religiosa
della sua maggioranza, fede che deve essere a sua volta rispettata e non
stravolta anche dalle nuove ondate migratorie, come già accadde con la
specificità cristiana di fronte alle invasioni barbariche.
«Diversamente, immersi in una società anonima e senza cultura specifica, i
nuovi arrivati conserverebbero le loro diversità e continuerebbero a sentirsi,
anche vicendevolmente, stranieri e senza speranza. Ai forestieri si fa spazio
non demolendo la nostra casa, ma ampliandola e rendendola ospitale sì, ma nel
rispetto della sua originaria architettura e della sua primitiva bellezza».
(RC n. 63 - Aprile 2011) |