Ben due articoli, il 26 marzo, sui maggiori giornali napoletani parlando delle scomode verità della reale storia risorgimentale. Sono autori due giornalisti che non conoscono la parola conformismo: Pino Aprile e Ruggero Guarini rispettivamente su Il Mattino e il Corriere del Mezzogiorno. seguono copia del pezzo su Il Mattino.
IL MATTINO DEL 26/3/11
Pino Aprile «Siamo tanti, ma non lo
sappiamo», diceva don Paolo Capobianco, parroco a Gaeta, figlio dell’ultimo
italiano nato duosiciliano. Forse ora lo sappiamo. E si vede. Qualcuno si
sorprende o si preoccupa, dopo aver cercato di ignorare o sminuire con il
dileggio, l’irrisione, tale massiva acquisizione di consapevolezza. Don
Capobianco dedicò la vita (morì centenario) al recupero della memoria di quello
che era il Paese dei meridionali, prima che fosse unito al resto d’Italia, nel
modo peggiore. Fu guerra di conquista e rapina; possiamo pure chiamarla epopea
e commuoverci, basti sapere che la qualità del fine non garantì quella dei
mezzi. C’è chi attribuisce a Terroni, il mio libro su 150 anni di unità a
chiacchiere (i Paesi sono uniti da storia condivisa e parità di
infrastrutture), la riscoperta identitaria dei meridionali e la montante
passione per la loro storia. Non ci credo: un libro va, se incontra lettori che
lo aspettavano, e al momento giusto. E il Mattino, interpretando l'aria che
tira al Sud, ha fatto bene ad avviare una riflessione su questa voglia di
identità sia con una serie di articoli e letture critiche sul processo unitario
sia con l'avvio di un dibattito, partito con un articolo di Gigi Di Fiore, in
cui, tirato in ballo, mi sembra giusto intervenire. Cresceva da anni il
malessere del Sud, descritto sempre colpevole, sbagliato, «meno» nel bene e
«più» nel male; la noia per il sentirsi dire, a ogni analisi, fine o becera
(più questa che quella) sui fatti nostri, che «i meridionali devono fare
autocritica», trascurando che la fanno da 150 anni, esattamente da quanto dura
la mancata autocritica altrui. Altri libri hanno preceduto Terroni; forse è
stata apprezzata una mia estrema di sincerità: confesso i miei sentimenti (gli
stessi del lettore, sospetto) mentre scrivevo di quanto sangue e quanta miseria
è costato ai meridionali diventare cittadini italiani. E come pesi non
vederselo riconosciuto, persino rimproverato. E ora c’è stupore per quello
accade al Sud: non erano, i meridionali, quella gente che più li insulti, più
piegano la testa? Che li chiami «porci» e ti offrono i rigatoni con la pajata?
Gli sottrai i fondi per le aree sottoutilizzate e ti votano più di prima? E ora
perché «mugugnano», come scrive Aldo Cazzullo, sul Corriere della sera? (Solo
per pignoleria ci si pregia di far osservare che il mugugno è la protesta dei
servi; e il padrone chi sarebbe?). C’è stupore (a Nord e a Sud) per il racconto
di quanto accadde nel Mezzogiorno, durante il Risorgimento, a danno del Sud:
rappresaglie contro le città, stragi, lager, distruzione di un promettente
comparto industriale («Cose note», si obietta; peccato non averlo saputo a
scuola...); e di quel che accadde da allora in poi, con la negazione, al Sud,
delle infrastrutture che rendono «europeo» il resto del Paese e nordafricano il
Meridione. C’è stupore e qualche inquietudine per l’evoluzione politica di tali
travolgenti umori del Sud. Sorgono partiti, movimenti, associazioni. Un
autonomista, Raffele Lombardo, governa già una Regione, la Sicilia. Panebianco,
dal Corriere della sera, invita i meridionali a non replicare alle provocazioni
della Lega, sennò si può spezzare il Paese e loro ne avrebbero maggior danno.
Pare il consiglio alle mogli picchiate dai mariti: non denunciarlo, sfasci la
famiglia; e comunque lui porta lo stipendio. Mentre, in un Paese serio, non
resterebbero un minuto in più al governo, ministri che chiamano loro
connazionali «porci» (Bossi ai romani); «topi da derattizzare» (Calderoli ai
napoletani); «cancro» (Brunetta a napoletani e casertani): non sono
mattacchioni, sono razzisti. O minacciano il ricorso a milioni di fucili
(Bossi): a Belgrado cominciò così; quindi, non si dovrebbe manco per scherzo.
Ma si ride. I greci dicevano che gli fanno impazzire quelli che vogliono
perdere. Se parli di queste cose, così, cercano di zittirti: han detto pure a
me che sono monarchico, neoborbonico (né l’uno, né l’altro; ma rispetto chi lo
è e non credo che i Borbone abbiano fatto solo male, o solo bene: banale, no?
Ma tocca dichiarare l’ovvio...). C’è un anniversario, 150 anni, che celebra un
ideale parzialmente tradito, un’occasione mancata: l’unità d’Italia. Potremmo
approfittarne per compierla, condividendo davvero la nostra storia (che è quasi
sempre brutta, scritta con il sangue), ma tutta; e riconoscendo al Sud il
debito di negata equità, per strade non fatte, ferrovie tagliate (oggi mille
chilometri in meno, rispetto a 70 anni fa), disoccupazione giovanile al livello
della striscia di Gaza; e il resto. Smettendola di dire che la monnezza a
Napoli è solo colpa dei napoletani: geneticamente tarati? Nessuno è innocente,
quando questo succede in un Paese. È la lezione di Amartya Sen: «Un uomo è quel
che le circostanze gli consentono di essere».
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