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Associazione culturale Neoborbonica
L'orgoglio di essere meridionali

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DA TERZIGNO UN NUOVO SUD PDF Stampa E-mail


SUI FATTI DI TERZIGNO

Quello che sta accadendo in questi giorni a Terzigno, ai piedi del Vesuvio, è stato commentato nei modi più disparati da ogni direzione. Chi parla di inciviltà, chi di camorra, chi di secessione, chi di giusta difesa dei propri diritti, chi di disperazione, chi di orgoglio, chi di emarginazione e così via. A noi piace rimarcare il fatto che, in questi ultimi anni, ormai a rotazione emerge il problema rifiuti che viene letteralmente scaricato in una cittadina della martoriata provincia napoletana. Ieri era Pianura, poi Poggiomarino, Giugliano, Chiaiano ed oggi Terzigno. A chi toccherà il prossimo oltraggio ambientale? Poiché stavolta è stato violato addirittura un parco naturale, patrimonio Unesco,  nessun posto deve ritenersi al sicuro dai diktat governativi. I patimenti e le sommosse precedenti hanno dimostrato che praticamente è inutile lottare contro la forza ottusa dello stato. Eppure gli abitanti colpiti si sono battuti e si battono con un coraggio e una determinazione eccezionali ma non riescono a spuntarla. Più cresce la veemenza delle rivolte e più i mass media tirano in ballo la camorra, quando pure gli ingenui sanno che essa si muove  nell’ombra e nell’apparente tranquillità; le sue azioni di piazza sono sempre sanguinose e dirette  ad esecuzioni o moniti strettamente legati ai suoi mal affari ma sempre svolte da commando isolati senza alcun coinvolgimento di masse.

(segue uno scritto del cap. A. Romano)


L’altro ieri ho incontrato uno straniero sceso per la prima volta a Napoli. Guardando scioccato i cumuli di immondizie in città, ha espresso un concetto sagace e sintetico: perché il vostro governo non vi toglie la spazzatura? Con questa laconica ammissione diventano ridicole le solite considerazioni mediatiche sulla sporcizia dei napoletani, sulla esigua raccolta differenziata, sull’indolenza dei netturbini, sul boicottaggio dei piani e dei fondi stanziati, e si staglia inquietante l’immagine del governo centrale che non vuole eliminare tutte queste concause che invece diventano il suo alibi per continuare a tormentare Napoli, emblema del tormentato Sud. Se lo stato volesse, interverrebbe con la potenza, la violenza, l’efficienza con cui in queste notti d’autunno sta soffocando gli insorti di Terzigno. Il nocciolo della questione è proprio questo: lo stato si veste di tutta la sua forza solo in occasioni come queste; perde, di conseguenza, credibilità e popolarità. Non è possibile che quando le famiglie non hanno un reddito di sostentamento lo stato sia assente; non è possibile che quando quando i giovani meridionali terminano i più elevati studi debbano solo emigrare per trovare un lavoro spesso sottopagato; non è possibile che quando la malavita salassi le residue forze produttive locali vi sia la mancanza quasi completa dello stato; non è possibile che il parlamento stanzi sempre meno a sud e dirotti quel poco già destinato allo sviluppo del nord. Può mai accettarsi che solo contro la sacrosanta protesta dei cittadini come quelli di Terzigno lo stato faccia la voce grossa e irresistibile? Perché non occuparsi seriamente delle famiglie meridionali? Perché non pianificare corsi di studi e sbocchi di lavoro per i nostri figli? Perché alimentare, con i problemi irrisolti, indirettamente proprio la criminalità organizzata? Perché non deliberare a Roma cose se ci fosse realmente la tanto sbandierata unità d’Italia?

Se lo stato non funziona se non reprimendo, vuol dire che non c’è come riferimento dei cittadini meridionali.  Si dice che la criminalità organizzata sia l’antistato quasi meno sgradito ai meridionali. Non è vero perché essa pure reprime e non affronta né risolve quei problemi vitali. Il Sud è alla disperata ricerca di uno stato onesto ed efficiente, proprio come quello, mutatis mutandis,  a cui è stato strappato con inaudita violenza ed inganno continuato.

Da Terzigno deve venire una riflessione importante, quasi a compimento di tutti i mali, le angherie, le ingiustizie fatti al Sud in 150 anni di mala unità. Si è capito ormai che non basta reagire in un posto anche con violenza, magari bruciando il tricolore e attaccando i rappresentanti pubblici.

 La via è lunga ma è a senso unico. Non si può sbagliare nella marcia. I tempi sembrano intollerabilmente dilatati, ma si può accelerarli semplicemente proseguendo il cammino assieme. Ciò non in uno scontato significato generico ma, ad esempio, reclamando in maniera differente da quella che vede la protesta una volta a Pianura, un’altra a Chiaiano, un’altra ancora a Terzigno….

 

per approfondire l'argomento

IL VULCANO INTOSSICATO - DISCARICHE SUL VESUVIO

http://www.youtube.com/watch?v=K_Xx7tD6heU

 

Angelo Forgione - Movimento V.A.N.T.O.

(Valorizzazione Autentica Napoletanità a Tutela dell'Orgoglio)

Testimonianza del Capitano


Dopo non poche difficoltà, arrivo in quella che era la terra preferita dai re del nostro passato attraversando Via Grotta, unico accesso ancora aperto per Terzigno. Controlli e filtri da stato di assedio, più noiosi che efficaci, mi fanno arrivare nei dintorni del paese ormai a notte fonda e nel pieno di una spaventosa guerriglia urbana.

Mi accoglie un fumo denso che prende alla gola ed agli occhi. Un fumo nero da affanno che, a secondo del vento e della temperatura, si miscela con l’odore acre dei lacrimogeni sparati senza parsimonia da centinaia di poliziotti al limite del crollo nervoso. A tratti quell’aria soffocante lascia il posto ad un puzzo nauseabondo proveniente dalle discariche e dagli automezzi bloccati lungo le strade. Un fetore immondo che ormai è penetrato dappertutto, impregnando anche l’animo di questa povera gente.

Durante la notte gli abitanti si compattano bivaccando pacificamente nella “Rotonda” della via panoramica, mentre tutto intorno, passata la mezzanotte, spente misteriosamente le luci stradali, prendono anima i ribelli dell’Intilifada della monnezza. Sono organizzati in squadre velocissime ed insidiose. Si nascondono nei cumuli di immondizia, tra gli scheletri degli automezzi incendiati, tra le costruzioni abusive abbandonate, dietro i muretti, nei canali e nelle stradine rese buie anche a colpi di pietra nei lampioni, per poi uscire improvvisamente ed avventarsi su macchine, autocarri e polizia. Cosa incredibile, sono tutti giovanissimi. Non più di 20 anni i più grandi, meno di 14 i più piccoli. Sono tutti muniti di motorini incredibilmente silenziosi: targhe coperte o contraffatte, luci rigorosamente spente, zaini colmi di taglientissime pietre vulcaniche, razzi natalizi e nautici, petardi, chiodi, punteruoli, biglie, pezzi di piombo, grossi bulloni. Hanno tutti il volto coperto dai caschi, dalle kefie e dalle sciarpe del Napoli. Molti hanno gli occhi coperti da occhiali da neve. Ogni squadra è composta da più equipaggi ed ogni equipaggio ha i compiti ben definiti: uno guida e l’altro colpisce. Tirano di tutto su tutto ciò che di estraneo si muove nelle strade.

Mi muovo in mezzo ad esplosioni, incendi, fumo, grida, cariche e contro cariche, bestemmie, preghiere. Non è guerriglia, è guerra. Sono inorridito.

Improvvisamente intravedo i ragazzi nell’ombra, li inseguo e mi accosto ad alcuni di loro in una traversa. Chiamo ad alta voce un nome inventato, si spaventano e sono immediatamente circondato: saranno stati una trentina, forse quaranta comprese “le vedette”. Sono tutti armati di pietre e spranghe. Capisco che sto nelle loro mani ed ogni mio gesto o parola possono essere fatali se non per me, ma per la mia macchina. Mentre uno mi parla sussurrando dalla kefia “Kebbuò?”, gli altri osservano da lontano infilando le mani nei loro micidiali zaini. Uno prepara nella strada la mitraglia”, una di quelle infernali scatole cariche di decine di razzi luminosi esplodenti a ripetizione che viene piazzata impropriamente in orizzontale e nella mia direzione. “E’ un capo sbirro, diamogli fuoco !” grida il più giovane, forse 12 anni, che dall’alto di un mucchio di terra appare come il più nervoso. Ma fortunatamente nessuno gli da ragione. Carpisco che sono incuriositi ed in qualche modo interdetti dal mio atteggiamento di dialogo. Ma comunque sono tutti molto diffidenti, innervositi perché parlamentare con uno sconosciuto significa violare quelle consegne non scritte che gli stanno garantendo l’impunità da 8 giorni. “Vattenne che è meglio per te!” mi grida sfacciatamente una voce di ragazza nascosta tra casco e sciarpa. Cerco di aprire un dialogo, ma inutilmente. “Scendi” mi dice sicuro quello che appare il capo del drappello e mi apre la portiera. Forse è la fine per la mia stanca macchina e quasi mi rassegno ad una sua sorte ingloriosa. Esco deciso richiudendo la portiera dietro di me. Ribadisco che voglio solo parlare con loro, capire meglio e, soprattutto, rendermi conto della vera natura di quella rivolta. Ma il mio dialetto napoletano diverso dall’accento della zona li ha insospettiti ancora di più. “Copritevi, non fatevi vedere la faccia”, ripete continuamente il più ”anziano”. Raccolte le mie cose dal cofano, sono restato a guardare quel nugolo di ragazzi e bambini silenziosi e minacciosi, per metà a piedi e per l’altra metà a cavallo dei loro motorini rimasti tutti in moto.

Nell’abbassare lo sportello posteriore il miracolo. Era spiccato nel buio per un attimo, illuminato dalla scarsa luce di un lampione lontano, l’autoadesivo dello stemma Borbonico. “Sei del Napoli?”, mi chiede il giovane capo con la voce ingentilita, indicandomi lo stemma Dinastico. “Si, ma questo è anche il simbolo della mia vera Patria che è poi anche la vostra, ma voi non lo sapete”. Sento un mormorio, un passa parola, la tensione cala, finché si fa avanti un bel ragazzo moro, si abbassa la kefia e mi domanda: ”Come vi chiamate?”. Nemmeno finisco di pronunciare il mio nome che una voce dalle mie spalle grida “U’ capitan’!”, “ Chiste è ù Capitan ! ’”. Potenza di Facebook. E continua, rivolgendosi a tutti: “E’ nù sbirr’ ri Buorbone”. Una risata liberatoria cambia la scena: quelle kefie e quelle sciarpe scendono dalla bocca al collo. “Capità qua state male, se arriva la polizia noi scappiamo e voi state nei guai. Seguiteci”. Raggiungiamo la campagna aperta, dove la puzza è davvero stomachevole. “Capità qua non è cosa buona, questi ci vogliono ammazzare tutti. Lo Stato si è messo d’accordo con la camorra e noi adesso abbiamo contro pure i delinquenti”.

Immaginavo che la situazione fosse complessa, ma non in questi termini. Se queste sono le convinzioni della gente di Terzigno che speranza di mediazione possono avere le Istituzioni?

Ragazzi ma perché le pietre contro la polizia? Perché la violenza? Perchè il fuoco? La violenza porta altra violenza….”. Non riesco a terminare il concetto che vengo interrotto dal capo: “Capità qua o si fa così o la monnezza ci soffoca. E’ una legittima difesa, e quando uno si difende la vita usa ogni mezzo. E poi noi rispondiamo a chi ci fa male, a chi ci carica come se fossimo dei delinquenti. Noi qua stiamo a casa nostra, devono andare via loro con tutta la loro monnezza velenosa”.

Capità noi colpiamo i camion, gli buchiamo le gomme e gli diamo fuoco. Facciamo tutto per non farli passare. La polizia sta in mezzo e gli arrivano i sassi: è quasi un caso”.

Capità qua i vecchi come voi hanno fallito, mio padre che non mangia carne perché è pacifista, lo hanno ammazzato di manganellate in testa perché non si muoveva dalla strada. Sta a casa da due giorni con la fronte tra le mani e non ci vede più da un occhio. Io se le prendo le restituisco non sono un fesso come lui”.

Riprende il discorso il capo: “Capità, nuie tenimm ragione e questo sappiamo fare per farla valere. Vuje site na brava persona, jatevenne! Cà non é post’ pe vuje. Vuje putite fa altre cose da nata parte. Pè mò, cà nun putite fa niente”. “Grazie assaje che site venute, mo, però, turnatevenne à casa vosta”.

Parlo con loro per molto tempo, non li vedo bene nei volti per il buio, ma percepisco che mi ascoltano con attenzione: “(…) Tirare sassi per vendetta contro chi è solo comandato non ha senso. Occorre punire chi comanda la politica e dà certe disposizioni. E per fare ciò occorre raggiungere e coinvolgere tutta la nostra Gente, perché al popolo non si comanda nemmeno con la forza. (…) Le vere rivoluzioni sono quelle culturali, quelle che prendono la testa ed il cuore della gente non che colpiscono l’incolumità dei poliziotti. Quando il popolo prende coscienza non ci sono lacrimogeni ed arresti che lo possano contenere.”

Non penso di averli convinti. Purtroppo.

Stringo molte mani, ne abbraccio un paio, faccio una scafetta sulla guancia abbondante del più giovane, qualcuno mi regge lo sportello mentre salgo in macchia e me lo richiude con garbo. Mi rivolgo a tutti implorante: “Nun ve facite male!”.

Metto in moto e sto per partire “Aspettate Capità! Aspettate…..O’ cafè”.

Sono le 4 del mattino, fa freddo: dopo un caffè all’aroma di percolato, lascio al loro destino quegli autentici briganti con un nodo alla gola e tanta amarezza nel cuore…. Ma tornerò.



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