Dal CORRIERE DEL MEZZOGIORNO, 6 MARZO 2010, p. 1
Briganti, vil razza inferiore!
Nel
gran concerto con cui già da un pezzo si sta festeggiando il 150° compleanno
dell’Italia Una, la nota più toccante l‘ha forse per ora scoccata quel piccolo
comune calabrese – Motta Santa Lucia – che ha appena approvato all'unanimità
una delibera per chiedere che il Museo Lombroso di Torino, appena restaurato,
tolga dalle sue vetrine i resti dei “briganti” borbonici che vi sono custoditi,
catalogati ed esposti. Si prevede infatti che presto, quando quel museo verrà
riaperto al pubblico (l’evento è stato annunciato per il prossimo 27 novembre), quei resti torneranno a essere
offerti all’ammirazione del pubblico, come eloquenti prove fisiognomiche
dell’atavica natura criminale delle popolazioni meridionali, nonché della loro evidente inferiorità razziale,
delle popolazioni meridionali. Sollecitata dal sindaco di quel comune,
l’avvocato Amedeo Colacino, su proposta dello storico Gennaro De Crescenzo,
fondatore e presidente del Movimento Neoborbonico, e inoltrata per conoscenza
ai ministri Alfano e Bondi, interpellati insieme per il carattere al tempo
stesso giuridico e culturale del problema sollevato, la delibera rimanda a uno
degli ingredienti certamente meno apprezzabili, ma non per questo meno
significativi, di quella policroma zuppa ideologica che fu il sogno
risorgimentale: quell’erbetta razzistella che – proprio mentre quel sogno
nasceva, si diffondeva e trionfava – trovò appunto in Italia, anzi proprio
nella più moderna e patriottica delle sue regioni e delle sue città, il
coltissimo Piemonte e la civilissima Torino, quella che forse fu una delle sue
più eccelse e fortunate espressioni scientifiche, o meglio similscientifiche:
l’antropologia criminale di Cesare Lombroso, apprezzatissima, com’è noto, dalla
meglio cultura laica (positivistica, socialistica e storicistica) della Nuova
Italia di quegli anni. Insomma questo appello calabrese ci ricorda, molto
sobriamente, non soltanto che il Risorgimento fu anche un pochettino razzista,
ma altresì che il suo maggior contributo alla diffusione e al successo di quel
pregiudizio razziale che di lì a pochi anni sarebbe diventato il nòcciolo
dottrinario del patè nazifascista era stato offerto da una pseudoscienza
lanciata da un criminologo settentrionale che fra l’altro aveva teorizzato
apertamente l’inferiorità della “razza meridionale”: e questo sulla base, com’è
noto, di studi legati alla misurazione di centinaia di crani prelevati al
seguito delle truppe piemontesi che invasero il Regno delle Due Sicilie,
massacrando migliaia di meridionali che essendosi ribellatisi a
quell’occupazione, furono di conseguenza cancellati dalla storia come
“briganti”. Molti di quei crani, e altre sezioni del corpo di centinaia di
quegli sventurati, ammucchiati alla rinfusa con quelli di criminali comuni e
malati di mente, giacciono da più di un secolo nel museo torinese in una sorta
di fossa comune. A nessuno di quei disgraziati i creatori dell’Italia Una
giudicarono opportuno concedere una normale sepoltura. Molte di quelle spoglie
non furono anzi nemmeno identificate. L’onore dell’esposizione di una
fotografia o di un cranio fu concesso soltanto ad alcuni di essi. Uno dei
pochissimi dei quali si conosce il nome è un “brigante” calabrese, certo
Giuseppe Villella, originario proprio di Motta Santa Lucia. Si prevede che Il
suo cranio, racchiuso in una bacheca di vetro, quando il museo verrà riaperto,
tornerà a essere offerto all’ammirazione del pubblico. A meno che, ovviamente,
i due ministri coinvolti in questa istruttiva vicenda non capiscano che
oggi nulla vieta loro di rendere ai
“briganti” – con un bel gesto simbolico quale sarebbe appunto la restituzione
del cranio di Villella alla pietà degli
oggi circa mille abitanti del suo paese natale – quel rispetto al quale hanno
ormai storicamente diritto.
di Ruggero Guarini |