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Associazione culturale Neoborbonica
L'orgoglio di essere meridionali

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FEDERALISMO, SOLIDARIETA’ E RAGIONI DI BILANCIO PDF Stampa E-mail

 

III puntata

LE RAGIONI DI BILANCIO

Una volta c’erano le ragioni di stato. I governi prerivoluzionari subordinavano ad esse molte scelte dolorose dagli accordi internazionali ai matrimoni reali, dagli interventi bellici ai provvedimenti interni. Con l’era rivoluzionaria (cioè dal 1789 in poi) le ragioni di stato sono state soppiantate dalle quelle di bilancio. Ormai sempre più nitidamente si comprende come la rivoluzione non sia altro che una destabilizzazione violenta, finanziata da potentati economici, al fine dichiarato di riformare le istituzioni per il benessere popolare ma al fine recondito (puntualmente verificato) di cambiare tutto ciò atto ad ostacolare le mire speculative degli organizzatori.

 

 

 

Ciò spiega l’abbattimento delle monarchie refrattarie a questo disegno e la salvaguardia (ancora nel terzo millennio) di quelle cosiddette democratizzate, garanti del coronamento dei sogni di quelli che più chiaramente si possono definire i capitalisti (oggi trionfanti). Naturalmente il popolo è proprio la vittima predestinata degli sconvolgimenti rivoluzionari perché del tutto inerme di fronte allo strapotere economico e politico, non più ridimensionabile da parte del massimo potere dei capi di stato di un tempo, ossia dei sovrani prerivoluzionari. Chi conosce la storia dei Borbone può constatare con precisione questo assunto.

Con la rivoluzione si passò da un bilancio dello stato volto al pareggio con notevoli spese pubbliche pagate dal re, a un bilancio con il passivo demagogicamente illimitato “per il benessere popolare”. Ovviamente il re riformato affondava le sue mani nell’erario invece di contribuire ai bisogni pubblici e il tutto andava coperto con un’esponenziale crescita tributaria, basata soprattutto sulle fonti di certa escussione come le famigerate (per il popolo) imposte sui consumi (tanto più se primari).

Iniziò così l’era dei bilanci in rosso, comuni a tutti gli stati moderni, che costringono ad alzare proporzionalmente la pressione fiscale con tutte le conseguenze che si possono agevolmente notare. I mass media (al soldo dei potentati economici) martellano la pubblica opinione sulla necessità di sacrifici generalizzati per salvare l’apparato statale, con l’appoggio, non certo disinteressato, dei paesi vicini (come per l’unione europea).

In questa logica (apparentemente lineare ma sostanzialmente dogmatica) tutto può esser sacrificato per salvaguardare le famose ragioni di bilancio. Esse vogliono alleviare la spesa pubblica senza inasprire le entrate tributarie; non possono che prevedere la riduzione drastica dei servizi pubblici, anche fondamentali.

Uno stato veramente unificato per raggiungere tale obiettivo dovrebbe inimicarsi la totalità dei cittadini ripartendo in parti eque il prelievo delle risorse. Se, invece, escogita il federalismo (come l’Italia) con un colpo di bacchetta magica si ritroverà da una parte geografica servizi pubblici inalterati (se non accresciuti) con bastante copertura autoctona di spesa; dall’altra servizi pubblici ridotti (se non sospesi) con risicata copertura di entrate locali.  Al tirare delle somme (che i novelli sacerdoti della dea Economia sanno fare assai bene) si godrà del successo se le uscite totali (quelle delle due zone) saranno inferiori alle uscite precedenti alla divisione federalistica (per il calo delle spese nella zona svantaggiata), mentre le entrate totali saranno sostanzialmente eguali (con l’avvertenza che quelle della zona più ricca potranno scendere proprio come saliranno quelle della zona più povera, strangolata dalla pressione fiscale).

Lo stato federalistico otterrà, in tal modo, l’assenso entusiastico dei cittadini della parte favorita. Quelli dell’altra parte rimarranno sì scontenti ma soprattutto confusi (per la continua catechesi mediatica sulla necessità del cambiamento) e capaci di reagire secondo il loro grado di comprensione del fenomeno in atto.

Questo è il vero motivo che spinge tutti i partiti, i mass media, gli economisti di regime a magnificare il federalismo che si sta realizzando.

Chi vuole difendersi, conseguentemente, non dovrà riporre speranze in quei gruppi politici, in quei mezzi di informazione o in quegli specialisti attivati dal potere. Dovrà percorrere nuove strade, magari quelle invise alle sirene federalistiche, senza temere di perdersi. Tra un percorso che conduce certamente alla rovina ed uno poco conosciuto, non vi deve essere titubanza: optare per il secondo. Il suo esito non potrà essere la rovina perchè essa è la meta dell’altra via. Potrebbe invece essere la nostra vera libertà…

V.G.

SOLIDARIETA’ TRA FRATELLI

II puntata

Di fronte all’insostenibilità del passaggio indolore tra stato centralista e decentrato, i politici si comportano variamente, a seconda dell’area di appartenenza ma soprattutto del ruolo interpretato in questo cambiamento storico dello stato italiano. La Lega aspira a fare presto e completamente il federalismo che da essa promana. Gli altri del centro-destra mitigano alquanto l’arroganza anche verbale dei leghisti magnificando le supposte opportunità imprenditoriali della riforma che consentirebbe al Sud di tagliare traguardi insospettabili. Il centro-sinistra, per la sua funzione di opposizione, discute lungamente sulla necessità della solidarietà tra le regioni che dovrebbe permettere di sanare i più che probabili svantaggi delle zone meridionali. Al di là delle tenui sfumature, si nota l’intersezione evidente tra la comune volontà di attuare il federalismo per appagare il potere economico che lo ha propugnato ben prima dei leghisti e l’utilizzo dello strumento da ingigantire della solidarietà per rabbonire qualche voce interna di resistenza.

Ci sono due aspetti da rimarcare chiaramente. Il primo è che fu la Fondazione Agnelli dieci anni prima della Lega a parlare di macroregioni ad amministrazione autarchica evidenziando pertanto la volontà dei potentati economici alla rivoluzione anticentralistica. Vi sono le registrazioni dell’osannato avucat Gianni Agnelli che parlava di necessità per il Mezzogiorno di tornare al livello di vita del primo dopoguerra per la salvaguardia dell’intera (sic!) nazione… Bossi & C. sono stati quindi sono stati soltanto uno strumento applicativo, tutelato e circoscritto per arrivare al federalismo. Il secondo aspetto da sottolineare concerne una delle parole magiche che i neogiacobini adoperano per far smarrire gli ingenui: la solidarietà. Qui non è in discussione la quantità e la qualità dell’intervento correttivo sugli sfaceli federalistici che il Capo dello Stato insistentemente richiama. E’ bastante affermare che ogni provvedimento di solidarietà passerebbe per il potere centrale del nuovo stato riformato, cioè dipendente dalle delibere del medesimo apparato politico che ha massacrato il Sud per 150 anni e che ha decretato il federalismo! Intermini più espliciti, i danni di tale riforma sono gli obiettivi del potere economico per assegnare risorse adeguate al sistema produttivo del nord a scapito delle regioni del sud. Tale esiziale politica per il meridionali rappresenta il leit motiv che, dalla nascita dell’Italia a questa parte, scarica nella parte bassa dello stivale le crisi interne e internazionali per il benessere degli antichi colonialisti risorgimentali.

Di fronte a questo piano, più micidiale dei soldati piemontesi nell’invasione chiamata unità, Il vero problema del Sud è l’assenza o l’acquiescenza della classe politica locale che non lascia sperare assolutamente niente di buono sia a destra, sia a sinistra, sia al centro. Chiunque adesso sta pensando che la soluzione logica sia l’urgenza di costituire una forza politica idonea a rappresentare i meridionali vessati. Ma chiunque dovrebbe riflettere sul fatto che nessun stato consente democraticamente ad una fazione di distruggere la sua linfa vitale. Della Lega abbiamo già detto essere emanazione del potere, non come vogliono farci credere un gruppo popolare riunito per la difesa degli interessi dei padani. Noi non potremo mai diventare una sorta di lega del sud semplicemente perché quella del nord era lo stesso stato italiano in metamorfosi; noi potremmo potenzialmente essere invece la fine dello sfruttamento coloniale, di mezzi e cervelli, che originò l’unificazione italiana. Questo al nord lo sanno molto bene…

I puntata

SECESSIONE E FEDERALISMO 

 Il pressante dibattito in corso tra aule parlamentari, direzioni dei partiti, mass media e gente comune sul federalismo abbisogna di qualsiasi tentativo per spiegare come stanno realmente le cose. In effetti, l’argomento è sviluppato secondo l’angolazione degli interessati in maniera direttamente proporzionale alla loro importanza e quindi al corrispondente spazio a disposizione. I veri meridionalisti contano poco ed hanno ben poco spazio a disposizione…

Nel proposto federalismo la separazione non è plateale, né violenta: quindi poche suggestioni scuotono i benpensanti. La bandiera è sempre il tricolore (massonico) ed i legami interpersonali sono salvaguardati dalla persistenza della lingua (imposta dai mass media), delle tradizioni (recenti), dalle chiacchiere dei politici che battono il tasto della continuità della fratellanza.

Quel che cambia nettamente è in campo economico in cui ormai tutti sanno che le macroregioni dovranno utilizzare le risorse locali con un ridimensionamento considerevole della centralità statale che ha connotato per 150 anni l’Italia. La strategia antisud è nitidissima: all’inizio dello stato unitario c’erano più risorse al di sotto del Garigliano e la centralità garantiva la loro transizione verso nord, adesso la situazione è antitetica e la centralità permetteva la loro discesa verso sud, suscitando le ire dei leghisti. E’ sintomatico il fatto che nei primi anni del Novecento Luigi Sturzo propose invano, per lenire i problemi meridionali, il federalismo che oggi si sta attuando; allora era immaturo il tempo date le risorse ancora apprezzabili possedute (anche grazie all’emigrazione forzata)  nel Mezzogiorno!

Avendo ormai il Sud il minimo delle risorse disponibili, è ben maturo il tempo per renderlo economicamente autonomo. Faccia da sé senza sperare più nei consistenti trasferimenti centralistici!

 

Incominciamo dalla stessa genesi federalistica che appartiene alla Lega Nord. Siamo personalmente persuasi che la paventata secessione leghista degli anni Ottanta non era altro che una boutade per puntare surrettiziamente proprio all’attuale federalismo. Infatti, una nazione che si scinde crea una serie di problemi di coscienza non trascurabili in tutte le sue componenti. E’ il cambio drastico della forma a suggestionare ogni ceto sociale mediante l’evocazione della passata storia comune, dei rapporti personali e di parentela, dei ricordi di qualsiasi genere impressi indelebilmente nella memoria. Si viene assaliti da una sorta di rimpianto per la perduta unità che soltanto drammatiche situazioni di transizione riescono a tollerare. E’ il caso dei paesi dell’ex Jugoslavia in cui ragioni di razza, religione, politica contribuiscono a dare la forza necessaria per riprendere autonomamente il cammino: per ogni cosa persa si cerca e si trova una cosa nuova da sviluppare. Senza il trauma della separazione cruenta, purtroppo vissuto da quei paesi slavi, è difficile odiare la vecchia bandiera e tutto ciò che essa rappresentava nel bene e nel male. Naturalmente in questo modo i cambiamenti economici seguono quelli politici che sono certamente prevalenti; mentre i cambiamenti culturali generano una specie di valvola di sicurezza per il nuovo stato che darà forza e determinazione in tutte le successive scelte nazionali. In altre parole, i neonati cittadini potranno agevolmente trovare serie motivazioni per difendersi dai rigurgiti egemonici dei residui dello stato unitario precedente che si manifestano soprattutto in campo economico. Andate a parlare di prodotti serbi ai croati o ai bosniaci, o di prodotti inglesi agli irlandesi!
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