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Una nota controcorrente dell'on. Lombardo |
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Perché sbaglia chi festeggia Garibaldi
Una nota controcorrente del segretario federale dell'Mpa on. Raffaele Lombardo sulla figura del generale
MACCHE' BICENTENARIO «La spedizione dei Mille fu programmata a tavolino da Cavour e dal braccio destro, lo storico siciliano Giuseppe La Farina»
PRIMA E DOPO «I siciliani "gemevano" sotto il dominio borbonico, fu la spiegazione ufficiale della "liberazione". Che ci regalò briganti ed emigrazione»
RAFFAELE LOMBARDO* Mezza Italia è mobilitata per i festeggiamenti per il bicentenario della nascita di Garibaldi. Patrocinanti praticamente tutte le Istituzioni: presidenza del Consiglio, ministeri degli Esteri e della Difesa, Province, Prefetture, comitati. Senza alcuna esitazione il Sole 24 Ore scrive sul Domenicale del 17 giugno: «Parlar male di Garibaldi è difficile se non impossibile, 'e mai e poi mai potrebbe accadere in quest'anno, bicentenario della nascita dell'eroe".
«Mai e poi mai», scrive il Sole. Eppure è proprio quanto ho intenzione di fare. Perché voglio bene alla Sicilia, perché mi piace la verità e perché la storia era una mia passione. Lo farò basandomi su documenti, non sulla fantasia stanca e ripetitiva della propaganda.
Cominciamo dalla domanda che è la chiave di volta di tutta la questione: come fanno mille scamiciati, provenienti in maggioranza dall'Italia settentrionale, guidati dal nizzardo Giuseppe Garibaldi, ad improvvisare una spedizione in Italia meridionale, a sbarcare in Sicilia e a «liberarla» ìn un battibaleno dal legittimo governo? Perché - è la risposta ufficiale - i siciliani «gemevano» sotto il malgoverno borbonico e l'oscurantismo cattolico ed hanno, quindi, accolto a braccia aperte il liberatore Garibaldi.
Le cose non stanno così. La spedizione dei Mille è programmata a tavolino dal presidente del Consiglio dei regno sardo, Camillo Benso conte di Cavour, e dal suo braccio destro operativo, lo storico siciliano Giuseppe La Farina. Cavour predispone le cose scientificamente: schiera il Regno di Sardegna - da poco diventato liberale - a fianco del dispotico governo turco e manda a morire in Crimea diverse migliaia di piemontesi. Nel 1856, al Congresso di Parigi, raccoglie i frutti del sangue versato: può denunciare al mondo intero la terribile sorte delle genti italiche che «gemono» sotto il malgoverno borbonico e pontificio. Se c'è qualcuno che grida «aiuto», il magnanimo re Vittorio Emanuele II è disposto a rispondere. Il principio del «non intervento» (non intervento delle grandi potenze - leggi dell'Austria - ma intervento del solo Piemonte), solennemente proclamato per l'occasione, fa il resto.
Così scrive La Farina: «Per quattro anni vidi quasi tutte le mattine il conte di Cavour, senza che alcuno dei suoi amici intimi lo sapesse, andando sempre due o tre ore prima di giorno, e sortendo spesso da una scaletta segreta, ch'era contigua alla sua camera da letto, quando in anticamera era qualcuno che lo potesse conoscere! E in uno di questi notturni abboccamenti, nel 1858, fu presentato al conte di Cavour il generale Garibaldi, venuto clandestinamente da Caprera».
Ad un Garibaldi che, dopo l'incredibile successo della liberazione della Sicilia, fa lo smemorato ed attribuisce a sé stesso i meriti dell'impresa, La Farina manda a dire: Il concetto [della spedizione] fu mio; Garibaldi esitava (e ne ho documenti); e da ultimo si decise a partire, quando vide che i siciliani sarebbero partiti senza di lui. Le armi e le munizioni furono somministrate a Garibaldi da me: egli non aveva nulla».
Il conte di Cavour, che smentisce con sdegno qualsiasi coinvolgimento del governo sardo nell'impresa dei Mille, manda l'ammiraglio Persano a scortare Garibaldi con una piccola flotta e tanto denaro: serve ad organizzare la corruzione sistematica degli ufficiali borbonici. Che non devono vedere né accorgersi di nulla.
Il 19 agosto 1860 Persano così scrive nel suo Diario politico-militare: «La casa De La Rue di Genova aprirà in Napoli, presso il banchiere De Gas, un credito illimitato a mia disposizione». Per fare? Ecco un saggio dell'impiego del denaro piemontese: «Ho dovuto, eccellenza [Cavour], somministrare altro denaro. Ventimila ducati al Devincenzi, duemila al console Fasciotti e quattromila al comitato. Mi toccò contrastare col Devincenzi, presente il marchese di Villamarina; egli chiedeva più di ventimila ducati; ed io non volevo neanche dargliene tanti».
L'impresa va a gonfie vele: «L'ufficialità l'abbiamo quasi tutta», assicura a Cavour l'ammiraglio; «Noi continuiamo, con la massima segretezza, a sbarcare armi per la rivoluzione, a tergo delle truppe napoletane».
Persano ha un solo cruccio: «Osservo che converrebbe tener gli occhi aperti sulle spedizioni degli individui che da noi si fanno per qui, e di veder modo di ritenere molta gentaglia che muove per queste contrade a nessun altro scopo, se non per quello di pescar nel torbido». Quanto alla «gentaglia», Garibaldi concorda con Persano e così descrive i compagni di avventura: «Tutti generalmente dì origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto».
A conquista avvenuta come governa Garibaldi, Dittatore in nome della libertà?
E' ancora una volta La Farina a raccontarlo: "L'altro giorno [2 luglio 1860] si discuteva sul serio di ardere la biblioteca pubblica, perché cosa dei gesuiti; si assoldano a Palermo più di 2000 bambini dagli 8 ai 15 anni e si dà loro 3 tari al giorno [... ] Si dà commissione di organizzare un battaglione a chiunque ne fa domanda; così che esistono gran numero di battaglioni, che hanno banda musicale e officiali al completo e quaranta o cinquanta soldati! [...]
[... ] Si manda al tesoro pubblico a prendere migliaia di ducati, senza né anco indicare la destinazione! Si lascia tutta la Sicilia senza tribunali né civili, né penali, né commerciali, essendo stata congedata in massa tutta la magistratura! Si creano commissioni militari per giudicare di tutto e di tutti, come al tempo degli Unni. Senza magistratura, senza polizia, senza carabinieri, i bricconi più svergognati, gli usciti di galera per furti e ammazzamenti, compensati con impieghi e con gradi militari. La sventurata Sicilia è caduta in mano di una banda di Vandali».
L'8 dicembre del 1860, a guerra prima non combattuta e poi persa, Francesco II delle Due Sicilie così scrive ai popoli delle Due Sicilie: «Sono un principe ch'è il vostro e che ha tutto sacrificato al desiderio di osservare tra ì suoi sudditi la pace, la concordia, la prosperità [...] Ho creduto in buona fede che il re del Piemonte, che si diceva mio fratello e mio amico, che si protestava disapprovare l'invasione di Garibaldi [...] non avrebbe rotto tutti i trattati e violate tutte le leggi per invadere tutti i miei stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra [...] Le finanze non guari sì fiorenti, sono completamente ruinate, l'amministrazione è un caos, la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni sono piene di sospetti, in luogo della libertà, lo stato d'assedio regna nelle provincie e un generale straniero pubblica la legge marziale decretando le fucilazioni istantanee per tutti quelli dei miei sudditi che non s'inchinano innanzi alla bandiera di Sardegna [.. .] Uomini che non hanno mai visto questa parte d'Italia [... ] costituiscono il vostro governo [... ] le Due Sicilie sono state dichiarate provincie d'un regno lontano. Napoli e Palermo saranno governate da prefetti venuti da Torino».
Ma ancor più istruttive sono le parole con cui lo stesso Garibaldi espresse le sue valutazioni sulla «gloriosa impresa»: «Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto dei male. Nonostante ciò non rifarei la via dell'Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio».
Il seguito? Lo conosciamo. Siamo diventati un popolo di briganti e, subito dopo, di emigranti. E' lecito nutrire qualche dubbio sull'opportunità di continuare ad osannare acriticamente Garibaldi?
*Segretario Federale Movimento per l'Autonomia |
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