Il pomeriggio del 10 maggio 1734, un grandioso corteo attraversò le strade di Napoli, da Porta Capuana alla Reggia tra musiche e salve di cannone. Il popolo faceva ala al suo passaggio e applaudiva all’indirizzo di un giovane a cavallo diciottenne dai capelli biondi e dagli occhi celesti: era un nuovo (vero) sovrano che andava ad aprire una politica moderna e che mise dei limiti all’assolutismo dinastico… Carlo III di Borbone accese i lumi sul Regno di Napoli. Nel 1734 era in corso in Europa la guerra di successione polacca, e sul territorio italiano si battevano gli eserciti spagnoli e francesi da una parte, e austriaci dall’altra. Carlo III di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V e di Elisabetta Farnese, che tre anni prima aveva preso possesso del ducato di Parma e Piacenza, fu posto alla testa, ancora diciottenne, di un’armata spagnola e mosse da Parma alla conquista dell’Italia meridionale che costituiva un vicereame sotto il dominio austriaco. Con la sua entrata in Napoli si era così formato un nuovo regno ed aveva avuto inizio la dinastia dei Borbone di Napoli destinata a regnare sull’intero territorio dell’Italia meridionale fino al 1860/61. Era cominciata una nuova fase nella storia di queste terre e, dopo secoli di dominazione straniera, prima spagnola e poi austriaca, era sorto un regno autonomo e unitario, anche se, inizialmente, ancora legato in qualche modo alla Spagna. Al suo arrivo a Napoli Carlo non aveva che diciotto anni ed era ancora sottoposto psicologicamente ai suoi genitori, specie alla madre, da cui riceveva tutte le istruzioni anche in merito agli affari di stato. Questa sua sottomissione andrà attenuandosi poi lentamente e scomparirà del tutto solo con il declino e poi con la morte di Elisabetta Farnese. Nel 1740 era sopravvenuta la guerra di successione austriaca, nella quale era rimasto coinvolto anche questo nuovo Regno di Napoli che, con un proprio esercito si era vittoriosamente battuto, insieme a un esercito spagnolo, a Velletri contro gli austriaci. Gli eventi internazionali e bellici imperniati su questa guerra e sulla sua conclusione comportarono due significative conseguenze: il definitivo consolidamento di Re Carlo sul trono di Napoli e di Sicilia e la raggiunta indipendenza del Re e del suo governo dalla Spagna. Nel corso della guerra, al governo del marchese di Montealegre era succeduto quello retto da Giovanni Fogliari, in carica per nove anni (dal 1746) nei periodi di tempo in cui si verificarono la battaglia di Velletri e poi la pace di Aquisgrana. Poi subentrò, dal 1755, il periodo di governo personale e diretto di Carlo che si protrasse per tutto il restante periodo del regno di questo sovrano. A questo punto è opportuno esaminare i vari problemi che si erano presentati e le soluzioni che si erano adottate nell’attività di governo, sia in relazione agli affari interni che ai rapporti internazionali. Per prima cosa è interessante vedere quale era la struttura e l’organizzazione del Regno. Lo stato era chiaramente una monarchia assoluta, come quelle che esistevano in quel tempo in quasi tutta l’Europa. Il Re, nelle monarchie di questo genere, era il capo assoluto dello Stato e non era limitato nei suoi poteri né da un atto o documento fondamentale, solenne e vincolante, quale una “costituzione” o uno “statuto”, né da un parlamento o da altri organi eletti dal popolo ed aventi poteri autonomi e determinati. E in proposito va osservato che anche là dove esistevano organi di questo genere (come gli Stati Generali in Francia) questi venivano convocati assai di rado e, comunque, cedevano sempre di fronte alla prevalente volontà del Re secondo l’aforisma dell’assolutismo: “Quod principi placuit, legis habet vigorem”. Non sussisteva inoltre quella che oggi si chiama”separazione dei poteri”, in quanto il Re accentrava in sé i tre poteri fondamentali: l’amministrazione dello Stato, la formazione delle leggi e degli altri atti di natura legislativa (ordinanze, editti, ecc.), l’attività giudiziaria. Egli esercitava questi suoi poteri attraverso persone e organi da lui nominati e che agivano in nome del sovrano; i ministri erano organi fiduciari della corona ed erano solo di fronte ad essa responsabili. Inoltre, anche sul piano teologico, si sosteneva l’autorità del monarca assoluto, ritenendosi che tale autorità sarebbe stata delegata direttamente da Dio. Non si era infatti ancora giunti, a quel tempo, al sistema delle “monarchie costituzionali”, né al concetto di separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario). Bisognerà attendere la rivoluzione francese e poi le insurrezioni che si verificarono intorno al 1848, per vedere realizzati statuti e carte costituzionali che in qualche modo regolavano e limitavano i poteri di un sovrano. E bisognerà attendere gli scritti di un filosofo, quale Montesquieu, e di altri illustri pensatori, poi definiti “illuministi”, per giungere all’enunciazione del principio della separazione dei poteri. La monarchia instauratasi a Napoli con Carlo di Borbone ebbe il merito di non ricalcare le caratteristiche delle vecchie monarchie del così detto Ancien Regime, ma di tendere a un graduale adeguamento della concezione del potere inteso come assolutismo illuminato. In tal modo, parallelamente a quanto avveniva in altri stati europei quale l’Austria e in alcuni stati italiani quali la Lombardia austriaca, lo stato di Parma e Piacenza retto da Filippo di Borbone, e il granducato lorenese di Toscana, si venivano assimilando le nuove concezioni espresse da quella corrente culturale che va sotto il nome di illuminismo e che si opponeva alle preesistenti concezioni che venivano definite come oscurantismo. Non seguirono la stessa via altri stati italiani, e particolarmente lo Stato della Chiesa e le tre repubbliche – Venezia, Genova e Lucca che, per essere nella loro stessa costituzione sopravvivenza di medioevo, non potevano riformarsi senza morire. I Savoia possono considerarsi riformatori solo limitatamente ad alcuni di loro: a parte Emanuele Filiberto che due secoli prima aveva reso il suo Stato modernissimo per quei tempi, nel Settecento Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III avevano avviato delle riforme. Viceversa Vittorio Amedeo III, salito al trono nel 1773, aveva dato luogo a un sensibile regresso,tant’è che i migliori ingegni (Baretti, Denina, Langrange, Alfieri) erano emigrati. La monarchia instaurata a Napoli da Carlo di Borbone viene pertanto considerata dagli storici illuminata e riformista. Per quanto riguarda la struttura amministrativa del Regno esisteva un governo composto da ministri (detti anche segretari) nominati dal Re. Sussisteva anche un nuovo Consiglio di Stato, istituito dal Conte di Santo Stefano, con funzioni consultive al cui vaglio passavano le più importanti decisioni da adottare. Un altro Consiglio di Stato riguardava gli affari della Sicilia. E a proposito dell’organizzazione interna va ricordata la riforma dei servizi e dell’amministrazione centrale, che fu effettuata con una drastica riduzione del personale sovrabbondante; il che snellì e rese più funzionali gli uffici. Non vi furono invece cambiamenti di rilievo nelle istituzioni periferiche e in quelle municipali napoletane: rimasero infatti immutate per la città di Napoli le funzioni dei Seggi, degli Eletti, delle Deputazioni. I Seggi, detti anche Sedili o Piazze, già all’epoca del vicereame, erano il risultato di elezioni avvenute nelle varie “ottine” cioè nelle 29 circoscrizioni in cui era divisa la città (ognuna di esse retta da un Capitano); questi Seggi avevano ciascuna una propria sede ove i cittadini si riunivano per deliberare ed eleggevano un loro rappresentante chiamato appunto “Eletto”. Ai Seggi, che in tutto erano sei, spettava il compito di eleggere anche il Sindaco che in tutte le cerimonie pubbliche rappresentava sia la città sia il regno. Gli Eletti erano tutti nobili, tranne quello che rappresentava il seggio popolare; infatti uno dei Seggi era appunto il “Seggio popolare”, eletto dal ceto plebeo. (I Seggi nobili erano quelli di Capuana, Nido, Montagna, Porto e Portanova). Gli Eletti a loro volta costituivano il “Consiglio degli Eletti” che si riuniva nel Tribunale di San Lorenzo. Già all’epoca vicereale esisteva anche un “parlamento”, organo rappresentativo dei nobili di tutto il regno e di qualche rappresentante di “comuni non infeudati”. Il parlamento veniva convocato per volontà del sovrano e indicava l’entità e la ripartizione del carico tributario e dava indicazioni sulla legislazione generale del regno. Fuori della Capitale esistevano le Province. Il Principato era retto da un viceré chiamato Preside nominato direttamente dal Sovrano che lo sceglieva fra la nobiltà o la casta degli alti ufficiali dell’esercito purché di nobile casato. Il Preside accentrava nelle sue mani tutti i poteri, che esercitava in luogo del Re e in maniera assoluta, se non addirittura dispotica, amministrando anche la giustizia direttamente o a mezzo di magistrati e uditori da lui nominati. Esistevano poi le Università (cioè i Comuni) normalmente controllati da un “Governatore” scelto dal barone proprietario del feudo. L’amministrazione era gestita dal “Sindaco” e da alcune persone elette dai cittadini convocati con l’assenso del Governatore in “pubblico parlamento”. A elezioni avvenute il barone esercita lo ius confirmandi e di solito l’organo eletto diveniva strumento degli arbitri feudali, in alcuni casi invece dello ius confirmandi esisteva addirittura lo ius erigendi che prevedeva la facoltà di scelta da parte del barone, senza possibilità di interferenze da parte del Comune. Al contrario esistevano le “Libere Università”, cioè comuni “non infeudati” o che avevano potuto riscattare con laute somme di denaro la propria infeudazione liberandosi dalle angherie dei baroni. Comunque il rapporto col feudatario e il grado di libertà conseguito da ciascun comune variavano caso per caso, in base alle contrattazioni che si erano svolte, e non erano sottoposte a regole generali. È evidente quindi che, anche se la nuova monarchia era aperta alle tendenze illuministiche, all’interno del territorio del regno permanevano ancora in modo assai vistoso mentalità e situazioni di tipo feudale che opponevano forte resistenza ad ogni tentativo di riforma. Carlo di Borbone ebbe appunto il merito di cercare di vincere queste resistenze, ottenendo successo in più occasioni, tant’è che fu amato dal popolo, come dimostra il mesto commiato che accompagnò la sua partenza da Napoli, quando, chiamato a cingere la corona di Spagna, dove assunse il titolo di Carlo III, lasciò nel 1759 il regno al giovanissimo figlio Ferdinando IV, di otto anni. Consuelo Quattrocchi |