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A proposito dei pennivendoli denigratori PDF Stampa E-mail

Carissimi Compatrioti,

A proposito di pennivendoli,sfogliando il mattino (quindi un quotidiano del sud) alla pagina 42 ho trovato questi due articoli come sempre denigratori verso la casata dei Borbone :

1)La doppia identità dei napoletani

«Or mi si dica: Napoli è egli un paese fatto per la Democrazia? Nel Regno di Napoli si trova l’amore per il disinteresse, dell’ordine, e dell’eguaglianza, in una parola di quella soda virtù, che al dir di Montesquieu è la base delle Democrazie?». Queste cruciali domande fanno vibrare le pagine conclusive del saggio storico-autobiografico di Onofrio Fiani, Carattere de' Napolitani. Quadro istorico-politico scritto in Francia dopo la ControRivoluzione di Napoli, (a cura di Anna Maria Rao e Lidia Membrini, edito da Vivarium: sarà presentato oggi alle 17,30 nella Saletta Rossa della libreria Guida a Port’Alba). Composto a Parigi nel 1801, il manoscritto, finora inedito, viene ora pubblicato da Annamaria Rao, infaticabile investigatrice di quella composita classe di rivoluzionari e di esuli di solito identificata nella vicenda e nell’opera di Vincenzo Cuoco. Il testo del Fiani, letto dalla Rao entro una fitta rete di rinvii ideologici e tematici, partiva dalla riflessione, già cara al pensiero illuministico, sul «carattere» del popolo al quale attagliare le leggi, ma stavolta nella prospettiva bruciante e verificatrice del fallimento della rivoluzione napoletana del 1799. Ed era fallimento che l’abate anticlericale e antiborbonico Fiani aveva patito in pieno: due fratelli, Giambattista e Nicola, sono orrendamente trucidati nella reazione borbonica; i pochi beni vengono confiscati e mai più restituiti; e lui, Onofrio, erudito e dottissimo letterato, professore universitario di diritto, è condannato all’esilio, a una vita grama e per sempre mancata. Da questa postazione nomade e marginale, di uno «sfrattato dal Regno», il manoscritto del Fiani vuol illuminare, con spirito pragmatico ma anche con personale malinconia, il primato della storia, dell’azione dei governi, rispetto ad un preteso «carattere» antropologico. Egli aveva mostrato, nell’opuscolo sul Genio d’Italia, che l’identità di un popolo si forma semmai «in alto», nella proiezione dell’arte e della cultura prodotte, patrimonio inalienabile del «genio italiano», e segno del suo paradossale primato, in assenza di nazione. Diversamente, i vizi dei napoletani sono nient’altro che «l’effetto delle crisi politiche» e ciò che si credeva carattere della nazione napolitana era piuttosto «vizio del governo». Il carattere negativo è dunque una complessa formazione dinamica che può solidificarsi in una stabile debolezza. «Lo spirito de' secoli - scrive Fiani con accenti che lo avvicinano al Cuoco - cambia colle circostanze... Cosa ha di comune l’indole de’ Napolitani di oggi giorno co’ Napolitani di duemila anni addietro?». La dimostrazione di questa libertà della storia è rappresentata proprio dalla sorprendente stagione dell’illuminismo napoletano, stagione progressiva, liberatrice dalle superstizioni e dalle mitologie invece avallate da Clero e Regime. Di qui la necessità di dedicare una parte del saggio alla personalità e all’opera rovinosa del cattivo principe, Ferdinando, divenuto l’esempio negativo in un discorso di tipo machiavellico sulla bontà ed utilità, per un monarca, del governo temperato. La riflessione sul «carattere» è molto articolata e sottile, tanto da presentarci lo stesso Borbone come risultato, a sua volta, di una educazione sbagliata, e tanto da coinvolgere la nazione francese, egemone, ma anch’essa individuata nei suoi vizi, nelle sue superstizioni. Tra analisi storiografica concreta e utopia militante, trapela forse in queste argomentazioni una tensione superatrice rispetto al Saggio del Cuoco, del quale il Fiani non possedeva certo la genialità teorica ed espressiva. Pure, in virtù di una prosa viva ed efficace, modernissima, quel manoscritto può oggi essere letto come il romanzo di un destino individuale segnato dalla Rivoluzione, e come drammatica irrisolta inchiesta intorno all’immagine del napoletano e del suo doppio: forte e vizioso, eroico e indolente, brillante e sventurato.

2)Quei biliardi nei manicomi dei Borbone

Nell’anno 1817, durante il regno di Ferdinando I, i visitatori delle Reali Case de’ Matti di Aversa potevano restare «attoniti del vedere per esempio un biliardo fra i pazzi, dell’udirli a suonare e cantare e talvolta recitar commedie e conversare con chicchessia affabilmente» o impegnati in «salubri passeggiate». Quest’annotazione d’epoca di Gaetano Parente, riportata ora ne La memoria dei Matti. Gli archivi dei manicomi in Campania tra XIX e XX secolo e nuovi modelli di psichiatria, a cura di Candida Carrino e Nicola Cunto (Filema, pagg. 406, euro 20), sembra quasi un presagio del lavoro di Franco Basaglia che condusse in Italia, nel 1978, alla legge 180, al riconoscimento dei malati di mente come persone da curare all’interno della società. In effetti nell’onda lunga delle visioni illuministiche, al principio dell’800, già erano stati tentati rimedi non repressivi per la malattia mentale. L’ex frate Giovanni Maria Linguiti, autore delle Ricerche sopra le alienazioni della mente umana e direttore dalla fondazione delle Case de’ Matti di Aversa - istituite nel 1813 da Gioacchino Murat e mantenute dai Borboni al rientro - mirava a recuperare i malati attraverso attività socializzanti. Dietro le scene festose mostrate ai visitatori permanevano ombre cupe: «camiciole di forza», «macchine» terapeutiche, «bagni di sorpresa». Ma, se non altro, restava aperta la questione della partecipazione dei malati a una dimensione civile. Questione che andò sfumando man mano che le classificazioni della scienza positivistica, l’utilitarismo economico e nuove ragioni di ordine pubblico concorsero nel fissare per gli ospizi della follia funzioni prevalentemente reclusorie. Il volume curato da Carrino e Cunto arricchisce con documenti storici gli atti di un convegno organizzato nel 2003 dal Centro studi «Le Reali Case dei Matti» - della Asl 2 di Caserta - in collaborazione con la Soprintendenza Archivistica per la Campania e in collegamento con il progetto nazionale «Carte da legare». Oltre che una ricognizione tra storia e progetti della medicina - allargata ad altri manicomi campani, come il «Leonardo Bianchi» di Napoli e il «Vittorio Emanuele II» di Nocera Inferiore - viene offerto uno scavo originale nelle vicende sociali della Campania e del Mezzogiorno. Da una relazione del 1834 di Francesco Vulpes si apprende che ad Aversa su 640 internati quasi un terzo erano contadini, 124 maschi e 71 femmine. Vulpes ritiene «credibile che l’ardore del sole, le varietà delle stagioni, a cui più di ogni altro son quelli esposti, loro apportano con frequenza tale alterazione e riscaldamento nel sangue che poi riescono matti», ma dopo aver attribuito la presenza di numerosi soldati al «vivere disordinato» e alle «penose fatiche», notando ben sei copisti - moltissimi in rapporto a quanti ce n’erano in giro per il regno - non può fare a meno di osservare che la miseria c’entrerà pur qualcosa. Il senso profondo della ricerca su La memoria dei matti sta proprio nell’invito a guardare la psichiatria del passato per trovare l’aiuto a essere più consapevoli di un problematico e spesso drammatico presente. Com’è del resto chiarito dall’intervento di Sergio Piro - psichiatra che con Basaglia fu protagonista della svolta italiana - su «La ”cura” della sofferenza oscura tra passato e futuro», o dalle pagine di Adolfo Ferraro sui «Matti dimenticati negli ospedali psichiatrici giudiziari», o dal più speranzoso resoconto di Nicola Cunto su «La psichiatria di confine: il progetto San Cipriano di Aversa».

Nel secondo articolo però si affronta il problema dei manicomi facendo capire che il regime Borbonico cercava di recuperare i matti con delle terapie attuabili secondo me anche oggi. Sicuramente i Borbone non hanno mai trattato gli uomini come invece hanno fatto i savoia con il povero Giovanni Passannante morto in un manicomio criminale e decapitato per cercare di capire se nel suo cervello c'era qualcosa.

Il nemico è forte ha tante risorse ma non ci abbattiamo e vinceremo

Saluti

Alessandro

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