Però, ragiona il consulente finanziario, nel 2025 i cinesi, un miliardo e mezzo, saranno due volte più ricchi di oggi.
E come hanno fatto già i taiwanesi diventando ricchi, consumeranno più carne nella loro dieta.
Nel 2006 la Seaboard ha venduto per «sole» 6,9 volte i suoi introiti; ma le sue prospettive nel prossimo decennio sono rosee come cosce di maiale; la sua azione è alquanto deprezzata, perché i grandi speculatori, vittime dei loro eufemismi, la trascurano (puzza, è low-tech, non è «avanzata»): ma è improbabile che crolli nel crack globale del dollaro e delle borse prossimo venturo.
La gente mangerà sempre costine.
E per sfamarsi pagherà, se necessario, con la catenina.
E se il denaro non avrà più alcun valore, spazzato via dall’iper-inflazione, la Seabord potrà sempre pagare gli azionisti in prosciutti.
Tanto è inutile bussare agli hedge fund: gli speculatori e i ricchi fanno la fila per entrarci, e i fondi (i più redditizi sono chiusi e di èlite) li rimandano indietro: hanno già troppo soldi, più di quelli che servono alle loro folli speculazioni.
Più denaro alla caccia di sempre meno buone idee speculative finirebbe per degradare i loro risultati.
Il mercato dei derivati ha raggiunto il valore nominale di 430 trilioni di dollari, dodici volte il valore dell’economia globale (il PIL del mondo).
Il ritorno alla realtà non può essere lontano, né «morbido».
Per intanto, scrive il Daily Telegraph, gli arricchimenti speculativi «stanno cambiando la geografia sociale britannica. Fortune sono state create su una scala e con una rapidità mai vista in un secolo… l’età media degli acquirenti di rectories [le belle case di campagna inglesi, da restaurare costosamente] è calata di dieci anni, ora i compratori sono trentenni».
Una simile frenesia giovanile si constatò anche nelle settimane precedenti il crack del 1929, anche nella speculazione sui tulipani olandese del ‘700.
Per ora, i ricchi diventano ogni giorno più ricchi e ridono.
E i poveri?
I poveri godono anche loro, dicono gli eufemisti, perché «la marea che sale solleva tutte le barche» (proverbio di Wall Street).
Infatti, dopo anni di quello che l’eufemismo ha chiamato «il boom americano senza fine», i poveri statunitensi sono in grado di esibire le loro statistiche in crescita.
Statistiche peculiari della classe bassa: in USA, la popolazione carceraria è cresciuta, dal 1995 ad oggi, del 3,5 % annuo. (2)
Incredibilmente, in questo settore di successo le donne avanzano più degli uomini: la crescita della popolazione femminile nelle galere aumenta del 4,6 % annuo, contro un modesto 3 % dei maschi. Che succede ragazzi, diventiamo meno competitivi?
Ma no: i negri sui vent’anni sono messi in galera a un ritmo tre volte superiore a quello degli ispanici, e sette volte più dei bianchi.
Ciò, in ovvia coincidenza con la disoccupazione: tra i negri la disoccupazione è dell’8,8 %, contro il 5,1 % degli ispanici e il 3,9 % dei bianchi.
Le donne nere sono disoccupate all’8,1 % contro il 3,4 % delle donne bianche, il che spiega il loro affollamento nelle carceri.
Ma attenzione alle statistiche occupazionali USA, apparentemente migliori di quelle europee: in America si definisce «occupato» anche il lustrascarpe all’angolo della Bowery.
Così le statistiche ufficiali possono proclamare che i disoccupati in USA sono solo 7,4 milioni.
Ma basta aggiungere i 2,2 milioni di carcerati (che non sono contati come disoccupati) e i senza-lavoro salgono già a 9,2 milioni.
Una cifra meno eufemistica.
Il fenomeno è paradossale: in USA, la popolazione carceraria diminuisce durante le fasi di ripresa economica, ed aumenta nelle recessioni.
E l’America, assicura il potere eufemistico, viene da un decennio di trionfale boom.
Come si spiega?
«Le prigioni americane ingabbiano lavoratori manuali potenziali di cui l’economia ha sempre meno bisogno», scrive Seth Sandronsky, un attivista che organizza assistenza nelle galere.
Se vogliamo, possiamo usare un eufemismo: il carcere è la cassa integrazione americana.
Ma non crediamo che in Italia vada meglio, quanto ad eufemismi.
Il governo Prodi ci ripete che «il costo del lavoro è eccessivo» in Italia; Confindustria e sindacati annuiscono vivacemente.
E’ dunque il «costo del lavoro» che va tagliato, non le auto blu e i privilegi dei miliardari di Stato. Però, le statistiche europee dicono un’altra cosa: che in Francia, dove l’economia va meglio, un addetto costa 9 mila euro in più che in Italia; in Germania, dove la ripresa è piena, costa addirittura 18 mila euro in più.
Ma Confindustria ribatte: in Italia, il valore aggiunto per addetto è di soli 37 mila euro l’anno, in Francia di ben 49 mila.
Ciò vuol dire, è l’insinuazione generale delle cosiddette sinistre, che gli italiani sono fannulloni.
La verità è un’altra.
A far crescere il valore aggiunto per addetto è solo in parte il sudore del lavoratore; in parte preponderante l’investimento di capitale in macchinari e innovazione.
Dunque sono i cosiddetti capitalisti italioti ad essere fannulloni, incapaci e saccheggiatori, a non investire abbastanza, a rifugiarsi nei settori oligopolistici, dove possono estrarre pedaggi e bollette come autostrade e telefoni.
In perfetta combutta coi parassiti pubblici, fanno leggi per ridurre le paghe reali dei lavoratori italiani del privato, che sono già i meno pagati d’Europa (meno degli spagnoli), e il cui reddito reale è calato del 10 % nel decennio (i dipendenti pubblici hanno visto invece un piccolo aumento: per forza, sono loro il corpo che sostiene il governo detto «di sinistra»).
Bisognerebbe chiamarli, lorsignori, col nome che meritano: ladri, farabutti, affamatori del popolo. Ma non si può, c’è l’eufemismo obbligatorio.
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Davide
Neoborbonici Lombardia