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Giuseppe Tomasi di Lampedusa PDF Stampa E-mail

Nacque a Palermo il 23 dicembre del 1896 da un’antica famiglia nobiliare. Giuseppe Tomasi, duca di Palma e principe di Lampedusa fu l’unico figlio maschio di Giulio Maria Tomasi e Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò. La primogenita ed unica sorella dello scrittore, Stefania, morì di difterite nel 1897 all’età di tre anni. La madre, donna di forte personalità, di spirito aperto e indipendente, esercitò una grande influenza su di lui, manifestando d’altra parte anche un’accentuata possessività nei suoi confronti. I rapporti con il padre, sicuramente più retrivo, furono invece piuttosto freddi. Alle lettere arrivò tardi, dopo un’esistenza fatta di viaggi all’estero e solitari, lunghi soggiorni nel palazzo paterno di Palermo e nella grande casa di campagna di Santa Margherita Belicea, la quale conteneva un teatro.

Fu proprio qui che Tomasi di Lampedusa assistette per la prima volta all’Amleto messo in scena da una compagnia di girovaghi. Sempre a Santa Maria Belicea apprese a leggere e scrivere, sia in italiano, grazie ad una maestra elementare (Donna Carmela), sia in francese, per le cure della madre. La nonna, dal suo canto, lo allietava con la lettura di Regina dei Carabi di Salgari. Nel 1911 si iscrisse al liceo classico che frequentò prima a Roma, poi a Palermo. Si iscrisse, in seguito, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma, nel 1915, ma non conseguì mai la laurea, contrariamente a quanto è stato più volte affermato. Partecipò alle due ultime guerre mondiali e, fatto prigioniero nella prima, riuscì tuttavia a fuggire, traversando a piedi l’intera Europa. Ricoprì la carica di ufficiale effettivo sino al 1925, poi abbandonò l’esercito e si ritirò in Sicilia, allontanandosi da essa solo per compiere viaggi finalizzati alla conoscenza delle letterature straniere, in particolare della narrativa francese dell’Ottocento.

Nella biografia di Tomasi di Lampedusa un’importanza decisiva ha la partecipazione al congresso letterario di San Pellegrino del 1954, al seguito del cugino poeta Luigi Piccolo. In quell’occasione, Tomasi di Lampedusa conobbe Montale, Ravegnani, Bellonci, Bassani. Della sua biografia, cosa che sfogliando libri ed enciclopedie lascia alquanto delusi, non si hanno molte altre notizie, oltre a quelle già riportate; sappiamo che gran parte del tempo fu speso dal nobile scrittore in letture e meditazione. Taciturno e schivo, tendeva volentieri all’isolamento; diceva: «Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone».

In una recensione de Il Gattopardo apparsa nel 1959 su «Comunità», Geno Pampaloni, famoso critico letterario scomparso il 17 gennaio 2001, spiegava come anche dalla prosa di Tomasi di Lampedusa si riuscisse ad intuire che: «Tutta la sua vita era stata un’avventura spirituale intensa e sorvegliata, una consapevole lettura del mondo e del nostro tempo».

Poco si sa circa l’origine e lo sviluppo dell’attività letteraria dell’autore siciliano, anche se si è accreditata l’ipotesi che, tornato a Palermo, egli si sia messo a scrivere quasi di getto Il Gattopardo.

Eugenio Montale usava definirlo come uno di quegli «scrittori di un unico libro» di cui è piena la nostra letteratura tra i memorialisti-narratori, specialmente dell’Ottocento. Il Gattopardo, in effetti, è l’opera cui è legata la vastissima fama dell’autore siciliano e rappresenta, inoltre, una sorta di lascito ereditario, essendo giunto sotto gli occhi di tutti nel 1958, quando Tomasi di Lampedusa, a causa di un carcinoma polmonare, era già morto da un anno, precisamente il 23 luglio del 1957: «Ancora una volta il destino era stato fedele all’uomo, che era schivo del clamore, del successo, della retorica: e glieli aveva risparmiati», (G. Pampaloni).

Il Gattopardo, vincitore del Premio Strega, fu anche oggetto dell’impegno di Luchino Visconti, che nel 1963 lo tradusse in film, lasciando interpretare a Burt Lancaster la parte del principe Fabrizio Salina.

Il dattiloscritto de Il Gattopardo fece il giro di diverse case editrici e fu respinto da lettori autorevoli come Vittorini. Se ne interessò invece Bassani che, recatosi in Sicilia, ormai morto l’autore, trovò un manoscritto dell’opera, altri scritti, testi di saggi e racconti, riuscendo così a ricostruire la complessa personalità di Tomasi di Lampedusa. L’attenzione della critica si concentrò inizialmente sulla tesi conservatrice dell’opera, che sembrava giustificare la convinzione dell’immobilità della storia. In realtà il fulcro del romanzo è da ricercare nel motivo decadente del presagio della morte e nell’antico tema dell’ineluttabile fluire del tempo.

Oltre al romanzo principale, sono apparsi postumi i Racconti (1961), le Lezioni su Stendhal (1977) e Invito alle lettere francesi del Cinquecento (1979).

In un articolo apparso sulla terza pagina del «Corriere della Sera» del 6 dicembre 1996, il figlio adottivo di Tomasi di Lampedusa rivelava la filosofia del principe. Studioso di musica e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, Gioacchino Lanza Tomasi confessava: «Lampedusa era certamente un uomo di segreti».

Riferendosi al capolavoro del genitore diceva: «Lampedusa si identificava con il principe Salina»; ma la famosa battuta del «cambiare per non cambiare», pronunciata da Tancredi all’interno della vicenda, come spiegava ancora Lanza Tomasi, «non è la morale del romanzo, altrimenti Lampedusa l’avrebbe fatta pronunciare al principe. Lampedusa, invece, considerava la morale del cambiare per non cambiare schifosa e inaccettabile».

Si dice da sempre che il personaggio di Tancredi sia stato ispirato allo scrittore proprio da Lanza Tomasi, che rispondendo alle domande dell’intervistatore raccontava: «Nel 1953 Lampedusa sente di dover fare qualcosa per animare Palermo. E’ uomo di cultura mostruosa, ha letto tutto. E allora prende a frequentare un gruppo di giovani, conosciuti in casa del barone Bebbuzzo Sgadari di Lo Monaco. Bebbuzzo era un’originale figura di omosessuale, un aristocratico. In casa sua passavano gli intellettuali, da Bacchelli, a Berenson e Calvino. Da Bebbuzzo, Lampedusa conosce Francesco Orlando, Francesco Agnello, Antonio Pasqualino, me e la mia fidanzata di allora, Mirella Radice. Orlando diverrà suo discepolo, io verrò adottato».

Lanza Tomasi continuava spiegando: «Dipingono Lampedusa come un conservatore, ma non lo era. Votò monarchico al referendum del 1946. Poi credo votasse per la Dc. Ma conosceva Marx, studiava Lenin, Croce, Gramsci. E credeva nella rivoluzione francese. Celebrato come scrittore dell’aristocrazia, considerava la decapitazione di Luigi XVI «la testa meglio staccata della storia». Era persuaso che la storia dovesse muoversi di tanto in tanto con delle scosse formidabili».

Lanza Tomasi definiva ancora Lampedusa come «un uomo d’azione» che: «Tentò la fuga dal campo di concentramento, viaggiò in Europa con la madre, si fidanzò due volte. Poi sposò la principessa baltica Licy Wolffstomersee in Lettonia, prima donna psicanalista d’Italia. Psicanalizzò Bebbuzzo, me e Orlando, ma Lampedusa declinò sempre, sorridendo scettico».

Entrando ancor di più nell’intimità di Lampedusa, Lanza Tomasi diceva: «Si levava al mattino presto, usciva di casa, comprava il «Corriere» e il «Giornale di Sicilia» e leggeva al caffè, lavorando. Seguiva la politica internazionale e si divertiva a segnare gli strafalcioni dialettali del «Sicilia». Dalla politica e dalla letteratura traeva una lezione morale: come si agisce. E questo insegnava a noi ragazzi. La televisione non gli piaceva. Non volle comprarla e quando un televisore gigantesco apparve in casa dell’amato cugino Casimiro Piccolo, sentenziò: «Con quell’apparecchio sulle ruote non si può più conversare». Disprezzando la provincia, l’immobilismo, Lampedusa ci spingeva a guardare altrove. Nessuno lavorava di quei nobili, non mio padre, non i Piccolo. Il solo Giovanni Grasso era dirigente ai cantieri navali ed era un caso. Si passava pigramente dai cocktail, dai miei genitori a palazzo Mazzarino, al calcolo dei bilanci in rovina. Lampedusa no: leggeva Moravia e gli piaceva, leggeva Pratolini. Disprezzava Patti, ma apprezzava Brancati. Diceva che Montale era secondo solo ad Eliot, nel Novecento».

Alla domanda del giornalista sul perché Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, scrivendo al figlio Giuseppe ormai cinquantenne, lo nominasse sempre al femminile come fosse una donna, Lanza Tomasi alzava la mano in diniego: «Qualche critico ha parlato di omosessualità, ma nei testi non ce n’è traccia».

Sui segreti di Tomasi di Lampedusa, che Lanza pareva conoscere ma non voler rivelare, forse rimarrà sempre il mistero o, ancora, il dubbio che siano più banali di quel che s’immagina.

Un'ultima frase, riportata nel libro di Enzo Biagi, Dizionario del Novecento, può darci l'idea dell’eredità lasciataci da questo personaggio straordinario che così bene aveva colto l’avversione della classe dirigente italica al cambiamento: «Bisogna sempre lasciare gli altri nei loro errori». Colpisce, di queste parole così eticamente ambigue, la radice culturale aristocratica, mediterranea e cattolica, che per noi «europei» di oggi è facile mettere a confronto con la posizione sensibilmente più assertiva e pragmatista espressa in altri paesi dell’Unione, protestanti, di tradizione più solidamente borghese e democratica. Una posizione che si sintetizza nelle parole di un grande personaggio della cultura continentale, contemporaneo del Tomasi: «Chi non ritiene che la conoscenza debba convertirsi in obbligo morale, diviene preda del principio di potenza, e ciò produce effetti dannosi, rovinosi non solo per gli altri, ma anche per lui stesso» (Carl Gustav Jung).

A cura della Redazione Virtuale

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