La scomparsa di un acceso meridionalista Barone, giornalista e uomo di cultura sempre originale e “fuori dal coro”
Era il 1977 quando l’ho conosciuto, quando ho cominciato a scrivere per il suo “Il Lavoro Tirreno”. Era un po’ la “terza via” della stampa locale, schiacciato dai veterani “Il Castello” di Mimì Apicella e “Il Pungolo” di Filippo D’Ursi. E il giovane Lucio Barone, in effetti, scelse di mettere in piedi un giornale diverso. Possiamo dire che era un’espressione giornalistica più compiuta rispetto agli altri due, con un taglio più professionale. E, soprattutto, aveva la pretesa di uscire fuori dai confini cittadini, di proporsi come testata a diffusione provinciale. Non possiamo dire che l’impresa riuscì pienamente, nel senso che Il Lavoro Tirreno non “sfondò” come Lucio avrebbe voluto, perché il suo grande impegno non trovava uguale riscontro in altrettante risorse su cui contare, ma è certo che seppe tessere pazientemente una rete di rapporti e contatti che gli consentirono di tirar fuori per molti anni dall’off-set pagine sempre stimolanti e provocatorie di politica, cultura ed economia. Il termine “controgiornale” l’ho sentito pronunciare per la prima volta da lui, a significare un metodo di fare giornalismo che mostri sempre l’altra faccia della notizia, gli aspetti che il senso comune del mestiere spesso trascura, ma che è lì a chiedere considerazione e rispetto. Un metodo che non bisognerebbe mai tralasciare. Il suo pallino era quello di realizzare un quotidiano. Ne parlava con convinzione già molti anni prima dell’avvento di altri quotidiani provinciali che si sono posti come alternativa al “Mattino” e al vecchio “Roma”. L’idea poteva sembrare balzana per chi conosceva gli indici di lettura della provincia, le scarse risorse economiche e i non potenti agganci politici di cui avrebbe potuto disporre, per di più in un’epoca in cui non esisteva ancora l’editoria elettronica che semplificava i processi. Ma Lucio era capace di convincere della bontà dell’idea gli interlocutori che gli stavano vicino e che avevano stima della sua iniziativa e conoscenza dell’ambiente. Ed io ero tra quelli. Poi, per la verità, la possibilità di realizzarla rimase solo un fatto teorico, preso come era da mille altre imprese, tutte originali, tutte faticose e di difficile impatto nella realtà sociale che lo circondava, dalla ceramica all’impegno meridionalista, all’amore per la poesia, alla ricerca di storia locale che lo portò fra i primi a produrre per la sua Mitilia una raccolta di foto d’epoca di Cava e Vietri ed a pubblicare a fascicoli (anche questa una novità) un prezioso dizionario della lingua napoletana curato da Domenico Apicella. Con lui ho conseguito la tessera di pubblicista e come me decine di altri cavesi. Sapeva centellinare consigli sul “mestiere” sempre appropriati, come quando, con grande delicatezza, a fronte della mia giovanile e ingenua imperizia con cui soccombevo all’arroganza di qualche politico locale in alcune interviste televisive, mi diceva, senza riferirsi in maniera diretta al fatto specifico, che bisogna stare sempre attenti a non vanificare in pochi minuti davanti alle telecamere l’immagine di ironia e concretezza costruita negli anni attraverso la penna. Capii il messaggio e compresi che, almeno in quel momento, la televisione non era il mio mezzo. L’altro suo grande amore, su cui per un po’ l’ho seguito, era la ceramica. Era l’85 quando caricava sulla sua macchina i maestri ceramisti Carrera e Autori e correva nel Cilento, a Camerota, a tenere un corso di ceramica teorico-pratico nell’ambito di un progetto di sviluppo economico della zona. Lui teneva lezioni sulla storia dell’arte della terracotta e i due maestri addestravano i giovani interlocutori al tornio e nella decorazione. Ma si sentiva davvero in paradiso quando soggiornava a Villa Guariglia, in tutte le estati in cui riuscì ad organizzare nei meravigliosi giardini la Rassegna internazionale. Col suo consueto spirito battagliero mi annunciò qualche tempo fa che avrebbe dato una sonora lezione ai vietresi che si mostravano insensibili al suo impegno per promuovere l’arte della ceramica. E portò la rassegna a Cava, a S. Maria del Rifugio. Poi, anche qui, il rapporto con l’amministrazione comunale si è deteriorato fino a portarlo a un eclatante sciopero della fame davanti al Comune. Ma lui era sempre pronto a ripartire e l’avrebbe fatto, se ne avesse avuto il tempo, con l’entusiasmo e la voglia di lottare di sempre. Come quando appresi con stupore che era candidato a sindaco di Napoli alla guida di Alleanza meridionale. Erano le elezioni del 1997, quelle della riconferma di Bassolino, e Lucio si propose per la poltrona di primo cittadino partenopeo. « È per darci una visibilità politica – si giustificò - che ci siamo lanciati in questa avventura. E non ci costa nulla, non sperpereremo denaro in campagna elettorale, in quanto faremo conoscere le nostre idee solo attraverso i mass media che ci ospiteranno», aggiunse con il consueto senso pratico. L’avventura per lui entusiasmante nel movimento meridionalista ha caratterizzato il suo impegno politico dopo la caduta della Dc, nella quale era stato militante, quasi sempre in opposizione al leader cittadino Eugenio Abbro. Una volta che lo stuzzicai su questa sua nuova avventura che lo aveva portato a contatto anche con movimenti borbonici, mi spiegò: «Come esponente della Dc, avevo sempre manifestato le mie convinzioni fortemente meridionaliste. Quando il partito si è frantumato ed è scomparso, mi sono sentito libero di seguire la mia vocazione, impegnandomi nell’ambito di questo movimento in cui credo». Era un sostenitore di un forte federalismo: «Napoli deve essere capitale morale e politica di una confederazione arbitra del proprio destino. In una visione nazionale unitaria, su questo non devono crearsi equivoci. Napoli capitale rifiuta di essere portata per mano. Nell’Italia unita dovrà essere costruito un ordinamento fortemente confederale, anche più accentuato che negli Stati Uniti. Alla Stato centrale dovrà restare solo la politica monetaria, la difesa e la politica estera». Concludo con due ultimi ricordi personali: quando gli annunciai di aver trovato lavoro a Roma. Lessi sul suo viso il piacere immediato della bella notizia, subito dopo turbato dall’inquietudine; e sinceramente disse: «Sono contento per te… certo, questa terra perde un altro giovane che le sarebbe stato utile». E poi, quella volta in cui mi spiegò di aver già lottato contro il tumore e di esserne uscito: «Per il momento ce l’ho fatta, ma è stato un periodo difficile». E subito dopo a raccontarmi di altre sue idee e iniziative, perché non concepiva di rimanere fermo, come mero osservatore, perché doveva sempre impegnarsi in nuove avventure. Sempre originali, sempre fuori dal coro. Non ci vedevamo più tanto spesso, ma Lucio Barone già mi manca. Enrico Passaro Panorama Tirreno, febbraio 2005 “La sofferenza degli altri è nostra sopportabile sofferenza” Lucio Barone E’ questo l’ultimo articolo che Lucio Barone ha scritto su Fermento, mensile dell’arcidiocesi Amalfi-Cava nel numero di agosto/settembre.
Mentre il treno correva veloce nella notte e nei vagoni regnava sovrano il silenzio, mi si affollavano mille pensieri nella mente: ero in attesa di giungere alla meta con gli altri 500 e più malati e fedeli tutti insieme guidati dal nostro pastore, l’ecc.mo Arcive-scovo Grazio Soricelli in un pellegrinaggio di fede e di speranza alla volta di Lourdes, ai piedi dei Pire-nei, dinanzi alla magica e miracolosa grotta dove Maria, figlia e madre di Dio, si manifestò più volte alla ignara Bernadette riaffermando la sua immacolata concezione e il desiderio di essere lì, in quel posto eccelso e prescelto, ricordata ai posteri e a quanti avessero voluto ricorrere al suo misericordioso ed infinito patrocinio. Anche noi ricorrevamo fiduciosi alle sue braccia immense che portano grazie - come cantava S. Alfonso Maria de’ Liguori - (Maria de la grazia, ca ‘mbraccie puorte grazie...). E quando le tenebre della notte si squarciarono in un’alba radiosa ci ritrovammo nella valle benedetta a vivere la nostra esperienza di cristiani credenti e devoti: una esperienza unica,irripetibile, piena di emozioni continue, dalla via Crucis alla fiaccolata, alla messa internazionale, alla messa alla grotta, alla immersione nella gelida acqua che sgorga copiosa ai piedi della grotta, alle folle oceaniche che si accalcano da tutto il mondo in questo luogo di fede.Una settimana quella di Lourdes, dove l’animo si è rasserenato, dove la sofferenza degli altri è diventata nostra sopportabile sofferenza, dove la nostra sofferenza si è annullata dinanzi alla terribile condizione di tanti ammalati martoriati nel corpo, assistiti amorevolmente dai volontari UNITALSI, maschi e femmine che - bisogna dirlo - si sono spesi al massimo per tutti, anche nell’assicurare nelle ore della calura che hanno accompagnato il viaggio di andata, l’acqua fresca, refrigerio indispensabile per superare le angustie di un percorso alquanto lungo e non proprio agevole. E siamo ai ricordi dopo il ritorno sereno al luogo di partenza. Un bagno di fede, di amore, di autentica cristianità, dove la preghiera si è aperta al perdono per tutti,anche per i nemici; una sensazione di benessere, di serenità che accompagnerà il nostro fragile ed incerto cammino futuro.Tutto sommato questa esperienza tutta quanta vissuta dai pellegrini dell’Arcidiocesi di Amalfi-Cava de’ Tirreni è stata una esperienza fortemente positiva, salvifica, piena di grazia inferiore che squarcia il cuore alla meditazione ed al pensiero dell’aldilà,nel nome di maria Vergine e Madre.
Panorama Tirreno, febbraio 2005 |