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Antonio Capece Minutolo PDF Stampa E-mail

5 marzo 1768 -4 marzo 1838

Antonio Capece Minutolo nasce a Napoli il 5 marzo 1768 da una delle famiglie nobili più antiche del regno, che aveva signoria sul vasto feudo di Canosa, in Puglia, ed era ascritta al primo dei Sedili o circoscrizioni di Napoli, quello di Capuana. La cappella di famiglia, edificata nel duomo della città partenopea nel 764, con i ritratti di numerosi uomini politici, due cardinali e uno stuolo di guerrieri, testimonia la virtù della stirpe dei Capece Minutolo, che hanno servito per secoli il regno di Napoli e la Chiesa cattolica, senza essere contaminati da quel declassamento dell'aristocrazia feudale in nobiltà cortigiana, verificatosi sotto la spinta dell'accentramento burocratico e amministrativo.

Il giovane Antonio compie gli studi di filosofia a Roma, presso il Collegio Nazareno dei gesuiti, quindi il padre lo avvia alla carriera forense ma egli, pur distinguendosi nella trattazione delle cause criminali, sente che l'avvocatura non è la sua vocazione. Le "declamazioni dei falsi liberali e dei miscredenti" lo tentano in quegli anni, concretizzandosi nell'invito ad affiliarsi alla massoneria, ma non lo attirano nella rete, anzi lo inducono ad approfondire la conoscenza della teologia e del diritto pubblico della nazione napoletana. Nel 1795, con un'orazione su La Trinità, diretta a confutare i deisti, che postulano una religione naturale fondata sull'"unità" di Dio, e con una dissertazione accademica su L'Utilità della Monarchia nello stato civile, il giovane principe scende in campo per difendere la causa del trono e dell'altare, cui attentano le teorie degli illuministi e le realizzazioni della Rivoluzione francese.

Richiamandosi alla tradizione del regno di Napoli, egli ricorda che non può esservi vera monarchia senza corpi intermedi, il più importante dei quali è l'aristocrazia, e che la società ha una sua personalità specifica, pur nella sottomissione e nella fedeltà al monarca, il quale da parte sua è legittimo quando rispetta le leggi e le consuetudini della nazione. La monarchia feudale, quindi, è organicamente in rapporto con i ceti e con le comunità, e, all'esterno del regno, con il Papato e con l'impero. Nel 1796, con le Riflessioni critiche sull'opera dell'avvocato fiscale sig. D. Nicola Vivenzio intorno al servizio militare dei baroni in tempo di guerra, precisa il suo pensiero sui compiti della nobiltà nell'ora presente. In particolare, muovendo dalla considerazione che i feudi moderni non erano più concessi dal monarca in ricompensa di servigi ricevuti e in cambio del servizio militare prestato dai nobili, ma erano diventati corpi venali, che potevano anche essere acquistati, senza obblighi o vincoli connessi, egli ritiene priva di fondamento giuridico la pretesa del re d'imporre il servizio militare ai baroni; costoro, tuttavia, per il senso dell'onore e della fedeltà che li caratterizza, devono fornire denaro e soldati alla nazione quando questa è in pericolo. L'occasione di dare concreta esecuzione a queste affermazioni non tarda a presentarsi.

Onore della nobiltà napoletana

Nel novembre del 1798, all'approssimarsi dell'invasione dell'esercito rivoluzionario francese, Antonio Capece Minutolo recluta soldati a sue spese e incita la popolazione alla resistenza. Alla partenza della corte e di re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) per la Sicilia, viene nominato membro della Deputazione Straordinaria per il Buon Governo e per l?Interna Tranquillità, scontrandosi subito con Francesco Pignatelli, principe di Strongoli (1734-1812), vicario generale del regno. Il principe di Canosa, sulla base delle antiche consuetudini del regno, rivendica alla città di Napoli il privilegio di rappresentare la nazione in assenza del sovrano, come era già accaduto altre volte in passato; tuttavia il vicario il quale incarnava le tendenze assolutistiche, che miravano a rompere il rapporto organico fra monarca e società a svantaggio della seconda, concepita come una massa indifferenziata di sudditi si oppone alle richieste della municipalità, per di più accusando i rappresentanti della nobiltà di voler instaurare una "repubblica aristocratica", e conclude un armistizio con i francesi invasori.

La capitale è espugnata nel gennaio del 1799, dopo le gloriose "tre giornate", in cui i napoletani, soprattutto i lazzari, cioè il popolo minuto, si armano e resistono valorosamente ai giacobini stranieri e a quelli locali, i "collaborazionisti". Antonio Capece Minutolo è arrestato e condannato a morte senza processo.

La pronta reazione popolare, animata dal cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), che alla testa dell'esercito della Santa Fede giunge in poco tempo alle porte della capitale, salva la vita all'intrepido aristocratico, il quale non sfugge però alla Giunta di Stato borbonica, che gli infligge "anni 5 di castello" per insubordinazione nei confronti del vicario regio. I repubblicani avevano punito in lui il realista e i realisti punivano l'aristocratico, cioè i due elementi che egli componeva armoniosamente nella sua persona. Alla condanna dei cavalieri napoletani segue lo scioglimento dei Sedili "l'atto più rivoluzionario compiuto dal dispotismo illuminato borbonico", secondo il giudizio dello storico Walter Maturi (1902-1961), che priva la nobiltà di ogni residua influenza politica e la nazione della sua rappresentanza.

Scarcerato grazie all'amnistia generale del 1801, il principe di Canosa può riprendere i suoi studi e, due anni dopo, dà alle stampe il Discorso sulla decadenza della Nobiltà, in cui individua la causa del declino di questo fondamentale ceto nella crisi del regime monarchico prodotta dalla dissennata politica di accentramento, che contribuisce a demolire la società tradizionale organica e cristiana. Nel 1806, di fronte alla seconda invasione francese, vuol prendersi con la Corte una "vendetta da cavaliere", mettendosi agli ordini del re e seguendolo in Sicilia. Questo atteggiamento conquista il sovrano, che gli affida il compito di difendere le isole di Ponza, Ventotene e Capri, gli unici territori non ancora caduti nelle mani dei francesi, e, dopo la Restaurazione, lo chiama a partecipare al governo.

Politico senza cedimenti

Ferdinando IV, ora Ferdinando I delle Due Sicilie, perde l'occasione per operare una restaurazione efficace, accontentandosi di quella politica di "conciliazione", cioè di compromesso con i vecchi rivoluzionari, favorita in Europa da Klemens Lothar Wenzel, principe di Metternich (1773-1859), e a Napoli da Luigi Medici, principe di Ottaiano (1759-1830), che ebbe più volte la direzione del governo. A nulla valgono gli accorti giudizi del principe di Canosa, il quale denuncia l'ambigua Restaurazione seguita al Congresso di Vienna (1814-1815) e tenta invano di mettere in guardia il sovrano contro l'operato delle forze sovversive, che continuano a cospirare nell'ombra. Nominato due volte ministro di polizia, nel 1816 e nel 1821, in entrambe le situazioni verrà sacrificato sull'altare del cedimento e del compromesso.

Durante le due brevi esperienze di governo il nobile napoletano cerca di condurre un'azione politica fondata sulla propaganda e sulla polemica, anche satirica, con l'ideale rivoluzionario. Si preoccupa di usare "il minimo della forza e il massimo della filosofia" e raccomanda un'intensa opera d'informazione sulle ideologie: "Dai pergami, sopra le scene dei teatri, nelle pubbliche piazze, nelle gazzette, da mille fogli periodici fare si doveva la guerra ai settari. Essi dovevano essere perseguitati dalla penna e non già dalla spada, col ridicolo e non col tuono serio: daì'comedianti e non dal carnefice. Unica loro pena esser doveva quella di essere esclusi perpetuamente da ogni carica". In quel periodo compone L'Isola dei Ladroni o sia La Costituzione Selvaggia, opera teatrale che costituisce esempio concreto della pratica polemica da lui auspicata. L'uso del teatro per la formazione di una corretta opinione pubblica a conferma della costanza della riflessione canosiana sulla prassi contro-rivoluzionaria sarà tema anche di una corrispondenza del 1833 con il conte Monaldo Leopardi (1776-1847), al quale propone di dedicarsi alla stesura di testi teatrali.

Guida della Contro-Rivoluzione in Italia

Accompagnando la sua azione politica istituzionale e quella propagandistica alla riflessione politico-religiosa, il principe di Canosa pubblica, nel 1820, la sua opera più nota, I Piffari di montagna, dove ribadisce le linee fondamentali del suo pensiero. Negli anni seguenti, percorrendo la penisola in esilio volontario, cerca di coordinare l'azione di quanti, laici e religiosi, intendono dare un carattere di maggiore profondità e incisività alla Restaurazione: fra questi, il padre teatino Gioacchino Ventura (1792-1861), il quale fonda a Napoli nel giugno del 1821 l'Enciclopedia Ecclesiastica e Morale, che vagheggia per prima una nuova forma di apostolato laicale; il marchese Cesare Taparelli d'Azeglio (1763-1830), che anima in Piemonte prima le Amicizie Cattoliche e poi il periodico l'Amico d'Italia; l'apologista modenese monsignor Giuseppe Baraldi (1778-1832), fondatore della rivista Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura; il conte Monaldo Leopardi, il quale a Pesaro dà vita al periodico La Voce della Ragione, che aveva una tiratura di duemila copie, stupefacente per i tempi. Da questi cenacoli, però, non si sviluppa una struttura laicale organizzata, soprattutto a causa del persistente giansenismo e del regalismo diffusi presso il ceto colto, della tradizione giurisdizionalistica ancora viva nelle maggiori corti, in particolare a Napoli e a Torino, della diffidenza di alcuni monarchi verso gli esponenti della classe dirigente saldamente ancorati a princìpi contro-rivoluzionari. L'unico sovrano apertamente a favore delle posizioni legittimistiche è Francesco IV d'Asburgo-Este (1779-1846), duca di Modena, dotato di una forte personalità, nonchè di notevole chiarezza di vedute e di grande coerenza di princìpi. "E' forse l'unico Stato d'Italia scriveva il principe di Canosa nel 1822, in cui il buon partito della monarchia ha qualche energia, ed ove si parla e si scrive in favore della buona causa. Questo fenomeno assai singolare dipende dalla fermezza e decisione di cui si vede rivestito il cuore del sovrano, il quale non transige coi rivoluzionari, ma mostra intrepido loro il petto e il volto, perseguitando i nemici della religione e della monarchia".

Alla corte di Modena il principe di Canosa trascorre gli anni dal 1830 al 1834, collaborando a La Voce della Verità, diretta dallo storiografo Cesare Carlo Galvani (1801-1863), guardia d'onore di Francesco IV, e affrontando, fra i primi in Italia, la crisi di alcuni intellettuali cattolici, che apre la strada al liberalismo cattolico. Passa quindi nello Stato Pontificio, dove cerca di promuovere la costituzione di volontari armati legittimisti, e finalmente, nel 1835, fissa la sua dimora a Pesaro, dove si sente ormai "stanco lione" cui gli asini liberali avrebbero ardito tirare calci come nella favola di Esopo. Tuttavia, reagisce con il consueto vigore alle accuse mossegli, con la Storia del Reame di Napoli, da Pietro Colletta (1775-1831), contro il quale scrive un'Epistola in cui contrappone la verità dei fatti a una mendace storiografia e i suoi ideali incontaminati all'ipocrisia dei liberali. Dopo essersi battuto fino all'estremo, muore a Pesaro il 4 marzo 1838.

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