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Carlo Alianello PDF Stampa E-mail

di Gianandrea de Antonellis

Carlo Alianello

Scrittore umano e popolare

Carlo Alianello (1901-1981) è uno scrittore meno conosciuto di quanto meriterebbe: emarginato dalla critica attenta alla forma perchè nella sua opera non si riscontrano elementi di particolare innovamento linguistico; disprezzato dalla critica attenta ai contenuti perchè decisamente controcorrente (ai nostri giorni si dice: non politically correct). Le antologie scolastiche non lo citano, i volumi di approfondimento lo ricordano solamente di sfuggita, eppure questè uomo umile, dedito all'insegnamento, senza pretese di protagonismo nonostante i premi letterari conquistati (e, nel suo caso, possiamo ben dire a pieno merito), seppe scrivere in maniera semplice riuscendo a raggiungere, nonostante la corposità dei suoi volumi, l'animo dei lettori.

'Il mio talento è quello di narratore di favole, di cantastorie o, se si preferisce, di aedo'  affermò una volta: ed in effetti il suo sforzo è sempre stato quello di rendere accessibile a tutti, con la semplicità del linguaggio e l'interesse dell'intreccio, vicende che è bene facciano parte integrante della nostra cultura, narrazioni che la storia ufficiale ha voluto cancellare e che possono essere rese note più facilmente sotto l'aspetto di romanzi storici piuttosto che attraverso imponenti saggi che non potrebbero mai raggiungere la stragrande maggioranza dei lettori.

Non un semplice divulgatore, ma molto di più: un poeta che utilizza come materia la storia della propria terra, perchè questa non venga obliata. In questo senso può reggere il paragone con Omero: l'aedo cieco cantava le gesta di una Grecia ormai mitica, perchè non venisse dimenticata, come Alianello cerca di vivificare nell'arte le patrie vicende, liberandole dalla polvere degli archivi.

Annota a questo proposito Marcello Camilucci: 'Alianello, sotto questo riguardo, ci sembra occupare una posizione mediana tra Balzac e Manzoni: il suo interesse per la storia nasce da una radice che partecipa della sociologia e della spiritualità, evitando gli eccessi del positivismo zoliano e le inquadrature metafisiche dei romanzi ottocenteschi. La meditazione sulla storia tenta di dissociarsi il meno possibile dallo svolgimento della storia stessa senza precludersi però quei cantucci distensivi e riflessivi nei quali lo spirito del gran Lombardo si concedeva il lusso di contemplare dall'alto la sua matassa. Ne nasce un ritmo ordinariamente celere con qualche pausa nel quale lo stomaco della storia fatica a digerire quanto ha ingurgitato e gli si agita confusamente dentro .

Il paragone con Manzoni o con Balzac non sembri ardito: il livello della scrittura alianelliana è sicuramente alto; e se non siamo di fronte a tentativi di sostanziale rinnovamento linguistico che hanno dato fama ad altri autori, esiste una fondamentale novità nell'uso del dialetto, che Alianello utilizzò in maniera completamente differente da due suoi illustri contemporanei, Pasolini e Gadda. Il primo ne godette come di un gioco per le sue doviziose offerte scatologiche  e l'altro lo trasformò in un divertimento barocco; al contrario, Alianello lo colse nel suo rapporto che è di amore e di discordia ad un tempo con la lingua, nel suo naturale e prepotente fiorire ed esplodere ogni volta che l'intimità del personaggio è sollecitata in una sfera e con un'intensità nella quale non riesce più a tradursi, a cercare la mediazione di una lingua a tutti comune, ma deve trovare uno sfogo immediato al livello bruciante del sentimento e dell'istinto . Usato sapientemente è anche se alcuni puristi contestano la limpidezza del lucano, troppo spesso è contaminato dal napoletano è il dialetto non volgarizza la storia e i personaggi, ma corrisponde al loro sospiro ordinario: 'Il dialetto in tal modo non solo non risulta fastidioso ed ingombrante (come nella maggior parte delle sperimentazioni neoveriste) bensì contribuisce una sorta di musica di fondo grave e misteriosa che lega intimamente i personaggi e i fatti all'ambiente naturale e storico nel quale vivono .

Ma non è solo questione di sfogo immediato al livello bruciante del sentimento e dell'istinto, perchè negli anni successivi all'annessione piemontese l'uso del napoletano (o del lucano, del calabrese, del veneto o di qualsiasi altro dialetto, meridionale o set-tentrionale che fosse) aveva anche un preciso intento ideologico: il rifiuto della lingua italiana, del riconoscimento di un asservimento culturale. Negli anni successivi al 1860 parlare napoletano o, più precisamente, ostinarsi a parlare napoletano  era come mettersi addosso una coccarda borbonica: numerosi sono gli attestati, sia contemporanei che più recenti, di una simile concezione. Ne L'inghippo il primo problema del protagonista, nobile lucano, ma garibaldino, massone e infine filosabaudo,  appunto quello di sforzarsi di cancellare ogni residuo della parlata paterna, anche solo quando pensa: purtroppo per lui non gli riesce  e se ne rammarica non poco  di sostituire la parola papà con il toscaneggiante e più ufficiale babbo (che gli ricorda più un insulto siciliano  dove babbo sta per sciocco  che la dolce figura paterna).

Scrittore borbonico

Alianello scrittore e cantore della sua terra, dicevamo. E tra le opere dello scrittore lucano vi sono almeno cinque lavori che possiamo definire borbonici (anche se lo scrittore teneva a precisare di non essere un "borbonico" ): cerchiamo di analizzarli brevemente, seguendo non l'ordine cronologico in cui essi furono scritti, bensì la sequenza storica della materia trattata.

Soldati del Re

Premio Valdagno-Marzotto nel 1952, è una serie di tre racconti intrecciati tra di loro ed ambientati in una giornata dei moti del 1848. La scrittura è assai sapiente ed Alianello gioca con i suoi personaggi e con i toni, passando dal drammatico al grottesco, se non addirittura al comico, per poi tornare al tragico ed al patetico, con accenti di altissima poesia. Il mito della "rivoluzione popolare" viene spogliato di tanta retorica patriottarda e ridimensionato ad una serie di fatti in cui, più che l'eroismo, dominano le rivalità, spesso assai meschine che opponevano la borghesia rampante alla nobiltà dominante.

Particolarmente struggente è l'ultimo episodio: Rocco, un soldato semplice (in tutti i sensi), viene ucciso da un dimostrante, un borghese che studia da notaio. Dopo la morte i due vengono giudicati da un tribunale celeste, in cui però gli arcangeli ed i santi sono vestiti in uniformi borboniche. La dolcezza del povero cafone, mite con chiunque (al punto da non aver impedito ad una recluta di scappare dalla caserma per andare a salutare i parenti, cosa che gli costò a suo tempo la degradazione) e buono soprattutto da non aver fatto immediatamente fuoco sullo studente che tentava di disarmarlo, viene contrapposta allo strafottente cinismo del borghese, orgoglioso fino alla morte  ed oltre  nel suo disprezzo verso il povero illetterato. Viene qui anticipata di quasi vent'anni la polemica che vedrà Pasolini condannare i manifestanti sessantottini, figli della grassa borghesia, pronti a tirare sassi contro i poliziotti, veri figli del popolo, salvo poi rifugiarsi sotto le gonne di papà o a far brillante carriera in politica, nelle università, nelle aziende, nei giornali... Il processo celeste si chiude con l'assoluzione del povero Rocco, mentre lo studente continua ad essere incredulo e protervo nel suo rifiuto di accettare la realtà ultraterrena, anche quando essa si presenta chiaramente ai suoi occhi.

L'alfiere

Pubblicato nel 1942, conobbe un grande successo (e nel 1956 divenne uno sceneggiato televisivo in sei puntate), tanto da essere considerato quasi un testo premonitore dai combattenti coinvolti nella guerra civile. La leggenda vuole che molti soldati della Repubblica Sociale lo portassero con sè: negli avvenimenti dell'invasione sabauda e della conseguente guerra civile del 1860 essi vedevano rispecchiate le loro vicende e si identificavano in chi, come l?alfiere Giuseppe Lancia, aveva deciso di mantenere fede all?impegno preso con il giuramento militare. Li accomunava anche lo stesso tipo di guerra, destinata ad essere perduta e che proprio per questo appariva più gloriosa. Senza speranza, come il motto dei difensori di Civitella del Tronto ripreso da alcuni reparti della R.S.I.

Il romanzo ècostituito dall'ntrecciarsi delle storie di Pino Lancia, giovane ufficiale di cavalleria, e di fra'Carmelo da Acquaviva, un francescano ammiratore di Garibaldi: le due vicende finiranno per avere un epilogo comune, con il carmelitano che diverràcappellano militare del manipolo di Pino, riuscendo a raggiungere quasi miracolosamente Gaeta per l'ultima, inutile resistenza. Inutile come l'amoreche il giovane tenente nutre per la dolce Titina, una fanciulla del suo paese di origine in Lucania, che lo ammira e che non osa svelargli il suo amore, anche quando lo salva dalla congiura ordita contro l'ufficiale borbonico dai liberali del paesino. Pino ha conosciuto altre due donne, Renata, fredda e bellissima figlia di una ammiraglio traditore e Ginevra, nipote della governante, ragazza affascinante, ma volgare. La lontananza accresce il suo affetto per Titina, trasformandolo da semplice riconoscenza in puro amore, ma, dopo mesi di distacco, in seguito alla vittoriosa sortita di Caiazzo, egli verrà asapere che la fanciulla èstata uccisa proprio pochi istanti dopo aver liberato Pino. Il tenente ha così vissuto per un fantasma, per un essere già morto, così come ha combattuto per una guerra già persa, per un regno già caduto. Ma fino all'ultimo ha voluto credere, sperare, ed il romanzo si chiude sulle parole di un ufficiale ferito gravemente, il quale, a metà strada tra il delirio e la lucidità, mentre la bandiera biancogigliata viene ammainata definitivamente, continua a gridare: 'Io non mi sono arreso!'.

L'eredità della priora

Pubblicato nel 1963 e Premio Selezione Campiello, è ben più di un semplice romanzo storico: si tratta di un vero e proprio atto di accusa, in forma letteraria, nei confronti della guerra contro il cosiddetto brigantaggio politico, condotta con estrema violenza da parte dell'esercito piemontese (è difficile riuscire a definirlo italiano) nei territori dell'ex Regno delle Due Sicilie. Basandosi su rigorose ricerche storiche, poi sfociate nel 1972 in un saggio storico crudamente intitolato La conquista del Sud, Alianello tesse una fitta trama basandosi su tre figure di ufficiali borbonici che, dopo la caduta del Regno, tornano in Lucania per comandare le bande di insorgenti che si dovrebbero formare. Naturalmente, non potendo falsare la Storia, tutti e tre falliranno questa missione: Ugo Navarra finirà ucciso come un volgare brigante e la sua memoria sarà infamata; il barone Andrea Guarna, protagonista principale e nipote della Priora del titolo, dopo alcune vicissitudini più che altro politiche (in qualità di infiltrato nella nemica Guardia Nazionale), tornerà a Roma dopo esser riuscito 'solo' a convertire la cugina, cresciuta in Svizzera tra calvinisti e mazziniani, alla vera Fede; infine Gerardo Satriano, per evitare la condanna a morte, sarà costretto a fuggire in America dove si arruolerà nell'esercito nordista per partecipare in qualità di mercenario alla guerra di secessione.

Nonostante le quasi seicento pagine, il romanzo è di agevole lettura, conquista il lettore e lo trascina in un ambiente ricostruito alla perfezione, dove si incontrano personaggi mirabilmente descritti, dal Maestro di loggia al legittimista illuso, dallo speculatore senza scrupoli che arruola indifferentemente per la causa borbonica o per l'esercito nordista al murattiano che crede di aver trovato l'occasione per restaurare la dinastia napoleonide. Se L'alfiere era stato un romanzo in cui prevaleva l'azione militare (era ambientato nel 1860, quindi in piena guerra), ne L'eredità della Priora (che riporta fatti dell'anno successivo, quindi di 'guerriglia') è l'elemento politico a predominare. Ci si rende conto come la bella pur se sfortunata guerra che aveva vissuto il baroncino Pino Lancia è praticamente morta: al suo posto si combatte una battaglia di nervi, di logoramento e purtroppo di corruzione; gli elementi della Guardia Nazionale sono tutti borbonici che vestono l'uniforme piemontese, pronti ad inalberare le insegne gigliate non appena sarà giunto il momento ma, purtroppo, capaci di continuare a servire il tricolore se tale momento non dovesse arrivare.

Per questo la pagina che tiene maggiormente sospeso il lettore è quella del (mancato) attacco da parte delle truppe del generale Borjes e di Crocco a Potenza: sotto una pioggia battente la Guardia aspetta, pronta ad accogliere come vincitori lo Spagnolo ed il brigante, trattenendo il respiro in attesa di un momento che non arriverà mai.

La conquista del Sud

Scritto nel 1972 non è un vero e proprio romanzo, bensì un saggio romanzato: l'autore non espone aridamente il frutto di lunghi anni di ricerche, molte delle quali avvenute in archivi privati, ma, conscio di essere in primo luogo un artista, le riveste di un'aura poetica. Ad esempio, viene descritto con estrema efficacia l'episodio che dette luogo al ferocissimo e spropositato massacro di Pontelandolfo e Casalduni (14 agosto 1861).

I garibaldini avanzano in mezzo alle campagne e sentono un coro di preghiera: sono i contadini che si preparano alla semina ritmando con le orazioni il proprio lavoro. Ciò rassicura i soldati in camicia rossa che procedono nella loro marcia; solo quando si sono troppo addentrati si rendono conto che quello non è il tempo per certe attività agricole: sono caduti in un'imboscata in cui le parole d'ordine sono date dai versetti delle preghiere. L'ordine viene dato e l'assalto dei briganti inizia; sono solo roncole e bastoni contro fucili, ma il coraggio di chi le imbraccia è esaltato sia dall'odio verso i crudeli invasori, sia dalla ferma fede in chi li guida e nello strumento che impugna: il parroco con un crocifisso.

La prosa di Alianello sa piegarsi alle necessità del saggio, ma le sue pagine rimangono comunque degli esempi di commovente poesia: lo scrittore si rivela così capace di insegnare la storia in maniera semplice ed espressiva, avvicinando coloro che potrebbero essere spaventati dall'idea di affrontare un ponderoso tomo scientifico o che, viceversa, ritengono sprecato il tempo utilizzato a leggere un romanzo.

L'inghippo

Un'opera scritta da un autore anziano, che ha come protagonista un uomo altrettanto anziano. Rispetto ai romanzi precedenti l'azione si riduce ulteriormente, lasciando posto allo scavo nell'intimo dei personaggi: si svolge tra il 1894 ed il 1896, tra lo scandalo della Banca Romana e la disfatta di Adua. L'inghippo del titolo è costituito da un paio di cambiali della Banca Romana, firmate dall'onorevole Francesco Fortemanno, barone lucano e combattente garibaldino pluridecorato, passato successivamente tra le fila del centro monarchico; dei trascorsi rivoluzionari ora mantiene solamente la violenta avversione per il clero. Disperato per le cambiale firmate, che in mano ai suoi nemici potrebbero divenire armi terribili, rimane a dir poco sgomento quando viene a sapere che esse sono state riscattate dal clero stesso su richiesta della sorella dell'onorevole, la marchesa Leopolda, che ha così evitato ogni scandalo. Il gesto generoso non gli fa mutare alcun sentimento e quando, dopo la battaglia di Adua, il figlio Vittorio viene fatto prigioniero dagli Abissini, profilatasi la mediazione del Papa presso il Negus, pronuncia un discorso violento discorso contro l'eterno Nemico di lì dal Tevere affinchè il Re ed il governo rifiutino di scendere a patti col Pontefice.

Il gesto disconoscente (ed impostogli dalla massoneria) crea una insanabile frattura con la sorella ed a nulla vale il miracolo mariano di cui Vittorio è protagonista in Africa: il giovane decide di rinunciare al matrimonio e va a fare il missionario laico in Etiopia, mentre il padre si ritira dalla politica e si chiude in se stesso. A livello più alto, la Chiesa dovrà ancora aspettare trent'anni per riallacciare i rapporti con lo Stato italiano, mentre il parlamento giolittiano si rivela una accozzaglia di individui pronti a schierarsi dalla parte del più forte, pari per vigliaccheria solo alla classe dei giornalisti; lo stesso esercito si dimostra incapace di compiere il proprio dovere, ripiegato com'è sugli allori delle passate vittorie.

Alianello trasferisce in questa sua ultima opera tutta la propria amarezza: deluso dalla vita quasi tronca il romanzo con un finale che pare dirci che sì, la vita continua, ma non ci può certo offrire tutte le gioie che ci aveva promesso. Il matrimonio tra i due cugini, sospirato fin dalle prime pagine del romanzo, non si avvererà: il Fato separa i due cugini, destinando l'una ad un freddo matrimonio di convenienza e l'altro ad una dura vita in Africa. Dalla loro unione sarebbero derivate non solo la riconciliazione tra i due genitori, fratello e sorella divisi da tante discordie, ma anche la rinascita della famiglia Fortemanno e l'ideale pacificazione tra il mondo tradizionale ed il mondo nuovo, tra le due anime di un'Italia lacerata profondamente. Questo messaggio di speranza, però, si infrange: e come con Vittorio, deciso a ritirarsi in Africa, si estingue il sangue dei Fortemanno, così i valori positivi del rinnovamento sono perduti, lasciando il posto (ed il potere) alla borghesia più arida e dura.

Interessante anche il rapporto di amicizia tra i camerieri dei due fratelli: i lucani: Rocco e Maria Donata, servitori del barone (Rocco fu attendente di quest'ultimo nella spedizione dei Mille) e i romani Romolo e Laurina, fedeli alla marchesa (lui combattè anche a Mentana, quando i 'garibaldesi' furono sconfitti ignominiosamente dai soldati pontifici ed affermarono  contro la verità storica  di essere stati battuti dalle truppe francesi, che invece giunsero sul campo a battaglia terminata).

Scrittore cattolico

Fausto Gianfranceschi ha definito Alianello come uno scrittore di ispirazione cattolica per il quale 'il principio di selezione etica trascende il calcolo del successo storico: gli uomini debbono svolgere il ruolo assegnato ad essi dal destino anche se è contro la Storia, perchè giudice è Dio e non la Storia (cioè il divenire umano)' . Definirsi cattolici, nel mondo attuale, è spesso un atto di coraggio. Ed Alianello stesso non aveva remore a farlo. A questo proposito una significativa pagina si trova in Lo scrittore o della solitudine, una sorta di struggente autobiografia: ricordando il suo ingresso, da fanciullo, in un collegio dedicato alla Madonna, ne rievoca un momento saliente. Nella cerimonia d'ammissione io mi son votato a Lei, come, secondo la vecchia formulazione feudale, cavaliere a Dama e Signora. Ho giurato e, se non ho sempre mantenuto il mio giuramento, non fu mai per infedeltà, ma per debolezza, così come quando il cavaliere si alleggeriva talvolta di corazza, giaco e morione; l'armatura di ferro è dura a portarsi, dura milizia è la vita degli uomini.

Per quella fede donata, quel prestato giuramento non l'ho scordato nè lo dimenticherò mai per l'onore della mia Dama, neppure quando non vi saranno più nè luoghi nè tempi per correr quintane e nessun infedele porterà più colori avversi contro il suo azzurro manto. Resterà un nome solo, un tempo incommensurabile, un unico confine senza limiti nè misure: l'eternità, dico, nel nome di Dio .

Il mago deluso

Pubblicata da Mondadori nel 1947 (vinse il Premio Bautta), narra le vicende del ventottenne professor Massimo Daliano che si trasferisce a C. (in cui si riconosce Camerino) per occupare la cattedra di biologia dell'università. Alloggiato presso la famiglia Zapponi, si trova circondato da vari strani personaggi: Venanzio (organista del Duomo) che ha fama di mago, sua sorella Agnese quella di santa e la loro madre di sibilla. I tre sono peraltro inquilini della conturbante e chiacchierata Concita.

Massimo, ateo e materialista, dapprima si diverte a tali dicerie; quindi viene a mano a mano attratto dal vortice di spiritualismo che aleggia nella casa; quando, quasi per staccarsi da tale atmosfera, accetta l'amore della propria assistente Letizia Giani, inizialmente tenuta a distanza anche perchè fidanzata di un altro professore, improvvisamente Concita si fa avanti, anche se per interposta persona. Infatti è il maestro Venanzio, il mago, che gli chiede di rispondere ' castamente ' alla passione di Concita: solo così, con due anime amanti e caste potrà egli raggiungere lo scopo della sua opera, che non è la trasmutazione dei metalli, bensì quella delle anime. Ma l'amore di Massimo e Concita non sarà casto e porterà tragiche conseguenze, con le morti sospette del mago e della donna fatale. Il finale, in un rapido crescendo, vede Massimo perdere la sicurezza del proprio scetticismo: la fede, piano piano, gli entra nell'anima, in quell'anima che lui ha da molto tempo negato esistere: così prega con la buona Agnese e, forse, troverà la sua strada nell'amore per Letizia, anch'essa 'buona cristiana', come tiene a definirsi.

Maria e i fratelli

Scritto nel 1955, è la rilettura della storia di Gesù Cristo attraverso una modernizzazione del linguaggio. L'autore giustifica questa sua scelta analizzandola puntualmente, per poi concludere: La forma fissata in eterno è l'ideale della mummia che si conserva bene, ma non vive. Un'altra cosa. Chi volesse informarsi meglio dei principali personaggi di questo libro, se il mio lavoro avrà la fortuna di interessare qualcuno, può consultare con profitto uno dei SS. Evangeli o tutt'e quattro. Ce ne sono delle ottime edizioni, molto curate .

Fin dall'inizio l'autore mette l'accento sulla regalità della ascendenza di Gesù, sotto-lineando come sia Giuseppe che Maria provengano dalla stirpe di Davide. La nobiltà della Madonna, poi, si esprime attraverso il suo dignitoso comportamento, il suo distacco dai beni materiali, così diversa dall'ipocrita sacerdote del tempio, che trattiene il popolo dal raccattare i trenta denari sparsi da Giuda, affermando che essi siano 'roba sporca' in quanto frutto del tradimento, ma, una volta allontanatasi la folla, si affretta a raccattarli uno per uno.

Il corso dei capitoli più drammatici, quelli sulla Passione e sulla Morte di Nostro Signore, sono enfatizzati da un taglio 'cinematografico'. Parimente emozionante è l'incontro con Pilato: chiunque viene a contato con Gesù rimane colpito dalla sua figura e il procuratore romano per un tratto decide di rischiare tutto per salvarlo, ordina l'assetto di battaglia e sogna di poter far schiacciare dalla propria cavalleria la plebaglia radunata nel cortile del pretorio, quella stessa plebaglia che gli sta chiedendo a gran voce il sangue di un innocente ('E il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli! Sangue! Sangue!).

Eppure, nonostante tutte le premesse, il romanzo non venne apprezzato (come accadde al più modesto Nascita di Eva, Vallecchi 1966). Così ne scrisse il critico Fausto Montanari: Il libro ha avuto una modesta fortuna: troppo religioso per i laicisti; troppo laico per i cattolici. La sorte di quasi tutti i libri cattolici vivi e intelligenti nel nostro ambiente italiano . Per questo, quando nel 1970 pubblicò una sorta di diario, lo intitolò amaramente Lo scrittore o della solitudine, conscio di non poter essere apprezzato da una critica  anche sedicente cattolica  anzi di una  consorteria di sprovveduti, fra critici, autori ed editori, i quali altra ricchezza non hanno che l'appoggio dei politici, anzi d'una sola politica, quella dei sinistrorsi d'ogni sfumatura, carminio, rosso scarlatto, rosa, rosaceo, malva, cinabro o solferino, nonchè dei grossi capitalisti che gli sono alleati, i quali altro interesse non hanno che ridurre l'arte a un fatto industriale, qualunque arte è diventata cosa bigia, tetra, miserabile , capaci di modellare un 'catechismo nuovo' cui è mancano solo le litanie dei santi, dei loro santi: Santa Venere Cloacina, detta a Roma anche santa Chiavica, san Priapo mortificato e martire, eppoi san Lutero, san Calvino, san Zwiglio e via via, attraverso Kant ed Hegel fino a Marx, al santissimo Lenin, al beato Stalin e al venerabile Marcuse, di santità appena fiorente .

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