Il governo in esilio
LE ULTIME BANDIERE - L'ESILIO - CONCLUSIONE Il governo in esilio Francesco II, l'ultimo Re di Napoli, aveva lasciato per sempre il suo Regno, rifugiandosi a Roma; ma nel territorio delle Due Sicilie sventolavano ancora due bandiere borboniche: nella cittadella di Messina e nel fortino di Civitella del Tronto. Installatosi al Quirinale, Francesco ricostituì il governo, ponendovi alla presidenza l'ammiraglio Leopoldo Del Re, Antonio Ulloa direttore alla guerra, il diplomatico Giacomo De Martino agli esteri, il conte Salvatore Carbonelli alle finanze. Il corpo diplomatico estero era formato dagli ambasciatori dei paesi di quasi tutta l'Europa. Il legittimismo
Francesco, ancora non completamente rassegnato alla perdita del trono, tentò subito di organizzare la reazione con la preziosa collaborazione dell'ambasciatore spagnolo Bermùdez de Castro e di vari generali, fra i quali il valoroso Bosco. Inoltre, il fascino e la bellezza dell'eroina di Gaeta, Maria Sofia, attirava a Roma avventurieri, romantici legittimisti, ex militari, aristocratici e cavalieri da ogni parte d'Europa, per mettersi al servizio della causa borbonica. Ella, consapevole di ciò, sfruttava la sua fama che si era estesa in tutta Europa per arruolare e per organizzare bande che avrebbero svolto una durissima guerriglia contro le truppe di Vittorio Emanuele. I più famosi tra questi cavalieri del vecchio mondo legittimista furono gli spagnoli José Borjes e Rafael Tristany; i francesi Olivier Marie Augustin de Langlais, Theodule de Christen e Riviére; i tedeschi Masoratt, Ludwig Richard Zimmermann e Edwin Kalckreuth; il belga Alfred de Trazegnies de Namour. Molti di questi uomini si comportarono coraggiosamente, sacrificando, spesso, la vita in una feroce guerra civile di cui non compresero, probabilmente, le vere motivazioni.
La piazzaforte di Messina
Francesco, intanto, cercava di incoraggiare la resistenza della cittadella di Messina, inviandovi il tenente di stato maggiore Luigi Gaeta con l'ordine di difendere la fortezza e con 30000 ducati per pagare la guarnigione. Quest'ultima era formata dalle cmp fucilieri (8 ciascuno) dei rgt di linea 3° (col. Bartolomeo Aldanese), 5° (col. Francesco Cobianchi) e 7° (col. Cesare Anguissola), 4 cmp del btg pionieri del genio (t. col. Giuseppe Granata), dall'8^ direzione del genio (col. Emanuele De Nunzio) e dalla 13^ direzione artiglieria (col. Ferdinando Guillamat), più i reparti servizi, per una forza totale di 199 ufficiali e 4221 sottufficiali e soldati; numeri ridottisi, poi, da molte diserzioni. Questi uomini si ritrovavano rinchiusi dentro la fortezza dalla fine del luglio 1860, quando Clary aveva stipulato un accordo di non aggressione con Médici. La truppa era installata in un complesso di fortificazioni che occupava tutta la penisola dalla forma di falce. Il centro di tale sistema era costituito dalla cittadella, una fortezza pentagonale munita di solidi bastioni, e si completava con diverse opere tra loro collegate: dal forte San Salvatore, situato sulla punta estrema della penisola, al bastione Don Blasco, all'altro estremo. L'artiglieria di Messina non era migliore, naturalmente, di quella di Gaeta. Era costituita da soli cannoni ad anima liscia, anche se l'ottimo ufficiale d'artiglieria Patrizio Guillamat successivamente operò per aumentarne la gittata.
A comandare la piazzaforte era il mar. Gennaro Férgola, promosso a quel grado l'8 ottobre da Francesco II per la fedeltà e la fermezza con cui stava governando la difficile situazione. Egli era nato a Napoli nel 1793, cominciando la sua carriera di ufficiale d'artiglieria nell'esercito di Murat, col quale aveva partecipato alla campagna d'Italia del 1815; passato all'esercito borbonico, partecipò alle campagne di Sicilia del 1820 e 1848, venendo decorato in quest'ultima; il 9 agosto 1860, col grado di brigadiere, era stato posto al comando delle cittadelle di Messina, Augusta e Siracusa. Inflessibile ed onesto, Férgola era deciso a resistere fino all'ultimo, reprimendo ogni tentativo di ribellione e contestazione. Malgrado ciò, tra i reparti della guarnigione ci furono diverse diserzioni; le più clamorose tra queste furono quella del col. Ferdinando Guillamat, fuggito il 21 gennaio, e quella del t. col. Achille De Michele, comandante della brigata d'artiglieria, fuggito il 23 febbraio e messosi a disposizione di Cialdini, il quale, però, rifiutò la sua collaborazione e lo cacciò via, trattandolo da traditore. Il 27 novembre 1860 gli assedianti garibaldini erano stati sostituiti dalla brg piemontese Pistoia: circa 4000 uomini al comando del gen. Chiabrera. Questi, il 14 febbraio 1861, aveva notificato a Férgola la capitolazione di Gaeta, intimandogli, di conseguenza, la resa. Il comandante napoletano, ufficiale coraggioso e leale, aveva rifiutato, rimanendo in attesa degli ordini del Re, arrivati, come già detto, il 17 febbraio.
Pur avendo la resistenza di Messina solo un valore morale, fece andare su tutte le furie Cialdini, il quale partì per la Sicilia il 25 febbraio, accompagnato dal neopromosso generale d'artiglieria Valfré che allestì sette batterie di cannoni rigati e di mortai. A rinforzare gli assedianti giunsero pure quattro btg di bersaglieri ed un reparto del genio.
Cialdini, confermando il suo carattere brusco e irascibile, scrisse una lettera a Férgola, minacciandolo di fucilare, dopo la resa, un ufficiale della guarnigione per ogni abitante di Messina ucciso dall'artiglieria napoletana. Ma Férgola non fece tirare contro la città. Il 12 febbraio era giunto da Gaeta il maggiore svizzero Patrizio Guillamat, inviato dal Re per assumere l'incarico di capo di stato maggiore della piazzaforte. Il mar. Férgola gli diede anche l'incarico di comandante dell'artiglieria, che svolse con coraggio, capacità ed intraprendenza, riuscendo, come su scritto, ad aumentare la gittata dei cannoni con geniali accorgimenti tecnici. Per la sua opera si meritò la croce di diritto di S. Giorgio. La cittadella aprì il fuoco nel pomeriggio dell'8 marzo, provocando lievi danni alle batterie dei colli Noviziato e Montesanto; ma già la sera il fuoco fu rallentato, poiché i vecchi affusti si erano danneggiati con il rinculo. La mattina del 12 marzo tutti i pezzi napoletani ripresero il fuoco ed una sortita fu tentata dal bastione Don Blasco, sùbito respinta. A mezzogiorno Valfré scoprì tutte le batterie, sottoponendo i bastioni nemici ad un fuoco infernale. Il forte Don Blasco, mezzo distrutto, fu abbandonato dalla guarnigione che si rifugiò nella cittadella. Pur fallendo il previsto attacco delle navi di Persano, a causa del mare mosso, la cittadella fu ridotta in brutte condizioni dalle sole batterie di terra, subendo vari incendi. Nel tardo pomeriggio Férgola chiese una tregua per spegnere gli incendi, ma Cialdini rifiutò, pretendendo la resa senza condizioni. La sera, dopo lo svolgimento di un consiglio di difesa che si pronunciò per l'inutilità di un'ulteriore resistenza, Férgola accettò la resa. Tre giorni dopo, ormai troppo tardi, arrivò l'autorizzazione alla resa di Francesco II che, attraverso l'ambasciatore francese a Roma, aveva ottenuto che i patti della capitolazione di Gaeta valessero anche per Messina. Civitella: l'ultima bandiera
L'ultima bandiera delle Due Sicilie sventolava ancora su Civitella del Tronto, nell'alto Abruzzo. Sebbene strategicamente di scarso valore, tanto che il corpo di spedizione piemontese l'aveva aggirata, questa fortezza, quasi inaccessibile, era utilizzata dai partigiani borbonici come base operativa e logistica per le scorrerie verso Teramo. La guarnigione, comandata dal mag. Luigi Ascione, contava 450 uomini ed era formata da tre cmp del 3° btg di gendarmeria (245 uomini), una cmp del rgt Reali Veterani (92 uomini), una sezione di artiglieri litorali (56 uomini) e 57 soldati di vari corpi scioltisi negli Abruzzi. A settembre, sùbito dopo la partenza da Napoli, Francesco II aveva esautorato dal comando il mag. Ascione, dimostratosi troppo debole, e lo aveva sostituito col capitano della gendarmeria Giuseppe Giovane, promosso prima maggiore, poi, a gennaio, colonnello. Nell'ottobre del '60 la fortezza venne circondata dalle truppe del feroce e spietato gen. Ferdinando Pinelli, fucilatore di poveri villani. Ci furono scontri tra napoletani e piemontesi il 25 e il 29 novembre, poi il 20 dicembre, in occasione di tre sortite effettuate dalla fortezza. Rinforzato da nuove truppe e mezzi, il 30 dicembre Pinelli scagliò l'attacco, ma fu duramente respinto. Ai primi di febbraio Pinelli fu rimosso a causa di un suo durissimo proclama che indignò tutta l'Europa. Fu sostituito dal gen. Luigi Mezzocapo, uno dei migliori ufficiali sabàudi provenienti dall'Esercito Borbonico.
Dopo la resa di Gaeta, il 18 febbraio, questi propose la capitolazione alle stesse condizioni. Accettò la resa solo il col. Giovane, mentre la gran parte della guarnigione era di parere contrario; così Giovane fu costretto a fuggire con un centinaio di uomini, consegnandosi ai piemontesi. Il mag. Ascione, invece, ripreso il comando, pretendeva un ordine diretto del Sovrano. Mezzacapo, con più di 3000 uomini e cinque batterie di obici e mortai, scagliò l'attacco il 25 febbraio, respinto dai difensori che rotolavano bombe e macigni giù dal rìpido pendìo. Così si tornò a trattare, e Francesco II mandò da Roma il gen. Giovambattista Della Rocca, accompagnato da un ufficiale francese, con l'ordine di arrendersi, avendo ottenuto le stesse condizioni di Gaeta. A questo punto il mag. Ascione si convinse; ma c'era ancora un gruppo di soldati contrari alla resa, aizzati dal sergente Massinelli e dal frate Leonardo Zilli. Ascione, comunque, riuscì a far penetrare i piemontesi nella fortezza la mattina del 20 marzo. Questi fucilarono sùbito Massinelli e Zilli ed arrestarono 32 militari e molti cittadini che avevano partecipato alla difesa. Con la resa di Civitella del Tronto, dopo 200 giorni d'assedio, terminò la resistenza organizzata nelle Due Sicilie, e scompariva il regno dei Borbone di Napoli dopo 126 anni dalla fondazione. Tre giorni prima, il 17 marzo 1861, il parlamento di Torino aveva proclamato Vittorio Emanuele II re d'Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione. CONCLUSIONE Motivazioni della disfatta. La campagna del meridione d'Italia 1860-61 ebbe uno svolgimento e una conclusione inizialmente imprevedibili. Un esercito di circa 100.000 uomini e la marina più potente tra gli Stati italiani preunitari non erano riusciti a fermare un corpo di spedizione irregolare formato, in partenza, da un migliaio di uomini e cresciuto, fino al Volturno, raggiungendo il numero di 23.000 unità. Bisogna dire, però, che l'Esercito Meridionale aveva un forte nucleo di gente ben addestrata, circa 8-10.000 uomini provenienti dall'esercito piemontese o, comunque, réduci del '59. La causa della vittoria garibaldina non si basò solo sulle capacità belliche dell'Esercito Meridionale, o sulla debolezza dell'Esercito Borbonico, ma su manovre diplomatiche e sulla corruzione degli alti ufficiali e dei politici napoletani. L'unico episodio in cui l'alto comando borbonico spiegò tutte le sue forze per vincere fu sul Volturno, dove fu combattuta l'unica vera battaglia dell'intera campagna. In precedenza, in Sicilia e Calabria, era stato un susseguirsi di tradimenti, inettitudini e fiacchezze. I combattimenti si erano avuti per l'iniziativa personale di alcuni valorosi ufficiali, come il t. col. Sforza a Calatafimi, il col. von Mechel a Palermo, il col. Bosco a Milazzo e il col. Dusmet a Reggio, ma mai come frutto di un disegno strategico dell'alto comando. Ne erano nati scontri in cui non vi era mai stata una decisa volontà di vincere, se non nei soldati, e che non possono prendere il nome di battaglie per lo scarso numero di uomini impiegati e per la mancanza di azioni manovrate. I soldati napoletani, Ma come si erano battuti i soldati napoletani nella campagna del '60-61? In Sicilia e Calabria la prova dell'esercito era stata disastrosa, mentre la marina si era astenuta dal battersi, consegnandosi totalmente al nemico in settembre. Tuttavia bisogna distinguere. Un giornale umoristico francese pubblicò un fumetto nel quale si vedevano un soldato, un ufficiale e un generale borbonici; il primo aveva la testa da leone, il secondo d'asino e il terzo era completamente privo di testa. Ciò rifletteva l'opinione comune. I soldati si erano battuti con coraggio, e in diversi scontri non erano stati inferiori ai loro avversari. Alcuni ufficiali si erano acquistati una certa fama, come von Mechel a Palermo e Bosco a Milazzo. Ma questi due ottimi ufficiali erano stati fermati ad un passo dalla vittoria dal tradimento dei loro superiori diretti: il gen. Lanza e il gen. Clary. Comunque esisteva il problema di un ottimo comandante generale che Francesco II non riuscì a trovare, mentre a comandare l'esercito nemico c'era l'eccezionale Garibaldi, trascinatore di uomini e capace anche nel comando di grandi unità, come dimostrò sul Volturno. Dunque, gli ufficiali napoletani furono nel complesso nettamente inferiori a quelli garibaldini, sia per capacità tattico-strategiche, sia per carisma e tenacia. In contrasto con lo sfaldamento delle alte sfere ci fu l'estrema fedeltà della truppa che, se ben comandata, si batté con coraggio e tenacia, come accadde a Calatafimi, Palermo, Milazzo, ma soprattutto sul Volturno, dove solo la sfortuna, il grande intuito di Garibaldi e la coraggiosa resistenza dei garibaldini fermarono il soldato napoletano lanciato verso la vittoria. In Calabria i soldati linciarono il gen. Briganti, scoperto a familiarizzare con un ufficiale garibaldino. Quasi nessun sottufficiale o militare di truppa napoletano accettò di entrare nell'Esercito Meridionale, cercando di raggiungere i reparti borbonici che ancora si battevano. Di questo si rammaricò Garibaldi che aveva apprezzato le qualità del soldato napoletano. I briganti Con l'intervento piemontese, la fuga di Francesco II a Roma e la proclamazione del Regno d'Italia (17 marzo 1861), i soldati napoletani di tutte le classi, meno le quattro più giovani, vennero congedate. Degli ufficiali i più preferirono congedarsi, ma un buon numero fu ammesso nell'esercito nazionale. La massa dei sottufficiali e della truppa preferirono tornare a casa, dove andarono a costituire, in parte, la spina dorsale delle formazioni partigiane, continuando a combattere contro le truppe del Savoia. Così esplose una guerra civile durissima che insanguinò fino al 1870 tutto il meridione d'Italia. Da una parte c'era il neocostituito Regio Esercito Italiano, appoggiato dalla Guardia Nazionale (corpo di truppe territoriali di scarsa efficienza bellica). Dall'altra le bande di briganti, formate da ex militari borbonici, pastori e contadini affamati, criminali, sbandati e avventurieri stranieri. Poi, l'istituzione della leva da parte del governo italiano fornì costantemente dei rinforzi alle bande, costituiti dai numerosissimi renitenti e disertori. Infatti i giovani meridionali non erano abituati al servizio di leva di massa, e la mancanza di due braccia in una famiglia di contadini avrebbe potuto significare la fame.
Appoggiate dalla maggioranza della popolazione, soprattutto dalla parte più umile, e finanziate dal governo in esilio di Francesco II, circa 400 bande diedero filo da torcere alle truppe di Vittorio Emanuele II, con una efficace e feroce guerriglia che mise in pericolo l'esistenza stessa del Regno d'Italia. La reazione dell'Esercito Italiano fu cieca, crudele e indiscriminata, rendendo ancora più impopolare il governo di Torino. Circa 100-120000 bersaglieri, fanti, cavalleggeri, carabinieri e guardie nazionali, non solo combatterono contro i briganti, ma effettuarono rappresaglie contro i civili, fucilarono e arrestarono sospettati, bruciarono interi paesi, violentarono e torturarono. Il mondo contadino appoggiava in massa i briganti, nascondendo i ricercati, fornendo viveri e dando informazioni sui movimenti delle truppe. Per questo pagò un durissimo prezzo, con fucilati, arrestati, deportati, abitazioni bruciate, raccolti distrutti e prepotenze varie.
Le condizioni di vita della parte più umile della popolazione del sud erano notevolmente peggiorate, dato che con l'unità d'Italia le poche fabbriche del meridione avevano chiuso, mentre il governo di Torino avviava un sistema fiscale molto pesante, vendeva le terre demaniali (di pubblico utilizzo) e della chiesa ai latifondisti e chiamava alle armi i giovani. Questa fu la causa principale del rifiuto del popolino meridionale a riconoscere lo Stato italiano, che veniva identificato con i carabinieri, gli agenti del fisco e i baroni. Questi ultimi, meridionali anch'essi, erano i più accesi sostenitori di una dura repressione del brigantaggio, accontentati con zelo dagli ufficiali settentrionali che vedevano nel mondo contadino meridionale una realtà estranea ed incomprensibile. La nobiltà borbonica, infatti, aveva fatto presto a tradire la dinastia napoletana, accordandosi con i Savoia in cambio della conservazione del potere politico ed economico.
Per vincere la dura resistenza dei briganti, il parlamento italiano votò una legge estremamente anticostituzionale, la Pica (dal nome del deputato abruzzese che la propose), che prevedeva la competenza dei tribunali militari sui reati di brigantaggio, nonché il domicilio coatto, gli arresti senza mandato e la fucilazione per vari tipi di reati, anche non gravissimi. Furono condannate madri colpevoli di avere portato un po' di cibo ai figli latitanti nelle campagne; furono fucilati ragazzi, donne, vecchi, preti e frati, oltre agli stessi briganti. L'operato dei tribunali militari fece inorridire anche molti unitari e piemontesi. Tutto in nome della libertà, perché fosse sradicato il ricordo del Borbone liberticida. La prima fase del brigantaggio, 1860-65, fu caratterizzata da una maggioranza di componenti politiche e sociali. Nella seconda fase, 1865-70, prevalsero il banditismo e la rivolta anarcoide, senza precisi obiettivi politici. Col passare degli anni, insomma, il brigantaggio divenne sempre più "malandrinaggio".
Nel 1870 l'apparato repressivo unitario riuscì a smantellare tutte le bande, grazie anche alla conquista dello Stato Pontificio che era servito come luogo di rifugio ai briganti inseguiti. Il prezzo della sconfitta del brigantaggio fu enorme: diverse migliaia furono i caduti fra le fila dell'esercito, della Guardia Nazionale e delle squadriglie di irregolari. Circa 12000 (ma la cifra non è certa) furono i caduti ed i fucilati tra i ribelli. Impossibile stabilire il numero dei civili assassinati dai briganti e fucilati dalle truppe italiane. Molto alto il numero degli arrestati e degli inviati a domicilio coatto. Enormi furono anche i danni materiali, sia per il solo sud che sprofondò nella miseria più nera, diventando la zavorra d'Italia, sia per l'intero Regno italiano che dovette impiegare notevoli risorse nella repressione. Il prezzo più alto fu, però, quello morale e civile. Gli strati più deboli della popolazione impararono a vedere nello Stato il principale nemico. I Sovrani in esilio Intanto, Francesco II e Maria Sofia si erano trasferiti a palazzo Farnese, di proprietà dei Borbone, e da lì continuarono la loro attività di organizzazione delle bande legittimiste, con la speranza di riconquistare il Regno. Ma col passare degli anni il Re svolse questa attività con sempre minore convinzione e con un patrimonio che andava sempre più a ridursi per le ingenti cifre spese per finanziare le bande. Una grande gioia allietò la triste permanenza romana dei Sovrani il 24 dicembre 1869: la nascita della prima figlia, Maria Cristina Pia. Pur essendoci la delusione sul sesso (una femmina non poteva ereditare il trono), il lieto evento fece rinascere la speranza sulla nascita di un erede. Ma la speranza fu presto soffocata dalla prematura morte della bambina il 28 marzo 1870. Fu l'unica figlia. Francesco e Maria Sofia ne rimasero sconvolti e, prima dell'entrata delle truppe italiane a Roma (20 settembre 1870), partirono, girovagando per l'Europa e finendo per stabilirsi a Parigi. Francesco II, l'ultimo Re di Napoli, morì ad Arco di Trento (territorio dell'Impero Austro-ungarico), in Gardesana, il 27 dicembre 1894, all'età di 58 anni. Maria Sofia gli sopravvisse trentun anni, morendo il 18 gennaio 1925, all'età di 83 anni. Su Francesco II di Borbone non è facile dare una valutazione, dato che non ebbe il tempo di svolgere una politica personale, regnando solo un anno, dal 22 maggio 1859 al 6 settembre 1860. Tìmido, schivo e politicamente impreparato, Francesco fece molti errori, ma, sostenuto dalla coraggiosa consorte Maria Sofia, riuscì a cadere con dignità, riunendo attorno a sé la parte più fedele dell'esercito e combattendo per l'indipendenza delle Due Sicilie fino a Gaeta, l'ultimo lembo di terra del suo Regno.
Così la storia del Regno delle Due Sicilie si chiuse con un esempio di dignità e coraggio dei suoi ultimi Sovrani. Illuminato dal sacrificio di questa coppia reale, non avrebbe potuto scomparire in modo migliore dalla scena politica europea. |