di Guido Mario Geremia Archiviata la turbolenta parentesi napoleonica, con la restaurazione delle vecchie dinastie sancita dal congresso di Vienna del 1815, la penisola italiana si era trovata ripartita in molteplici Stati indipendenti, anche se sotto l'attenta sorveglianza dell'Impero austriaco. Tra gli Stati indipendenti emergevano per dimensioni il Regno delle Due Sicilie, il Regno di Sardegna, lo Stato Pontificio ed il Granducato di Toscana; ma di questi solo i primi due sarebbero emersi politicamente sulla scena nazionale. Molteplici studi storico-politici sono stati condotti su entrambi gli Stati e sulle loro vicende militari; molti meno, e soprattutto per il Regno delle Due Sicilie, sono stati gli studi economici e principalmente quelli che si sono occupati del sistema tributario dell'ultimo periodo del Regno. Tale noncuranza va forse ricercata nell'attenzione preminente generata dalle vicende politico militari e forse anche nell'interesse degli studiosi per il sistema economico nel suo complesso, piuttosto che per sua diramazione. 2. Il Sistema Economico del Regno delle Due Sicilie alla vigilia dell'Unità Il sistema economico del Regno delle Due Sicilie era basato, analogamente a quello degli altri Stati italiani, sul settore primario. Il settore agricolo era infatti la fonte più importante e in talune zone l'unica fonte di lavoro e di ricchezza, il settore agricolo occupava l'83% della forza lavoro del Regno. Poichè il dato è calcolato con il riferimento all'ultima parte del periodo di studio, dopo che l'economia meridionale si era sviluppata anche industrialmente e commercialmente, si può ipotizzare la preminenza e l'importanza fondamentale del settore primario soprattutto negli anni venti; il settore della agricoltura, inoltre, dava sostentamento anche a gran parte della popolazione non attiva che, rappresentava, nel 1859, il 52% della popolazione totale. Minore importanza rivestivano il settore industriale (6%) e dell'artigianato (6%), seguiti dai servizi e dal commercio (2%), quest'ultimo superato anche dal numero (stima prudenziale) di disoccupati (3%) (1). L'agricoltura del Regno si era specializzata nella produzione di cereali, olio, vino, canapa, robbia, seta e lana. Tra questi prodotti, olio e grano rappresentavano circa la metà delle esportazioni totali. Tuttavia, proprio tale settore negli ultimi anni stava vivendo una crisi, a causa della caduta dei prezzi agricoli per effetto della maggiore offerta di derrate agricole e dalla sempre maggiore competitività dei vicini paesi mediterranei. La scarsità di strade di collegamento con i principali mercati limitava in molti casi la produzione all'autoconsumo, impedendo così l'ammodernamento tecnologico e guadagni di produttività, con effetti deleteri soprattutto per la produzione cerealicola. La coltivazione delle olive, la produzione e l'esportazione dell'olio avevano superato quella del grano; l'olio era di fatto l'unico prodotto pregiato sebbene i processi di preparazione fossero arcaici ed inadeguati, dato il frequente ricorso a frantoi in pietra. A bilanciare in parte questo svantaggio qualitativo vi era il fattore quantità; il regno poteva, infatti, contare su di un raccolto all'anno, contro i 3 e 4 anni dei raccolti dei paesi concorrenti, dato che i raccolti biennali della Puglia e delle Calabrie si alternavano contro quelli triennali o quadriennali dei paesi concorrenti. La produzione di olive era ovunque ben distribuita ma la commercializzazione del prodotto finito era limitata ancora una volta dalla mancanza di strade e dall'esiguità dei porti. In tal senso le esportazioni erano concentrate principalmente nei porti della Puglia da dove l'olio si dirigeva verso Inghilterra, Francia e le Americhe. Anche il vino era prodotto ovunque nel territorio; tuttavia, contrariamente all'olio, la produzione di vino era destinata principalmente all'autoconsumo, dato che la commercializzazione era ostacolata dal prezzo deliberatamente basso fissato dalle autorità governative. Di fronte a bassi prezzi di vendita era pertanto inutile cercare di commerciare su maggiori distanze, in quanto i costi di trasporto avrebbero annullato il possibile guadagno. D'importanza maggiore era il commercio della seta, la cui produzione era concentrata, per ragioni storiche e di tradizione, in Calabria, da dove veniva in gran parte esportata all'estero, attesa la mancanza di manifatture idonee alla lavorazione della materia prima. La produzione di lana, invece, si concentrava nelle zone appenniniche dell'Abruzzo ed era destinata quasi interamente al consumo interno. Il settore industriale ed artigiano come si è detto impiegava circa il 12% della forza lavoro occupata del Regno. L'avvio della fase di sviluppo industriale vera e propria va individuata nel periodo che intercorre tra la fine del diciottesimo secolo ed il primo ventennio del diciannovesimo. Questo decollo, iniziato quindi nel periodo di dominazione francese, fu reso possibile dal tramonto delle ultime vestigia di feudalità e dall'azione dei regnanti francesi. Favorite dal blocco continentale, si stabilirono nel Regno numerose iniziative industriali, in particolare nei settori tessili e della chimica che progredirono anche dopo la restaurazione del 1815 ed il ritorno dei Borbone. Tuttavia i tumulti, iniziati in Sicilia nel 1820, propagatisi nel resto del Regno, e proseguiti nel corso dell'anno successivo, arrestarono il precoce sviluppo industriale non tanto per il clima di incertezza susseguito quanto per la distruzione materiale delle manifatture. Una ripresa nell'iniziativa industriale si ebbe solo con l'avvento del nuovo re Ferdinando II, nel 1830. Questi portò infatti ad un ammodernamento e ad un riordinamento delle strutture statali, nonchè alla rinascita della vita economica e civile. Molti imprenditori stranieri, provenienti in gran parte da Svizzera, Francia ed Inghilterra, si stabilirono nel Regno, costituendo industrie tessili e chimiche; in ultima istanza metalmeccaniche e meccaniche. L'industria chimica, in particolare, era dedita alla produzione degli acidi e coloranti necessari all'industria tessile. L'arrivo di imprenditori esteri non fu del tutto casuale, ma piuttosto il frutto di una strategia di politica economica, elaborata dall'allora ministro dell'economia De' Medici, che puntò a favorire l'afflusso di capitali stranieri attraverso il miglioramento delle condizioni economiche del Regno, con una politica di bilancio più austera, un sistema di dazi protettivi più favorevoli alle industrie nazionali. Tali elementi si aggiunsero alla preesistente abbondanza di mano d'opera a basso costo ed all'ampiezza potenziale di un mercato formato da sette milioni di abitanti. Il sistema dei dazi introdotti dal De' Medici, nel 1823, era originato dalla combinazione di due fattori. Da un lato la crisi che aveva coinvolto il settore primario dell'economia non più in grado di rispondere con adeguatezza agli aumentati bisogni fiscali del governo, dall'altro la crisi del settore industriale, che sviluppatosi durante l'occupazione francese era poi declinato a causa della distruzione dei macchinari (1820-1821) e della concorrenza dei manufatti di provenienza inglese e francese. Il programma di De' Medici operò, tuttavia, solo dal lato industriale trascurando l'incremento della produttività agricola. Tale strategia probabilmente fu una conseguenza dalla caduta dei prezzi agricoli che spinse il governo a cercare di trovare nuove fonti di ricchezza alternative all'agricoltura. La flotta napoletana, in particolare, si era trovata nel 1818 in condizioni svantaggiose, allorquando il nuovo governo restaurato aveva concesso all'Inghilterra, alla Francia e alla Spagna un privilegio del 10%, come sconto sui diritti doganali per le merci introdotte dai legni di questi paesi. Solo nel 1823, queste concessioni vennero estese alle navi mercantili battenti bandiera napoletana. La tariffa del 1823 inoltre stimolava la costruzione di navi nazionali, per via degli incentivi concessi dal governo (2 ducati a tonnellata per le navi superiori alle 200 tonnellate, 3 ducati per quelle con la chiglia in rame) Ciò portò in pochi anni al raddoppio del tonnellaggio totale della flotta mercantile napoletana, anche se gran parte delle nuove imbarcazioni fu adibito alla pesca ed al commercio costiero su brevi distanze. Dopo la morte di De' Medici, l'entità degli investimenti si ridusse fortemente, non solo perchè l'espansione delle industrie fondate negli anni precedenti aveva in parte assorbito la domanda del mercato, ma anche perchè la maggiore austerità nelle spese di governo introdotta da Ferdinando II aveva ridotto i mezzi finanziari a disposizione per sussidi all'industria nascente. La strategia industriale degli anni successivi passò dall'iniziale politica di sussidio alle industrie tessili e chimiche ad una, aiutata dalle continue commesse governative, verso industrie a maggiore intensità di capitale quali le ferrovie, le industrie meccaniche e metalmeccaniche ed il potenziamento della flotta a vapore. In questa fase, che va dal 1840 alla fine del regno, l'industria del Sud viveva grazie al continuo e vigile intervento statale che assieme alle tariffe protezionistiche sull'acciaio (tra le più alte in Europa), mettevano al riparo la produzione delle industrie nazionali non solo dalla concorrenza di Francia ed Inghilterra ma anche dai prodotti delle industrie degli altri Stati Italiani(3). Per quanto riguarda il settore ferroviario, al Regno spetta il primato italiano della costruzione di una linea ferrata. Il tratto Napoli-Portici (8 km) fu inaugurato il 4 ottobre 1839; nel 1859 i tratti di strada ferrata erano saliti a 124 km, la maggior parte dei quali univa Napoli con Caserta e con la guarnigione militare di Nola. Per favorire la costruzione delle ferrovie era stato concesso, nei primi anni venti, alla compagnia francese, cui faceva capo Armand Bayard, il diritto di importare tutti i materiali che sarebbero stati necessari senza dover pagare alcun diritto alle dogane. Allo stesso tempo non venne applicata alcuna imposta sui proventi della ferrovia. La costruzione delle ferrovie rallentò dopo il 1840, in seguito alle difficoltà finanziarie dell'imprenditore francese fino a che nel 1844 fu intrapresa la costruzione della linea Napoli Nocera. Gran parte del traffico ferroviario era costituito da passeggeri, tra cui era compreso il trasporto di militari; quasi del tutto residuale era invece il traffico merci. Tornando al settore industriale, il sistema produttivo del Regno delle Due Sicilie era costituito precedentemente da imprese di medie e piccole dimensioni; tra queste svettava per il numero di occupati quella delle costruzioni, seguita da quella tessile e da quella alimentare. L'ubicazione territoriale delle imprese era dettata dalla presenza di materie prime disponibili in loco, da motivi di antica tradizione ed esperienza, dalla vicinanza di grandi mercati con forte densità di popolazione, di porti idonei all'esportazione o di sedi di Ministeri. Per questo motivo l'industria siderurgica e metalmeccanica (quella a maggiore valore aggiunto), che come si è detto durante gli ultimi anni di regno era il settore più prestigioso ed oggetto di maggiori cure, si collocava in gran parte in Campania e nel basso Lazio. Tale industria era specializzata nella fornitura di materiali ferroviari e nelle forniture all'esercito ed alla marina militare e mercantile. L'industria tessile si suddivideva tra il comparto della seta, quello del cotone e quello della lana. L'ubicazione delle industrie era dovuta sia alla vicinanza di centri di consumo (Campania) sia alla vicinanza di zone di produzione della materia prima (Abruzzo e Puglia), specialmente per quanto riguarda la lana. L'industria della seta era invece ubicata in gran parte in Calabria per ragioni di tradizione e di esperienza ed era basata su molte filande e tessiture di piccole e medie dimensioni specializzate nella lavorazione della seta grezza. La produzione dell'industria cotoniera, ubicata in gran parte in Campania, era invece concentrata su imprese di maggiori dimensioni a maggiore intensit? di capitale. Di antica tradizione era invece l'industria cartaria. Tale settore si localizzava nel salernitano e nella zona dell'Aquila in quanto le cartiere necessitavano di forza motrice fornita dai numerosi corsi d'acqua presenti nelle predette zone. Limitata era la produzione dell'industria del vetro, caratterizzata da una miriade di piccole imprese localizzate un po' ovunque sul territorio. Il numero di impiegati in questo settore era abbastanza basso. Maggiori lavoratori erano invece impiegati nell'industria estrattiva che si occupava principalmente di raccogliere il sale sia marino che di miniera (in Puglia ed in Calabria) e lo zolfo (Sicilia). Apparteneva a questo aggregato anche la coltivazione del tabacco. Particolarmente numerosi erano infine i lavoratori impiegati nell'impresa delle costruzioni; il dato aggregato relativo a tale industria comprendeva i lavoratori impiegati nelle imprese fornitrici di materiali da costruzione sia in quelle di costruzione vere e proprie; l'intera industria era dislocata uniformemente su tutto il territorio attraverso una miriade di piccole imprese con pochi dipendenti. 3. L'Amministrazione finanziaria nell'ultimo periodo borbonico; un breve excursus storico L'Amministrazione finanziaria del Regno di Napoli nell'ultimo periodo borbonico, era regolata da disposizioni che risalivano in gran parte al decennio successivo alla Restaurazione del 1815. Il sistema tributario era poggiato principalmente sul connubio tra Imposte Dirette e Imposte Indirette sui consumi; queste ultime fondate quasi esclusivamente sui Dazi. Minore importanza avevano le imposte indirette sui trasferimenti di ricchezza, quali l'imposta di registro e di bollo. Prima della restaurazione, la legge 8 agosto 1806 emanata durante il regno di Giuseppe Bonaparte aveva soppresso tutte le contribuzioni dirette esistenti fino ad allora (sulle persone e sui focolari), introducendo una contribuzione fondiaria a somma fissa che risparmiava solo le attività agricole di interesse strategico. Le altre imposte indirette erano raggruppate in quattro categorie: - Imposte doganali di frontiera; - Gabelle o imposte di consumo; - Monopolio sul sale; - Diritti Riuniti. Questi ultimi erano costituiti da tutti i proventi derivanti da proprietà statali e dalle lotterie di Stato. Nel 1815, in seguito alla restaurazione, il Cavalier De' Medici operò una prima modifica del sistema tributario accorpando le varie imposte in 5 scaglioni: - Contribuzione Fondiaria; - Imposte indirette sui consumi (dogane, monopoli vari); - Imposte di Registro e di Bollo; - Lotterie; - Poste. Nel 1823, sempre ad opera del De' Medici infatti, fu necessario correggere il sistema fiscale delineato dalla riforma del 1818, a causa dei maggiori costi ereditati negli ultimi anni e soprattutto di quelli causati dalla rivoluzione del 1820 e dal successivo intervento militare posto in essere dalle truppe austriache. In seguito a questi avvenimenti, fu necessario riorganizzare e riordinare l'intero esercito borbonico (con costo all'incirca di 80 milioni di ducati) e mantenere un corpo di spedizione austriaco che era dislocato nel territorio del Regno. Tutto ciò comportò un flusso di nuovi interessi, sul debito emesso, di 4 milioni di ducati all'anno. Il nuovo regolamento della Tesoreria generale venne pubblicato il 15 dicembre 1823 e mirava al duplice obiettivo di incrementare le entrate e diminuire le spese pubbliche. Per quanto riguarda il primo, si sarebbe cercato di raggiungerlo attraverso una maggiore redditività dei cespiti dello Stato; il secondo sarebbe stato reso possibile mediante un maggior rigore di spesa nei confronti dei vari ministeri e l'accentramento dei conti delle singole amministrazioni finanziarie nella cassa centrale dello Stato. In base a questo sistema, la cassa centrale avrebbe provveduto al pagamento delle singole spese sulla base degli specifici documenti giustificativi; in questo modo si sarebbe cercato di limitare la discrezionalità nelle spese da parte delle singole amministrazioni finanziarie del regno. Tale decreto introduceva anche un nuovo sistema esattoriale denominato sistema delle Regie. Il decreto prevedeva la concessione in appalto, dietro corresponsione al tesoro di un canone fisso annuo, dei diritti di riscossione per quanto riguarda la vendita dei generi di monopolio (sali e tabacchi). Successivamente tale modello fu applicato anche alle dogane. L'11 agosto 1823 veniva introdotto anche un nuovo sistema di tariffe che rispetto al decreto del 1818, creava una formidabile barriera protezionistica nei confronti delle merci dei principali Paesi concorrenti e limitava notevolmente la possibilità di esportazione dei prodotti del regno. Nel 1845 e nel 1846 furono invece emanati nuovi decreti in ambito doganale che abbassarono le imposte su vari generi di consumo, per poi giungere, attraverso fasi successive ad una liberalizzazione quasi totale con i decreti della primavera del 1860, resi peraltro inefficaci dalla caduta del Regno delle Due Sicilie. 4. Il sistema tributario nel Regno delle Due Sicilie 4.1 L'imposizione diretta e la contribuzione fondiaria L'imposizione diretta era costituita essenzialmente dalla contribuzione fondiaria. Quest'ultima era costituita da una serie di balzelli che gravavano su terreni, anche se incolti, laghi, canali di navigazione, cave, miniere e rendite annue superiori ai 100 ducati. La tassa gravava sul prodotto netto determinato attraverso rendite catastali, nel caso dei terreni; mediante il canone di affitto diminuito di una percentuale per le case. La sua importanza derivava proprio dal fatto che gran parte della ricchezza creata nel Regno era originata dall'agricoltura, che come si è scritto occupava il maggior numero di persone. Il sistema fondiario aveva subito una radicale trasformazione nel 1806, in seguito all'abolizione, da parte di Gioacchino Murat, del sistema feudale con i decreti del 2 agosto e del 1? settembre. Negli anni successivi alla restaurazione, si tentò inoltre di colpire il latifondo riordinando da un lato il sistema dei beni demaniali ed ecclesiastici, dall'altro eliminando il sistema dei diritti promiscui. In genere i maggiori risultati si ebbero sul fronte dei beni demaniali, essendo il regime ecclesiastico costituito da terreni incolti ed abbandonati, di scarso interesse e di bassa produttività, la cui alienazione richiedeva anche una approvazione regia. I provvedimenti che si susseguirono tra il 1817 ed il 1847 ebbero come risultato la ripartizione in piccole quote di migliaia di ettari di terreni; ciò però non permise un miglioramento delle condizioni degli assegnatari a causa della caduta dei prezzi dei beni agricoli, della cronica mancanza dei capitali necessari per aumentare la produttività dei fondi, delle difficoltà naturali e logistiche, nonchè per una politica doganale che vietava l'export di cereali e fissava il prezzo degli stessi a livelli molto bassi. Da ciò derivava che: nelle annate con copiosi raccolti, avveniva una repentina caduta di prezzi dei cereali per effetto dell'eccesso di offerta che non poteva peraltro trovare sbocco sui mercati esteri: nelle annate meno copiose, risultava impossibile conseguire profitti superiori a causa delle politiche di prezzo imposte dai regnanti. Il sistema tributario napoleonico era ordinato in maniera abbastanza semplice e la parte principale del gettito, nei domini continentali, derivava dall'imposta fondiaria istituita con le leggi 8 agosto ed 8 novembre del 1806, che avevano abolito numerosissimi tributi diretti gravanti sul popolo. In particolare, la nuova imposta fondiaria sostituiva 22 imposte speciali e forniva nel 1820 circa il 34% delle entrate complessive del Regno e colpiva indistintamente tutte le proprietà fondiarie, i fabbricati e il reddito dei capitali investiti nel commercio se superiori ai 100 ducati. Questa imposta unica era applicata in base a un contingente principale fissato con decreto del 10 agosto 1815 e pari ad una somma prefissata dall'amministrazione che veniva di volta in volta aggiornata. Il contingente prefissato veniva poi ripartito in base a disposizioni del re nell'ambito di 15 province e all'interno di queste, in 53 distretti sulla base delle rendite catastali calcolate sul reddito netto derivante dal singolo fondo. I 53 distretti erano a loro volta ripartiti in 300 circondari, suddivisi in 1.784 comuni. La mancanza di esatti catasti aveva però reso difficile ed arbitraria la ripartizione del tributo; analoga difficoltà derivava dalla determinazione del reddito del fondo. L'adozione del criterio del reddito catastale determinava inoltre problemi di equità. Il sistema catastale infatti, basandosi su un valore medio ordinario di reddito, mal si conciliava con i princìpi di personalizzazione del tributo in base al quale il prelievo fiscale dovrebbe essere commisurato all'effettiva capacità contributiva del soggetto. In alcuni casi, come reddito era stato preso il valore medio degli affitti terrieri del decennio 1796-1806 nel quale i prezzi dei prodotti agricoli erano stati più alti rispetto al quelli medi del periodo e quindi poco idonei per la determinazione della rendita, che risultò, in vari casi, estremamente oppressiva. Facevano parte della contribuzione fondiaria diretta, così come fissata dal decreto napoleonico, anche altre due tasse: la tassa personale pari a 950.000 ducati che colpiva tutti indipendentemente dal ceto e la tassa di patente, che gravava sulle industrie ed era fissata in 400.000 ducati l'anno. In questo senso con la tassa personale si cercava di colpire la maggiore capacità di reddito. Il problema delle rendite si presentò per tutto il regno napoleonico e venne in parte risolto nel 1817 allorquando, in seguito alla "mini riforma" borbonica, fu stabilito che il tributo calcolato sulla base della rendita accertata avrebbe potuto essere modificato entro un termine perentorio. La riforma borbonica inoltre abolì l'imposta personale e quella sulle patenti introducendo, però, in sostituzione una serie di imposte addizionali, basate sul contingente principale, a favore degli enti locali, quali "l'addizionale per le spese fisse delle province", che era fissata in un massimo di 5 grani a ducato e "l'addizionale per le spese variabili delle province", fissata in massimo 3 grani a ducato. A favore delle casse statali o meglio della Cassa di ammortizzazione del debito pubblico andava l'addizionale, fissata in ragione di 10 grani a ducato (4). Questa cassa provvedeva al pagamento degli interessi, all'estinzione e al rimborso dei debiti, anche esteri, dello Stato, usufruendo di fondi stanziati attraverso un decreto annuale dal Governo. Un'ulteriore addizionale era il "ventesimo comunale", istituito con decreto del 9 luglio 1812, e quindi ancora durante la dominazione francese, che veniva destinata al Ministero degli Interni, per esigenze pubbliche delle locali comunità, quali il pagamento dei giudici e le spese delle carceri e dei manicomi. I proventi derivavano dalla corresponsione alla Tesoreria di un ventesimo dei dazi percepiti dai comuni (di qui la parola "ventesimo"). Fissata inizialmente con il decreto n. 57 del 10 agosto 1816 nella somma di 6.150.000 ducati la contribuzione fondiaria principale rimase a questo livello sino alla caduta del regno. All'interno di questa cifra poteva, in ogni caso, cambiare la somma richiesta alle singole province; numerosi furono anche i casi in cui, in occasione di particolari avvenimenti infausti, veniva diminuita la quota spettante all'erario. A queste somme andavano poi aggiunte tutte le addizionali locali del 3 e del 5% e il 10% per il debito pubblico, pertanto la contribuzione generale arrivava a sfiorare la somma dei 7 milioni e mezzo di ducati. Un'imposta ibrida (praticamente una vera e propria riduzione dello stipendio) da taluni autori classificata nell'ambito delle imposte dirette era la ritenuta del 10% sullo stipendio degli impiegati. Questa imposta fu istituita nel 1827; dapprima fu introdotta con carattere temporaneo, poi a causa del progressivo aggravamento delle condizioni della finanza pubblica, divenne definitiva. 4.2 Imposte Indirette: Dazi Doganali L'ordinamento doganale del Regno era improntato, come del resto per la contribuzione fondiaria, sul sistema amministrativo creato durante il regno napoleonico, dalla legge 24 febbraio 1809; con tale provvedimento era, infatti, stata istituita l'Amministrazione generale dei dazi indiretti, competente in materia di dazi doganali, sali, diritti sulla carta bollata, diritti di lotteria ed altri tributi indiretti minori. Tutto il sistema doganale italiano peraltro era stato organizzato in modo da favorire le importazioni di prodotti industriali francesi e allo stesso tempo impedire l'esportazione dei prodotti italiani in Francia. L'amministrazione era divisa in quattro sezioni: la prima che si occupava della gestione delle dogane esterne, cioè della riscossione dei proventi percepiti alle frontiere di terra e di mare; la seconda era costituita dai dazi di consumo, la terza dal monopolio sui sali e la quarta, residuale, sui diritti rimanenti. In base al riordino deliberato dai napoleonici, tutti i dazi dovevano essere riscossi direttamente dall'Amministrazione fiscale e non più da feudatari o da privati appaltatori come invece accadeva durante il vecchio regno borbonico. Erano poi soggette a dazio solo le merci contemplate espressamente dalla tariffa. La tariffa doganale prevista era di due tipi: specifica o ad valorem; la prima consistente in un ammontare fisso per ogni unità di peso del bene (utilizzando una tariffa delle tare che stabiliva il criterio per la determinazione del peso netto), la seconda commisurata sul valore della merce. Vi era un gran numero di dogane attive sul territorio ma nella pratica la gran parte del commercio estero veniva assorbita dalle dogane di Napoli, Lecce, Bari, Reggio Calabria, Chieti, Foggia, Catanzaro e Cosenza. Emerge come la piazza doganale di Napoli fosse di gran lunga la più importante dell'intero regno, rappresentando da sola quasi il 76% del gettito totale. La stessa piazza era attiva soprattutto nella riscossione dei diritti doganali sulle importazioni (quasi la totalità del gettito); per quanto riguarda i diritti sulle esportazioni, la gran parte dei dazi veniva significativamente riscossa dalle dogane di Lecce, Bari e Reggio Calabria. Come si è già detto nelle prime pagine, i principali beni oggetto di esportazione erano i cereali e l'olio; il dato relativo ai porti pugliesi ? indice quindi del fatto che i prodotti agricoli di queste regioni fossero destinati all'export; il dato relativo al porto di Reggio Calabria si riferisce invece, probabilmente ai proventi derivanti dall'esportazione di seta grezza di cui la Calabria era il principale produttore. La fine delle guerre napoleoniche aveva messo le industrie del Regno di Napoli di fronte al problema di sostenere la concorrenza straniera; la riforma del 1818 (decreto 20 aprile 1818) introdusse una nuova tariffa doganale; il dazio massimo fu fissato ad un livello del 25-30% e colpiva solo pochissime merci; le merci non previste dalla tariffa erano gravate dal dazio del 3%, se riferite a merci grezze, del 10% se riferite a merci lavorate. In pratica, le nuove tariffe favorivano l'importazione delle merci straniere tassandole con un dazio di pochi grani e con un diritto proporzionale pari a 20 grani ogni 100 ducati di valore della merce. In media la tariffa era del 15-20% e concedeva riduzioni sui dazi doganali per tutte le merci introdotte da Inghilterra, Spagna e Francia su navi battenti loro bandiera. Furono sottoposte a dazio d'uscita, piuttosto pesante, invece le esportazioni di prodotti di lino, di seta, di lana, la canapa, il legno l'olio e le pelli. Le altre merci non contemplate dal decreto erano colpite con dazi del 3%, se merci grezze, e del 10%, se lavorate. Questi criteri piuttosto liberistici portarono ad un notevole peggioramento del saldo della bilancia commerciale, perchè se da un lato non scoraggiavano la crescita delle importazioni, dall'altro impedivano notevolmente l'aumento delle esportazioni dei prodotti tradizionali quali pelli, grani e tessile. Produzioni in cui il regno godeva di buoni vantaggi comparati e le cui limitazioni commerciali, di conseguenza, impedivano l'evoluzione in senso industriale dell'economia. Nel 1823 e nel 1824 (decreti 15 dicembre 1823 e 30 novembre 1824) vennero emanati due decreti che spingevano il regno verso una politica di più marcato stampo protezionistico e di maggiori agevolazioni alle esportazioni. Infatti, da un lato venivano abolite tutte le tariffe sulle esportazione di beni, eccetto quelli necessari per la produzione di beni lavorati da parte delle industrie interne (solo 49 categorie contro le precedenti 529), e dall'altro diminuendo il dazio sulle merci e sulle materie prime necessarie alle manifatture nazionali. Veniva poi aumentato il dazio sulle merci lavorate non contemplate nel decreto che saliva dal precedente 10% al 30%; per le merci grezze non contemplate invece rimaneva fissato al precedente 3%. Il dazio veniva ridotto del 10% se il trasporto avveniva con navi battenti bandiera nazionale. In generale, i due decreti del 1823 e del 1824 vollero agevolare al massimo l'esportazione di merci di produzione interna e di diminuire al contempo i dazi sulle materie prime necessarie alle manifatture nazionali; gli stessi decreti portarono alla quasi abolizione del sistema dei dazi ad valorem ed all'abrogazione della precedente pratica delle tare (che stabiliva dei criteri per la determinazione del peso netto) mediante l'istituzione di dazi specifici basati sul peso lordo. Complessivamente, i beni compresi in questi due decreti erano rispettivamente 239, per l'export, e 836, per l'import. In termini generici la politica dettata era volta ad erigere una forte barriera protezionistica,è con un incremento del gettito delle dogane dal 1822 al 1823 del 63%. Il regime protezionistico rimase in vigore fino al 1845, quando fu emanato il decreto 18 agosto 1845, seguito dal decreto 9 marzo 1846, che riformò soprattutto il settore delle importazioni; tale provvedimento aboliva la tassa di consumo sui generi coloniali (caffè, cacao, cannella, pepe, zucchero in polvere ed in pani, aringhe) con una diminuzione dei dazi relativi che variava dal 31 al 68%. Lo stesso decreto, riducendo il valore delle rendite doganali, rese non più profittevole il sistema delle Regie che fu quindi abolito. Le modifiche del decreto del 1846 si estesero a 110 voci semplificando il sistema; molti articoli vennero raggruppati sotto una unica voce e le riduzioni si aggirarono tra il 15 ed il 60%. Venne abolita anche l'agevolazione del 10% di cui godevano le merci straniere introdotte sulle navi inglesi e francesi che risaliva alla riforma del 1818. L'effetto economico di tali diminuzioni, tuttavia, è molto difficile da stimare in quanto mancano sicure notizie circa i prezzi dei singoli beni all'epoca della riforma; questo in quanto il prezzo praticato alla dogana non necessariamente era quello di mercato. Inoltre non è possibile determinare con sicurezza l'incremento dei prezzi al consumo, avvenuto negli anni intercorrenti tra i citati decreti, per cui si può solo riportare l'opinione di alcuni autori che ritengono che la riduzione dei dazi ebbe un impatto economico più apparente che reale e che tali provvedimenti riportarono la tariffa ai livelli del 1824. In questo periodo furono poi stipulati numerosi ed importanti trattati bilaterali. I paesi che beneficiarono principalmente di queste convenzioni furono la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna, il Belgio, l'Olanda, l'unione doganale tedesca e gli Stati Uniti. Questi trattati prevedevano generalmente una riduzione dei dazi sulle merci più importanti e di maggior commercializzazione, purchè ciò avvenisse contestualmente al rispetto di due condizioni vincolanti: - che fosse garantita la reciprocità del trattamento, - che fosse applicata la clausola della nazione più favorita. Ai decreti del 1849, seguirono ulteriori ribassi nello stesso anno ed in quelli successivi, per cui negli anni dal 1850 al 1860 la tariffa napoletana si aggirò tra il 10 ed il 12% in media toccando la punta pi? alta per l'acciaio (5). Nell'ottobre 1859 (e quindi nel primo anno di regno di Francesco II), il re istituì una commissione con l'incarico di procedere ad una revisione delle tariffe doganali in vigore. Tale revisione fu apportata con i decreti 1? marzo 1860, 15 maggio 1860 e 15 maggio 1860. Con tali decreti furono operate riduzioni oscillanti tra il 25 ed il 70% sui prodotti chimici per l'industria della concia, del vetro, delle tinture e dei metalli grezzi, su prodotti medicinali e sui gi? citati generi coloniali, quindi, principalmente, su generi di consumo e materie prime necessarie all'industria nazionale. Le tariffe doganali vennero dunque abbassate ed il valore della protezione si stabilizzò intorno all'8-10%, un livello moderatamente protettivo e pronto a stimolare ad una maggiore modernità, efficienza e competitività tutto il sistema industriale del regno (6). Venne, adottata in sostanza una politica liberista che tuttavia non riuscì a produrre alcun effetto, dato che con la caduta del Regno e con il decreto del 24 settembre 1860 veniva imposta al regno di Napoli la tariffa doganale piemontese del 1859. Anche questa peraltro era stata modificata, con la restaurazione di Vittorio Emanuele I, rispetto alla precedente tariffa francese. Per disciplinare l'organizzazione delle dogane fu emanato il Regio Editto del 4 giugno 1816, cui seguirono provvedimenti volti a rendere la disciplina più flessibile e meno rigorosa; per cui molte merci prima esportabili previa autorizzazione delle dogane, vennero liberalizzate. In genere la tariffa piemontese era situata su di un valore medio del 3,5% ed era la più bassa d'Europa. Tale minor valore è imputabile al diverso assetto industriale del Regno Piemontese rispetto a quello di Napoli. Secondo autorevole dottrina, infatti, la tariffa piemontese era la più bassa in quanto nel Regno di Sardegna l'industria era concentrata quasi principalmente nel settore tessile, al contrario del Regno di Napoli dove forte era la presenza di industrie metallurgiche e chimiche, bisognose di protezione. 4.3 Imposte Indirette: il Sistema delle Regie Con la riforma del 1823 fu introdotto un nuovo regime di riscossione dei diritti doganali denominato "sistema delle Regie". Tale regime prevedeva la concessione in appalto, dietro corresponsione al tesoro di un canone fisso annuo, dei diritti di riscossione per quanto riguarda le dogane e la vendita dei generi di monopolio quali sali e tabacchi. Lo scopo del nuovo sistema era quello di assicurare un introito certo e garantito da cauzione. Si incominciò nel 1822 con la regia sui dazi di consumo nella capitale, per poi proseguire nel 1826 con l'istituzione della regia sulle Dogane. Principali beneficiari di tale sistema di appalto furono ancora una volta le principali famiglie del Regno, le uniche in grado di garantire subito la cauzione richiesta dal governo, generando in più circostanze sospetti sui lauti guadagni ottenuti da queste a spese dello Stato. Secondo Nicola Salerno (7) tale sistema pregiudicava gli interessi del Regno in quanto gli appaltatori avevano diritto al 50% di tutti gli incassi (il restante 50% andava allo Stato) eccedenti la quota stabilita. Il primo esperimento di appalto delle imposte, in cambio dell'anticipo immediato del loro gettito, fu fatto con le imposte di consumo nella città di Napoli. Nel 1823 fu creata la Regia della dogana cui seguì l'estensione a tutte le imposte doganali. Nel 1824 furono istituite Regie sulla vendita del sale e sulla produzione e vendita del tabacco. Nonostante alcuni autori facevano riferimento all'obiettivo di una maggiore efficienza e razionalizzazione, non vi è dubbio che buona parte dei motivi che portarono all'introduzione, vanno cercati nella convenienza finanziaria e nello stato di carenza in cui versava la pubblica amministrazione. Il sistema delle Regie attrasse i principali interessi finanziari del Regno; nel 1826 l'imprenditore francese Dupont sottoscrisse un contratto per l'esercizio dei diritti doganali; tale contratto passò poi alla famiglia Falanga e fu rinnovato dopo poco tempo da Zino e da De Rosa. In base all'ultimo contratto sottoscritto dai due appaltatori, venivano assicurate alle casse statali una rendita annua di 5.768.000 ducati riscossi da diritti doganali e in imposte di consumo, con una cauzione di 350.000 ducati in titoli del Debito Pubblico ripartita in 330 azioni (di importo, quindi, molto elevato ed accessibile solo ai più ricchi). Come si vede, di fronte a un capitale investito sufficientemente elevato (cioè il deposito cauzionale) si ottenevano guadagni nell'ordine del 28-30% annuo. Un valore molto alto specie se confrontato con il ritorno ottenibile dalle rendite pubbliche. Tuttavia il dato , in quanto riferito ad un incasso lordo non essendo stato possibile considerare le spese sostenute dagli appaltatori nella riscossione. A ciò si aggiunga che per alcuni beni, sali e tabacchi soprattutto, molto fiorente era il contrabbando, particolarmente radicato nelle province pugliesi come si rinviene dal rapporto del 1835 del Principe di Dentice, confermata del resto dal direttore della regia della Dogana, Maurice Dupont. Spesso, nel tentativo di imporre il monopolio in cui avevano investito, gli appaltatori si trovarono coinvolti in una guerra permanente e costosa contro i contrabbandieri. Secondo questa inchiesta, la causa primaria del contrabbando era da ricercare nei diritti di dogana che rendevano elevatissimi i prezzi di molti prodotti e pertanto fuori dalla portata economica della maggior parte della popolazione. La stessa inchiesta, proseguita nel 1838, riscontrò numerose prove di commistione fra le guardie di dogana delle province ed i contrabbandieri; il progetto di sostituire queste guardie con truppe militari regolari fu tuttavia accantonato per i costi troppo alti che un tale progetto avrebbe comportato. Il carattere oppressivo di queste tasse sulle vendite e sui consumi derivava dal fatto che il monopolista cercava di ottenere pi? denaro possibile dagli investimenti fatti e spesso non si fermava davanti a nulla. Inoltre, un sistema particolare forniva incentivi per il superamento dell'importo assicurato allo Stato; infatti, se la somma riscossa fosse stata maggiore, il maggiore guadagno sarebbe stato così diviso: il 70% agli appaltatori, il 20% al governo e per il 10% agli impiegati dell'amministrazione. Furono dati in appalto anche i diritti doganali e le imposte di consumo della Sicilia e dei Monopoli di Stato. Di questi il pi? importante, data l'ampia disponibilità e l'esigenza fisiologica, era quello del sale che fu dato in concessione nel 1824. Il regime protezionistico rimase in vigore fino al 1845 quando il decreto 18 agosto 1845 seguito dal decreto 9 marzo 1846, riducendo il valore dei dazi doganali non rese più profittevole il sistema delle Regì e, che fu quindi abolito. 4.4 Imposte Indirette: Dazi di Consumo Il sistema prevedeva una serie di dazi sul consumo, gravanti sempre sulla parte continentale del Regno, riscossi nella città di Napoli per conto dello Stato, in base al regolamento del 9 gennaio 1827 ed alla tariffa del 20 aprile 1818 applicata contemporaneamente all'introduzione della tariffa sui diritti doganali. Le imposte sui beni di consumo, riscosse nelle altre province, invece, andavano a contribuire al gettito delle finanze locali, costituendo assieme alle imposte addizionali fondiarie, le voci d'entrata della contribuzione locale. La tariffa del 1818 non colpiva soltanto le merci di lusso ma anche 88 generi di consumo fra i quali: carni, vini, grano, frutta, formaggi, tessuti, carbone ed altri beni di prima necessità. Alcuni venivano tassati in base al numero, altri in base al peso, altri ancora a "carrette" o a "soma". Anche in questo caso, il dazio era molto pesante in quanto in alcuni casi uguagliava il valore della merce. Queste imposte di consumo erano quindi molto gravose per le classi meno abbienti, che si vedevano costrette perciò a limitare anche i consumi necessari. A seguito dei disastri del 1820, con decreto del 28 maggio 1826, venne disposto un dazio pari a 15 grani ogni cantaio (8) sulla macinazione del grano e del granoturco, in seguito appesantita da ulteriori sovraimposte, differenti a seconda del tipo di macinato per raggiungere l'importo prestabilito. La nuova imposta, introdotta assieme a quelle sui generi coloniali e sui profitti ottenuti dai ceti più abbienti, fu abolita subito dopo. Queste imposte vennero introdotte in quanto il sistema delle regie del 1823 non aveva ancora dato sufficienti introiti. Nel 1829, tale imposta fornì un gettito pari a 1.523.970 ducati ridottasi a 1.253.953 nel 1830. In seguito ai forti malcontenti popolari l'importo prestabilito fu ridotto alla metà dal 1? gennaio 1831 (626.942), ulteriormente ridotto ed abolito dal 1? gennaio 1850. Un'altra imposta indiretta colpiva i tabacchi, che dal 19 ottobre 1810 vennero sottoposti a monopolio. Il sistema delle imposte sui consumi non risparmiava neppure il consumo del sale; già durante la dominazione francese fu stabilito il prezzo del sale a 6,35 ducati al cantaio (circa 89 kg). Questo sistema venne poi abbandonato, anche in seguito al notevole contrabbando, e fu poi ripristinato, per le note esigenze di cassa, nel 1822, quando il prezzo fu fissato a 12 grani per rotolo, prezzo particolarmente elevato per l'epoca (9). Il sistema di esazione si basava su una serie di quote fisse in base al quale il rivenditore autorizzato si impegnava a vendere una certa quantità di sale nei confronti del distributore locale il quale aveva analoghi impegni nei confronti della Regia e quest'ultima nei confronti del governo. Il prezzo si mantenne molto alto per tutto il periodo fino al 1848, quando in seguito ai disordini sociali fu abbassato al livello di 8 grani al rotolo. Inutile aggiungere che l'imposta sul sale risultò di gran lunga tra le pi? odiate dal popolo, se non la più odiata. Anche le polveri da sparo erano oggetto di monopolio (10), così come la neve, la cui vendita era riservata ad agenti autorizzati dal Direttore generale dei dazi indiretti. Le carte da gioco costituivano poi un'altra fonte di introiti. Con decreto 10 luglio 1826, il Governo stabilì un monopolio sulla vendita dei fogli utilizzati per la fabbricazione delle carte; fabbricazione che invece era stata liberalizzata. Vi era poi il diritto di crociata che consisteva nella facoltà esclusiva di stampare e vendere la bolla pontificia che consentiva l'acquisto di latticini. Come si vede la parte principale è costituita dall'imposta sul grano macinato (10%), dalle dogane (31%) e dall'imposta sul sale, che ? pari al 33% c.a. di tutto il gettito delle imposte indirette del 1830. Di minore importanza ? invece la voce relativa ai diritti di consumo, in quanto comprendente tantissimi beni soggetti ad imposta di consumo e quindi di minor rilevanza di fronte ad una imposta come quella sul grano o sul sale, che portano quasi il 45% del gettito totale. La ripartizione dei diritti di consumo, nel 1832, 4.5 Altre Entrate Altri contributi venivano dai ricavi dell'amministrazione delle Poste e dei Telegrafi, dalla coniazione delle monete, dalla Ferrovia Napoli-Caserta-Capua e dalle lotterie. Il Lotto costituiva un'altra fonte d'entrata: intorno al 1840 i giocatori versavano nelle casse dello Stato circa 2 milioni e mezzo di ducati, il 50% dei quali utilizzato per pagare le vincite, l'11% impiegato per pagare le spese amministrative; il restante 39% veniva versato nelle casse statali. Limitate erano le voci relative ai proventi da imposte di registro e di bollo che derivavano principalmente dall'iscrizione di contratti di costituzione di società, di locazione di colonie, di contratti di mezzeria, di contratti di assicurazione. L'imposta veniva calcolata sulla base di una tassa fissa. L'esiguità del gettito va ricercata nelle numerosi esenzioni praticate, nonchè nell'esclusione dal loro ambito di applicazione del territorio siciliano. Una storia singolare ebbe l'introito generato dal Tavoliere delle Puglie. Sin dall'antichità i terreni di proprietà statale ubicati nella suddetta zona erano stati dati in concessione dietro pagamento di canoni all'azienda del Tavoliere. I terreni in oggetto, però, dovevano essere utilizzati secondo norme particolari che prevedevano tra l'altro il divieto di dissodare la terra. A parte deve essere poi considerata la quota di tributi che ogni anno la Sicilia versava alla tesoreria centrale. In media, la quota versata costituiva circa il 10% dell'ammontare complessivo delle entrate dei domini continentali. 5. L'effettivo carico Tributario nel Regno delle Due Sicilie Delineato il sistema tributario dell'ultimo periodo del Regno, è interessante cercare di quantificare quale fosse il reale carico tributario e se questo si discostasse di molto da quello degli altri Stati italiani. In tale ambito sono utili gli studi di De Meo (11) e Scaloia (12), per la parte relativa al carico tributario gravante sulle province continentali del Regno. Partendo dai dati contenuti dal bilancio consuntivo dell'anno 1856, l'autore opera delle modifiche, aggiungendo od escludendo voci che non sono correlate direttamente all'imposizione tributaria. De Meo, infatti, somma al valore complessivo l'importo degli aggi esattoriali (pari al 4%, per l'anno in questione, dell'importo del tributo) concessi dallo Stato ai soggetti terzi incaricati della riscossione (13). Tale voce infatti non compariva direttamente in bilancio. Analogamente a Scaloia, De Meo, sottrae i proventi derivanti da multe, ammende, ed il contributo annuale versato dalla Sicilia, i proventi delle rendite demaniali ed i ricavi delle lotterie, delle poste e delle ferrovie. Sottrae anche la parte di imposta retrocessa dalla Tesoreria Generale a favore delle quindici province, in quanto tale quota non andrebbe a formare il carico tributario centrale essendo a favore degli enti locali. Per la stessa ragione viene sottratto l'importo del ventesimo comunale e la ritenuta del 10% sullo stipendio degli impiegati. In base alla popolazione, stimata, delle quindici province continentali, pari a 6.886.030 il carico tributario trovato da De Meo, risultava pari a 3,815 ducati (16,21 lire al cambio del periodo) abbastanza simile ai 4 ducati indicati dalla relazione del Ministro delle Finanze del settembre 1860. Molto minore invece del risultato ottenuto da Scaloia per le stesse province continentali, pari a 21 lire e a quello del Regno di Sardegna (calcolato da Scaloia) pari a 26 lire. Il? dato di De Meo inferiore a quello di Scaloia di circa 5 lire potrebbe essere dovuto alla diversità dei dati utilizzati; infatti mentre l'ultimo utilizza quelli contenuti nel bilancio preventivo, il primo utilizza i dati consuntivi. Poich? esiste una fortissima variabilità tra il valore dei dati preventivati e quello dei dati definitivi, si pu? comprendere allora perchè si siano potuti ottenere dei risultati così diversi. Un'altra ragione della diversità del risultato ottenuto potrebbe essere secondo io stesso De Meo, che molte delle voci preventive considerate da Scaloia risultavano sopravvalutate. Complessivamente emergerebbe una minore incidenza pro capite del carico tributario statale sulla popolazione del Regno di Napoli rispetto a quello di Sardegna, che spingeva Scaloia a tuonare negativamente contro l'amministrazione del regno Piemontese e, nello stesso tempo, a giudicare positivamente l'amministrazione fiscale del regno meridionale. Partendo da questo risultato tuttavia sarebbe di maggiore utilità cercare di analizzare chi effettivamente sopportava tale carico tributario, confrontarlo con il valore del prodotto interno lordo ed ottenerne un rapporto. Solo dopo uno studio in questo senso, si potrebbe esprimere un giudizio comparativo analogo a quello fatto da Scaloia; purtroppo questo non ? possibile, data la scarsità di dati a disposizione. Sebbene i dati, le fonti bibliografiche possano aver limitato l'analisi, è comunque possibile trarre alcune conclusioni dal presente studio. Il sistema tributario dell'ultimo periodo del Regno, era, nel suo complesso, ripartito tra imposte indirette (prevalenti) ed imposte dirette. Mentre le prime poggiavano su dazi di consumo, dazi doganali e diritti residui, le seconde traevano origine dalle imposte (principali ed addizionali) sulla proprietà fondiaria. Il sistema dei dazi, nel corso del periodo di riferimento fu soggetto a varie modifiche, passando da un regime moderatamente protettivo ad uno altamente protettivo per poi convergere, negli ultimi anni di regno, verso un modello doganale poco protettivo. In tale contesto, tuttavia emerge che le scelte tributarie ed economiche non vennero fatte con l'intenzione di seguire un obiettivo prefissato di politica economica, quanto piuttosto per fornire alle mutate esigenze di sviluppo del settore industriale che si manifestano nel tempo. Magg. Dott. Guido Mario Geremia Note (1) L'elevata importanza del settore primario è testimonianza dello stato pre-industriale dell'economia meridionale del periodo ed indice, forse anche, di una bassa produttività agricola. L'ampia disponibilità di forza lavoro nel settore primario con bassa produttività è del resto un elemento comune a molti paesi sottosviluppati, e ha favorito, gi? a partire dagli anni cinquanta del nostro secolo, la nascita di teorie sullo sviluppo economico basate sul labor surplus (modelli alla Lewis) secondo cui la crescita economica sarebbe indotta dal guadagno di produttività che deriverebbe dallo spostare forza lavoro dal settore agricolo (poco produttivo per definizione) al settore industriale (altamente produttivo). (2) Vedi Liberatore R., 1834, "Della Marineria Mercantile", Annali Civili, n. 8. (3) Vedi De Tiberis G.F., 1964, "Lo Sviluppo Industriale nel Regno delle Due Sicilie prima del 1860", Roma. (4) L'unit? monetaria del Regno delle Due Sicilie era il Ducato del peso di 22,9432 grammi di argento al titolo di 833,31100, per cui il contenuto di argento era di gr.19,119. Ciascun ducato si suddivideva in 100 grani ed ogni grano in 10 cavalli o calli. (5) Vedi Magliani A.," Della Condizione Finanziaria del Regno di Napoli", Napoli. (6) Cfr. Magliani A., op. cit. (7) Cfr. Salerno N., 1834, "Memoria sul Miglioramento dell'Amministrazione del Sale", Napoli, pp. 151-164. (8) Un cantaio era pari a circa 89 kg. (9) Un rotolo era pari a 0,891 kg. (10) Vedi Dias F., 1840, "Quadro storico politico degli atti del Governo dei Domini al di qua e al di l? del Faro, ovvero legislazione positiva del Regno delle Due Sicilie", Vol. I, p. 231 e ss. (11) Vedi De Meo G., 1860, "Sul Carico Tributario Erariale del Regno delle Due Sicilie nel 1856", Archivio Economico dell'Unificazione Italiana, Vol. I, fascicolo 6. (12) Vedi Scaloia A., 1857, "Il Bilancio del Regno di Napoli e degli Stati Sardi", Torino. (13) Nel 1856, era già stato eliminato il sistema delle Regie. |