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Risorgimento



La Marina del regno delle Due Sicilie PDF Stampa E-mail

La Marina del regno delle Due Sicilie

Nel giugno 1815, Ferdinando IV di Napoli ristruttura le Forze armate del Regno della Due Sicilie e, in base al trattato di Casalanza, costituìsce una giunta incaricata di organizzare la nuova Marina militare.

Quando comincia a diffondersi il vapore, il re, il 14 gennaio 1817, concede una privativa per la navigazione col nuovo tipo di propulsione e ordina la costruzione di un piroscafo da 200 tonnellate. Battezzato Ferdinando I, varato il 24 giugno 1818, posto al comando dell'Alfiere di Vascello della Marina Reale Giuseppe Libetta, con una velocità di crociera di 4 nodi,. parte il 27 settembre per il suo primo viaggio: Napoli, Livorno, Genova, Marsiglia.
Nello stesso anno sono pubblicate le "Ordinanze Generali della Real Marina" relative a tutta la composizione e organizzazione della Marina: si tratta della prima regolamentazione fatta dal regno delle Due Sicilie in ambito marinaro.

Territorialmente la Marina viene ripartita nei tre compartimenti marittimi di Napoli, Palermo e Messina, mentre organicamente si suddivide in due rami distinti: militare e amministrativo, alle dipendenze del Consiglio di Marina.

Nel 1820 la Marina si é considerevolmente rafforzata: giungendo ad allineare tre divisioni con una settantina di legni da guerra di tutte le stazze, con netta prevalenza di legni leggeri.
Nel biennio 1827-1828, i cantieri di Castellammare di Stabia varano la fregata Regina Isabella da 44 cannoni, la corvetta Cristina da 32 cannoni e i brigantini Principe Carlo e Francesco I. Nel 1830 viene ultimata la scorridora Etna, nel 1832 il brigantino Zeffiro da 18 cannoni, nel 1834 le fregate Partenope da 50 cannoni, e Urania da 46 pezzi.

Re Ferdinando ha una grande passione per la propulsione a vapore applicata alla marina e, per questo, acquista in Gran Bretagna, nel 1834, tre piroscafi (ribattezzati Ferdinando II, Nettuno, San Wenefrido), sostituendone l'originario personale di macchina inglese e istituendo a Pietrarsa il "Real Opificio Meccanico Militare", la prima "Scuola di Ingegneri Meccanici" d'Italia, alla quale viene annessa una fabbrica d'attrezzi e macchine marine per armare le pirofregate napoletane.

Nel 1860, con l'ingresso di Garibaldi a Napoli, si avvia al tramonto la storia della Marina borbonica e dei Marinai delle Due Sicilie che si conclude, definitivamente, con la caduta di Gaeta il 15 febbraio 1861.

Dal sito della Marina Militare Italiana
note su Maratea PDF Stampa E-mail

NOTE SULL’ASSEDIO DI MARATEA

L’esercito imperiale francese invade la penisola italica nel 1806 e Giuseppe Bonaparte ha il compito di impadronirsi del regno di Napoli che la strategia bellica degli alleati ordina di abbandonare nella parte continentale. Al seguito del fratello di Napoleone vi è uno dei più abili, determinati e feroci dei generali: André Masséna. A maggio cade la grande fortezza di Civitella e tutti gli sforzi sono rivolti contro l’invitta Gaeta. La morsa degli invasori a nord fa scatenare i patrioti duosiciliani a sud dove a Maida, il 4 luglio, ai Francesi è inflitta una clamorosa sconfitta da parte degli anglo-borbonici. La sfortunata resa di Gaeta ha scendere le orde di Masséna verso le Calabrie per schiacciare la cosiddetta ribellione. L’indomita Lauria ha l’ardire di opporsi e viene distrutta con la maggioranza degli abitanti. Le piccole fortezze di Maratea ed Amantea resistono ancora sulla costa tirrenica, aiutate in ogni modo dalla libera Sicilia.  Maratea è comandata da un valentissimo ufficiale, Alessandro Mandarini e costituisce un caposaldo sprezzante e pericoloso che sfida i Francesi sino alle soglie dell’inverno. Masséna non riesce a stroncare queste sacche di opposizione e lascia l’incombenza al suo sostituto Verdier quando è chiamato a Parigi per difendere l’impero. Il gen. Lamarque investe con una potenza bellica strepitosa il territorio marateota composta da 6000 soldati e moderni cannoni. Fiumefreddo, Logobardi, Belmonte sono espugnate e messe a ferro e a fuoco. Tutti i combattenti sopravvissuti si rinserrano in Maratea e Mandarini si trova a guidare un migliaio di uomini che non vogliono chinare la testa al nemico. Contro gli schioppi dei difensori è schierata la  micidiale artiglieria gallica che prepara il terreno per minare le mura. Nonostante varie, coraggiose e sfortunate sortite per fermare i lavori, i marateoti devono capitolare. Lamarque è costretto a riconoscere il valore degli assediati concedendo loro il libero transito verso la Sicilia borbonica. In effetti, come al solito, i patti sono traditi e sono rispettati solo per il comandante, per gli altri c’è la prigionia e per i civili sacco e stupro come a Lauria!

Comunque il solco tra Galli e Duosiciliani di allarga sempre di più irreversibilmente. I francesi sono perfettamente considerati , "conculcatori d'altari, loquaci di libertà, ma propugnatori, perché forestieri di più turpe servaggio". A Mandarini sono offerte cariche e gloria direttamente da re Giuseppe, ma l’adamantino marateota ricusa tutto e raggiunge il suo legittimo re a Palermo.

Nella chiesa di S. Lucido ove morirà nella sua Patria redenta, si legge questa significativa lapide:

In memoria del Colonnello Alessandro Mandarini Cavaliere Gran Croce dell’inclito Ordine Costantiniano Intendente della Calabria Citra

Pio ingenuo generoso più che dei suoi figli padre dei poveri

furono sue virtù preclare

rettitudine umiltà vero valore amò tanto l’augusto re Ferdinando cui era carissimo che prodigò ad onor di lui le sue fortune

nacque in Maratea nel 1762 che coraggiosamente difese dai Galli nel 1806 finì in San Lucido nel 22 settembre 1820 la sua famiglia rispettosa e riconoscente.

 

 

 

 

 

Le soldat de Marsala PDF Stampa E-mail

A cura di Salvatore Bafurno

Le soldat de Marsala

Testo e musica di Gustave Nadaud [1861]


 Canzone ispirata alla "Spedizione dei Mille" di Giuseppe Garibaldi (1860), che larghissima eco ottenne in tutta Europa, e che presenta degli incredibili punti di contatto con "la guerra di Piero" di Fabrizio de André.

 Nato nel 1820 a Roubaix, nell'estremo nord-est della Francia, fu dapprima ragioniere nell'azienda di famiglia.

 Iniziò a comporre canzoni all'età di 28 anni, cantandole agli amici che le apprezzarono molto.  Pubblicò quindi i suoi testi, specialmente nei giornali L'Illustrator e Le Figaro. Si tratta perlopiù di testi di sapore popolare, ironici e spesso politicamente e socialmente "engagés". Una sua famosa canzone (poi cantata anche da Georges Brassens) è Le Roi Boiteux ("Il re zoppo"), una satira politica del II Impero e di Napoleone III; scrisse uno spettacolo di canzoni intere, Pandore, che fu proibito dal regime.

 Malgrado il successo che aveva, e pur essendo uno dei primissimi cantautori in senso moderno (i suoi testi furono sempre musicati da lui personalmente, e in parte anche interpretati), fedele ai suoi principi artistici e umani Nadaud rifiutò sempre qualsiasi tipo di compenso e pretese che i suoi testi fossero di pubblico dominio; in questo lo si potrebbe considerare un deciso antenato del copyleft. Anche per questo Nadaud morì nella più totale povertà a Parigi, nel 1893.

 Ma veniamo alla canzone in particolare.

 Non è ovviamente necessario insistere troppo sull'eco che la spedizione dei Mille ebbe in tutto il mondo, tanto più nella vicina Francia. Era l'epoca in cui persino i contadini russi si dicevano che un giorno sarebbe arrivato Garibaldov a liberarli, e un tipo di camicia (rossa) portata dai suddetti contadini veniva chiamata garibal'dejka.

 La canzone di Nadaud, "Le soldat de Marsala", è del 1861, ovvero l'anno dopo la spedizione dei Mille. Nadaud non era mai stato sicuramente nei luoghi della canzone, quindi scrisse semplicemente un testo ispirandosi probabilmente alle cronache che affluivano anche in Francia dai corrispondenti di guerra (non dimentichiamoci che collaborava col "Figaro").

 Ne venne fuori una canzone dal carattere decisamente pacifista e contro la guerra, che ottenne in Francia un successo notevole anche sulla spinta dell'emozione del momento.

 

 Indubbiamente, la prima parte della canzone ricorda La guerra di Piero di De André; leggendo il testo e la traduzione le coincidenze appaiono chiare:

 

Le Soldat de Marsala

Il soldato di Marsala

Nous étions au nombre de mille,
Venus d'Italie et d'ailleurs,
Garibaldi, dans la Sicile,
Nous conduisait en tirailleurs ;
J'étais un jour seul dans la plaine
Quand je trouve en face de moi
Un soldat de vingt ans à peine
Qui portait les couleurs du roi.
Je vois son fusil se rabattre :
C'était son droit ; j'arme le mien,
II fait quatre pas, j'en fais quatre,
II vise mal, je vise bien.


Ah ! que maudite soit la guerre
Qui fait faire de ces coups-là ;
Qu'on verse dans mon verre
Le vin de Marsala !

II fit demi-tour sur lui-même.
Pourquoi diable m'a-t-il raté ?
Pauvre garçon ! il était blême ;
Vers lui je me précipitai.
Ah ! je ne chantais pas victoire,
Mais je lui demandai pardon.
Il avait soif, je le fis boire,
D'un trait il vida mon bidon.
Puis je l'appuyai contre un arbre
Et j'essuyai son front glacé :
Son front sentait déjà le marbre.
S'il pouvait n'être que blessé !

Ah ! que maudite soit la guerre
Qui fait faire de ces coups-là ;
Qu'on verse dans mon verre
Le vin de Marsala !

Je voulus panser sa blessure,
J'ouvris son uniforme blanc :
La balle, sans éclaboussure,
Avait passé du coeur au flanc.
Entre le drap et la chemise,
Je vis le portrait en couleurs
D'une femme vieille et bien mise
Qui souriait avec douceur.
Depuis, j'ai vécu Dieu sait comme,
Mais tant que cela doit durer,
Je verrai mourir le jeune homme
Et la bonne dame pleurer.

Ah ! que maudite soit la guerre
Qui fait faire de ces coups-là !
Qu'on emporte mon verre !
C'était à Marsala.

Eravamo in mille
venuti d'Italia e da altrove;
Garibaldi, in Sicilia
ci portava come fucilieri;
un giorno ero solo nella piana
quando mi ritrovo davanti
un soldato d'appena vent'anni
che portava i colori del Re.
Gli vedo spianare il fucile:
era suo diritto; io armo il mio,
lui fa quattro passi, io ne fo quattro,
lui mira male, io miro bene.

 

Ah! Maledetta sia la guerra
che fa tirare di quei colpi;
e che si versi nel mio bicchiere
il vino di Marsala!

Fece mezzo giro su se stesso.
Perché diavolo mi ha mancato?
Povero ragazzo! Era pallido;
verso di lui sono accorso.
Ah! Non cantavo vittoria,
ma gli ho chiesto perdono.
Aveva sete, gli diedi da bere,
e d'un colpo mi vuotò la borraccia.
Poi lo appoggiai a un albero
e asciugai la sua fronte gelata:
la sua fronte già sapeva di marmo.
Se egli poteva non esser che ferito!


Ah! Maledetta sia la guerra
che fa tirare di quei colpi;
e che si versi nel mio bicchiere
il vino di Marsala!

Ho voluto medicare la sua ferita

Ho aperto la sua uniforme bianca:

La palla, senza ripercussione

Era passata a fianco del cuore.

Tra la casacca e la camicia,

ho visto un ritratto a colori

di una signora vecchia e florida

che sorrideva dolcemente.

Poi, ho visto, solo Dio sa come,

quel tanto che la cosa deve durare,

io vedrò morire un giovane ragazzo

e la bella signora piangere per lui.

 

Ah! Maledetta sia la guerra
che fa tirare questi colpi!
Che mi portino via pure il bicchiere!

E’ questo che è accaduto a Marsala!


 
Bisognerebbe quindi riuscire a sapere (ma è una cosa purtroppo impossibile, adesso) se De André in qualche modo conoscesse la canzone di Nadaud. Il fatto che Brassens fosse stato il suo "maestro", e che Brassens abbia cantato canzoni di Nadaud, potrebbe deporre a favore di questa ipotesi; ma non ne è possibile ottenerne la certezza.

 In Francia, "Le soldat de Marsala" è stata riproposta periodicamente da alcuni artisti negli spettacoli e in cd, come ad esempio Raoul de Godewarsvelde o Serge Utgè-Royo; in generale si può affermare che la sua fama non è mai venuta meno.

 (da Canzoni contro la guerra)

Quando la Calabria era la Detroit del Sud PDF Stampa E-mail

Accanto a quei settori produttivi che potevano svilupparsi sulla trasformazione di materie prime agricole o della pesca, nell'Ottocento i calabresi tentarono anche la strada dell'industrialesimo staccato dalle vocazioni del territorio.
Si avviò così un promettente settore industriale di pura trasformazione di materia prima anche importata.
Ed è questo il caso delle concerie.
L'edificio a quattro piani, i cui due superiori sono chiaramente aggiunti, ora destinato ad Istituto religioso, è quanto resta della fabbrica per concia di cuoio e pelli, fondata a Tropea, nel 1825, dall'imprenditore Mazzitelli.
Realizzata alla marina, vicino al porto, ed alimentata da due ruscelli, la fabbrica entrò in produzione nel 1827.
La spesa iniziale ammontò alla somma cospicua di 40.000 ducati, che comunque nei quasi trenta anni di attività, si rivelarono un ottimo investimento.
Alla morte del proprietario la fabbrica fu ceduta per una somma tre volte maggiore di quella iniziale, mentre l'utile annuo era oscillato dal 4 al 7 per cento del capitale investito.
Il Mazzitelli si avvalse sin dagli inizi di maestranze francesi, ed assunse un direttore, un capo operaio e quattro cuoiai di Marsiglia, città famosa per concerie e per fabbriche di saponi.
Dopo i primi quattro anni non incoraggianti, un ulteriore finanziamento di 20.000 ducati, ed un nuovo direttore, sempre francese, lanciarono definitivamente la fabbrica, al punto che, una diecina d'anni dopo, il Mazzitelli, con altri soci, aprì una seconda conceria a Tropea.
II successo dei prodotti era assicurato dalla bontà della concia di sughero della regione e dalla razionalità dell'impianto produttivo delle due fabbriche. Il ciclo lavorativo durava da sei mesi a un anno e trasformava pelli appena scuoiate, soprattutto di vitello, in suole e pelli ammorbidite.
Nella "Riviera" in cuoi venivano puliti con soluzioni di calce; nella "Correderia" venivano poi seccati, compressi e colorati. Per rendere le pelli morbide veniva usato anche olio di balena. Le due fabbriche, intorno al 1840, impiegavano circa 80 operai. Esportavano soprattutto nel Regno, a Trieste, Marsiglia ed Olanda ed ottennero premi e riconoscimenti in mostre e fiere nazionali.

Le distillerie
In Calabria era già sviluppata dai primi dell'Ottocento la distilleria del vino e della frutta per la produzione di spirito. Le fabbriche del settore, soprattutto reggine e cosentine, pur se di piccole dimensioni, avevano conquistato un mercato che, spesso, superava i confini regionali.
Tra le distillerie ancora superstiti, attive piu' a lungo ed interessanti architettonicamente, c'è quella Mazzorano di Gioia Tauro. Realizzata verso la fine del 800 per la lavorazione delle sanze, raggiunse in breve una dimensione rilevante con oltre 6.000 metri quadrati di superfice. Ceduta alla Societa' Calabro-Lombarda, fu infine acquisita dalla Gaslini agli inizi del 1930 e resto' attiva fino alla guerra mondiale. L'impianto ed alcuni particolari architettonici sono di grande interesse. La fabbrica costituisce uno di quegli esempi di "archeologia industriale" per i quali è auspicabile il restauro ed il recupero per attivita' sociali in modo da contrastare il degrado che in breve finirebbe per distruggerla.

Le fonderie
Nel bel museo napoletano voluto da Riccardo discendente di Carlo Filangieri, sono conservate importanti testimonianze della cultura e delle arti meridionali. Cimeli di famiglia si mescolano a testimonianze che furono parte della storia dello sviluppo dell'industria nel meridione ed in Italia.
Qui sono conservati i quadri commemorativi dei primi due ponti sospesi italiani, costruiti nel 1829 sui fiumi Garigliano e Calore, le cui strutture di ferro furono realizzate in Calabria. Catene, maglie, bulloni progettati dall'ingegnere napoletano Luigi Giura furono fusi nella fonderia statale di Mongiana ed in quella privata fondata nel 1824 dal principe Carlo Filangieri di Satriano, a Razzona di Cardinale.
La ferriera dei Filangieri si inseri' nell'antica tradizione di fonderie calabresi, attive gia dal 1000, e che, dalla fine del 1700 aveva avuto un vigoroso impulso con la fondazione del nuovo centro siderurgico governativo di Mongiana, nei boschi delle Serre, che lavorava il minerale di ferro estratto dalle miniere di Pazzano.
E fu proprio la presenza di abili artigiani per la lavorazione del ferro che permise ai Filangieri di stabilire in Calabria una ferriera, poiche', come privato, non poteva utilizzare il minerale, estratto dalle vicine miniere statali di Pazzano, e fu quindi costretto ad importarlo dall'isola d'Elba. Ma nonostante il considerevole onere del trasporto della materia prima, la ferriera crebbe rapidamente, iniziò con una sola fucina a tre fuochi, e via via si ampliò: dopo soli 10 anni aveva 3 fucine ad 8 fuochi ed un maglietto, con circa 200 operai addetti nei diversi settori. La ferriera fu quasi completamente distrutta dall'alluvione del 1855; restata inattiva per alcuni anni, fu infine venduta con i boschi che la circondavano e che erano serviti ad assicurarle la legna per ralimentazione dei forni.
Si producevano soprattutto pani di ferro che venivano poi trasportati a Napoil per essere trasformati.
In alcuni casi, pero', come per i ponti, la fonderia produsse manufatti completi. Come dicevano i francesi "Pas de fer sans foret" -- "Niente ferro senza foresta". Infatti renorme quantità di legna che trasformata in carbone, serviva alle fucine delle ferriere, gia' alla fine del 1500 aveva richiesto il sacrificio di grandi estensioni di boschi. E, ogni volta, le ferriere, per non allontanarsi troppo dai boschi, erano costrette a rincorrerli, itinerando sul territorio. Anche in Calabria, le antiche ferriere statali di Stilo, gia funzionanti sotto il governo angioino, aragonese, e poi durante il vicereame spagnolo, erano in uno stato di agonia per l'eccessiva lontananza di boschi ancora vergini. Per porre fine a questo stato di precarieta' e per poter realizzare una moderna e complesssa fonderia stabile, che richiedeva un investimento oneroso, Ferdinando IV di Borbone decise di crearne una nuova.
La commisslone incaricata di stabilire la nuova località, scelse la confluenza di due fiumi, l'Alaro ed il Ninfo, che potevano assicurare la forza motrice, al centro di una grande estensione di alberi secolari di faggio e abeti, in una zona a cavallo tra i due mari, lo Ionio e il Tirreno. Iniziata l'8 marzo 1771, sotto la direzione di Francesco di Conty, la fonderia di Mongiana pote' dare i primi prodotti solo intorno al 1780. La costruzione aveva richiesto tempo: si dovette anche livellare il corso dei due fiumi per poter creare le cadute d'acqua necessarie a produrre il movimento di ruote e meccanismi dei processi di fusione. Il Gioffredo, architetto reale, progetto' queste opere idrauliche. Dalle viscere dei monti di Pazzano veniva estratto il minerale di ferro che era poi trasportato a Mongiana.
Per migliorare le tecnologie, il governo invio' da Napoil a Mongiana gli scienziati Tondi, Melograni, Savaresi e Faicchio, reduci da un viaggio di aggiornamento in alcune tra le piu' industrializzate nazioni europee, Inghilterra, Francia, Sassonia.
I sistemi di scavo furono migliorati e furono aperte nuove gallerie che si rivelarono molto ricche. Si riorganizzo' la forestazione e la carbonizzazione, regolamentando il taglio dei boschi secondo cicli che rispettavano i periodi della riproduzione.
I sistemi che ancora oggi usano i carbonari delle Serre sono sorprendentemente simili a quelli descritti dai botanici agli inizi del 1800. I successivi eventi politici, (la Repubblica napoletana del 1798 e l'inizio dell'era murattiana) ebbero un'influenza negativa sull'attivita manufatturiera del Regno ed anche su Mongiana.
Eppure fu proprio Gioacchino Murat ad imporre il decollo di Mongiana. Costretto dal blocco francese a dare impulso alla siderurgia, settore vitale per l'economia e l'indipendenza del Regno. Il paese sorto intorno alla fonderia in quel decennio si sviluppo' rapidamente con la costruzione di nuovi edifici e di abitazioni per gli operai.
NeI 1814 Mongiana triplicò la sua precedente produzione ed arrivo' a 14.000 quintall di ferro, mentre fu decisa la costruzione di una fabbrica per componenti di fucile da assemblare poi nella Fabrica d'Armi di Torre Annunziata. Dopo il breve e fortunato periodo napoleonico, al ritorno dei Borboni subentro' un primo periodo di assestamento politico che raffreddo' nuovamente le iniziative industriali de Regno. Ma dal 1820 vi fu un cambio di tendenza nella politica del governo e la ripresa divenne sempre piu' consistente.
Con Ferdinando II, nel 1830, per il paese inizio' un periodo di operosita' in un clima di riconquistata stabilita politica, pur se contrastata da ingerenze straniere, dell'Inghilterra soprattutto, che aveva in concessione lo sfruttamento dei giacimenti di zolfo siciliani e del carbon fossile calabrese, e che mal vedeva il rafforzarsi del Regno napoletano. Al fervore di iniziative promosse da giovane sovrano aderirono anche i privati. I settori tessile e metalmeccanico, in modo particolare, ebbero un rapido sviluppo, grazie anche al cospicuo afflusso di capitali stranieri che seguivano con interesse la politica economica del Regno ed i suoi progressi tecnologici.
Nel Napoletano si consolido' la cantieristica col varo di numerose navi, tra cui "Il Ferdinando", primo vascello a vapore italiano.
Mongiana benefico' di questa espansione delle manifatture e dei consumi, ed alla fonderia, nuovamente ampliata verso la fine del 1840, si affianco' il completamento della fonderia succursale della Ferdinandea, vicino Stilo, un interessante complesso dall'elegante disegno planimetrico, con reparti produttivi, appartamenti reali e per la truppa. Oggi, purtroppo, raccesso al complesso e' proibito dalla Societa' che lo ha di recente accquistato impedendo la visita ad uno dei monumenti piu' suggestivi ed interessanti della regione. Anche la viabilita' fu migliorata e fu aperto un nuovo tracciato per il porto di Pizzo, da cui venivano imbarcati i prodotti.
Furono realizzate complesse opere di ingegneria e fu migliorato e completato il grande collegamento viario Napoli-Reggio che, fino all'apertura dell'Autostrada del Sole e' restato l'unico asse a unire la Calabria e la Sicilia al centro Italia.

Le armi
Lo stabilimento si arricchi' di una moderna ed elegante Fabbrica d'Armi, progettata nel 1852 dall'architetto Domenico Savino influenzato dal neoclassicismo allora di moda anche negli ediflci industriali. Particolarmente nuovo ed interessante e' l'uso della ghisa per la realizzazione delle colonne dell'atrio come simbolo delle attivita' dello stabilimento, quasi un'immagine pubblicitaria.
La nuova Fabbrica era divisa in tre edifici degradanti lungo la china del colle, addossati al corso del fiume Ninfo da cui ricavavano la forza motrice. Vi era l'officina per i "limitatori di pezzi da batteria", e per i "fucinatori di canne e armi bianche". Nell'edificio, oltre agli uffici ed ai depositi, vi era anche la scuola per i figli degli operai. Fino al 1858 i pezzi prodotti dalla Fabbrica erano spediti per rassemblaggio alla Manifattura di Torre del Greco. Dopo l'installazione di una macchina per rigare le canne, Mongiana invio' fucili completi, pronti ad entrare in dotazione ai vari corpi militari.
II personale impiegato nella Fabbrica d'Armi oscillo' tra cento e duecento addetti mentre in tutto il complesso di Mongiana lavoravano quasi 1.500 operai.
In parte gli operai erano assunti come "filiati", cioe' esentati dal servizio di leva, ma in cambio restavano in forza allo stabilimento per dieci anni; gli altri, invece, pur avendo un rapporto di lavoro libero, regolato da reciproci diritti e doveri, erano obbligati a costruirsi l'abitazione a proprie spese. II villaggio, per la sua importanza strategica, era sotto il controllo del Corpo di Artiglieria, al cui comando vi era un colonnello con la funzione anche di sindaco. Durante il periodo borbonico, nonostante il governo non fosse particolarmente indulgente con il ceto operaio, le condizioni di vita degli addetti a Mongiana ed alle miniere di Pazzano non raggiunsero mai i livelli quasi sempre drammatici di altre nazioni, sia in Italia che in Europa.
Manco' totalmente lo sfruttamento delle donne ed il lavoro minorile fu limitato a funzioni gregarie, con orari di lavoro ridotti. I ruderi della Fabbrica d'Armi, distrutta dapprima dall'alluvione del 1854 e poi dall'abbandono nel quale precipito' lo stabilimento dopo l'Unita' d'Italia, sono appena una pallida memoria, sconosciuta agli stessi calabresi d'oggi, di quelli che furono i successi ottenuti da Mongiana in fiere ed esposizioni a Napoli, Firenze, Londra. La fonderia con i suoi tre altoforni, tra i piu' alti dell'intero panorama siderurgico italiano dell'epoca, e con le modernissime macchine a vapore importate dall'Inghilterra, reggeva bene il confronto in campo nazionale, e sfornava circa 4.000 quintali annui di ghisa, il 20% del totale prodotto nel Regno delle Due Sicilie. Chiusa la Fonderia dopo l'Unita', la Fabbrica d'Armi fu dapprima declassata ad officina riparazioni e poi chiusa anch'essa. Nel 1873, infine, l'insieme degli stabilimenti venne ceduto all'asta a privati e comperato dal garibaldino Achille Fazzari.

Autore: Gennaro Matacena

Caporal Teodoro PDF Stampa E-mail

Gioseffi TEODORO

alias

Caporal Teodoro

Gioseffi Teodoro, alias Caporal Teodoro, nacque a Barile da una misera famiglia di contadini e guardiano campestre di professione, aderì sin dall'aprile 1861 al brigantaggio nella banda Crocco, e per questo fu ricercato per "cospirazione diretta ad attentare avente per oggetto di cambiare la forma del governo". Dopo essere stato nella banda Crocco passò in quella di Ninco Nanco e successivamente seguì Borjés, venendo appunto soprannominato Caporal Teodoro, prendendo parte, nell'autunno 1861, al sacco di Trivigno, Vaglio, Bella, Ruvo del Monte, Pescopagano e Pietragalla. Con il ritiro dello spagnolo, Gioseffi, finì per ereditare la banda del suo paesano Botte, agendo su un territorio che comprendeva i comuni di S. Fele, Ruvo del Monte, Rapone e Monticchio. La prima azione autonoma della banda Gioseffi risalì al 15 aprile 1862 e fu una disfatta perché fu costretta alla fuga da un reparto di bersaglieri, lasciando sul terreno quattro morti, la druda di Gioseffi, 29 cavalli, sei vacche e numerosi fucili, munizioni e bisacce. Il 16 giugno assieme alla banda Coppa la banda Gioseffi subì un'altra sconfitta, sempre ad opera dei bersaglieri, nelle vicinanze delle Crocelle, mentre il 12 marzo la banda Gioseffi in compagnia delle bande Coppa, Ninco Nanco, Caruso, Malacarne di Melfi, Marciano e Sacchetiello, guidate da Crocco, partecipò al massacro di 15 cavalleggeri Saluzzo, e successivamente il 26 luglio con le bande Caruso, Tortora, Schiavone al massacro di altri 23 cavalleggeri, presso la Rendina. La banda Gioseffi attuò numerosi reati minori: nel 1862 operò nel solo territorio di Melfi sei grassazioni, mentre nel territorio attiguo di Rapolla attuò una grassazione e una tentata estorsione. Il 15 aprile 1863 la sua banda fu decimata, nei pressi di Monticchio, da un reparto di bersaglieri, costringendo Caporal Teodoro ad unirsi dapprima, fino al maggio 1864, con la banda di Malacarne di Melfi, e successivamente con la banda Volonnino, forte di 17 elementi, per evitare che la sua banda, da sola, potesse essere facilmente catturata o distrutta da un semplice plotone dell'esercito piemontese. Il 26 maggio anche Caporal Teodoro fu tra i carnefici dei sette fanti del 4° reggimento trucidati presso il bosco di Civita. Ormai braccato dalle forze repressive guidate dal "traditore" Caruso, il 3 febbraio 1865 Caporal Teodoro si presentava a Rionero al generale Pallavicini. Sulla sua testa, come su quella di Michele Volonnino e di Totaro, pendeva una taglia di 9.000 lire. A carico di Gioseffi furono addebitati tredici capi di imputazione: associazione di malfattori maggiore di cinque, avente lo scopo di delinquere contro le persone e le proprietà dei comuni di Ripacandida, Melfi, Rapolla;

 

grassazione in danno di Ercole Siniscalchi, proprietario di Melfi, nel 1861;

 

arruolamento in banda armata a Rapolla nel 1861;

 

grassazione in danno di Mecca Antonio di Melfi nel 1862;

 

grassazione in danno di Laviano Michele di Melfi nel 1862;

 

grassazione contro Picchimenna Domenico di Melfi nel 1862;

 

omicidio di Cerone Giuseppe di Melfi nel 1862;

 

tentata estorsione di Mendia Giuseppe a Rapolla nel 1862;

 

grassazione contro Tolve Donato;

 

grassazione contro Pastore Luigi, in agro di Venosa, nel 1862;

 

grassazione contro Fasciano Anselmo e Aromatardo Nicola di Melfi nel 1863;

 

assassinio di Schirò Domenico di Melfi nel 1863;

 

sequestro di persona contro Farano Michele di Melfi nel 1863

 

Per questi reati fu condannato dal tribunale militare di Guerra di Potenza, con sentenza pronunziata il 16 giugno 1865, ai lavori forzati a vita.

 

 

da: http://www.brigantaggio.com/sitoteodoro.htm

 

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