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Risorgimento
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TRIONFO DEI BORBONE IN CAPITANATA |
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Sul giornale on line Il Frizzo dello scorso 4 gennaio è apparso un bellissimo articolo su quanto di buono i Borbone hanno fatto per Lucera (FG). La nostra antica Patria sta rinascendo sicuramente se da ogni parte dell’antico regno duo siciliano emerge la Verità. La pagina di riferimento è all’url: http://www.ilfrizzo.it/Luceriae.htm Segue il testo del servizio. |
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DOCUMENTI E LUOGHI COMUNI |
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Nel nostro Paese i beni culturali hanno formato oggetto di specifica attenzione, sin dall'epoca degli Stati preunitari.Le prime forme di intervento in materia, infatti si concretizzarono in norme sulla tutela delle antichità, a partire dal celebre atto chirografo emesso dal papa Pio VII in data 2 0ttobre 1802, con cui si prevedeva il divieto di esportazione dei beni archeologici.Ma il primato in materia -almeno sotto il profilo organico e legislativo- appartiene a Napoli: si tratta del poco celebre Decreto del 13 maggio 1822 . |
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Quando Re Ferdinando si fece ritrarre dal Canova |
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Ad onor del vero, all’interno degli appartamenti storici del complesso vanvitelliano di Caserta non sono esposti tanti capolavori dell’arte del Sette/Ottocento; difatti molte delle opere ivi conservate sono state realizzate non di certo dai campioni della pittura o della scultura vissuti nei secoli su menzionati. Tal considerazione ha ragion d’esistere se, nella discussione, escludiamo le vedute di Hackert o gli affreschi della terza sala della Biblioteca Palatina, eseguiti da Füger, od anche i dipinti realizzati dai maestri “davidiani” quali Berger, Wicar, Martin e Descamps, compreso l’italianissimo Costanzo Angelini. Però tra i vari Fischetti, de Dominici, Storace-Franchis,Brunelli,Calliano ed altri, c’è anche una piacevole testimonianza scultorea realizzata da uno dei massimi esponenti del neoclassicismo italiano: Antonio Canova (1757-1822). L’opera in esame è il ritratto marmoreo di re Ferdinando I delle Due Sicilie, esposto sulla prima consolle a sinistra della Sala degli Alabardieri. C’è una fonte, già pubblicata da Giuseppe Campolieti (“Il Re Lazzarone”, Mondadori, 1999, p. 414), circa il busto suddetto, che riporta la seguente notizia: “La serata del 19 giugno 1815 [all’indomani del restaurato potere borbonico dopo la parentesi napoleonica] […]Ferdinando riapparve nel suo palco [del teatro del Palazzo Reale di Napoli], mentre sulla scena tra serti di fiori e di bandiere, appariva un busto del re scolpito magistralmente da Canova. Il festeggiato si commosse fino alle lacrime e il pubblico applaudì per oltre mezz’ora, in un’onda di giubilio”. Tale testimonianza offre quindi l’opportunità di datare il marmo canoviano entro l’estate del 1815. Maria Stella Margozzi è invece dell’opinione che il ritratto sia stato realizzato tra il 1816 ed il 1822, cioè nello stesso periodo in cui il Canova era impegnato nella esecuzione della statua equestre di Carlo III per l’attuale Piazza del Plebiscito a Napoli. Il busto di Ferdinando è alto circa 62 cm e sul retro reca la seguente iscrizione: CANOVA FECIT. Il sovrano raffigurato ha un volto austero, lo sguardo fisso caratterizzato dalla fredda cecità degli occhi scavati nel candore del marmo puro, il naso e le labbra marcate così come da riconosciuta iconografia ferdinandea, la fronte spaziosa segnata da due lunghe e contrassegnate rughe, segno del tempo che passa. Il prezioso ritratto si conclude con una folta chioma memore delle effigi alessandrine. Un manto evocante la passata romanità, segno della rinata classicità tardo-settecentesca,copre la fisicità marmorea del re. L’opera scolpita da Antonio Canova è quindi la felice espressione della rappresentazione del bello ideale, squisitamente neoclassico, misto ad affermazione delle peculiarità mitiche ed eroiche dell’illustre personaggio effigiato. Di questo ritratto ne esiste una copia conservata presso il Museo Filangieri di Napoli. Ferdinando commissionò al Canova altre opere: la propria statua equestre, da affiancare a quella del padre nell’ex Largo di Palazzo, che fu terminata nel 1823 da Antonio Calì, e la gigantesca scultura di “Ferdinando come Minerva” del Museo Archeologico della città partenopea. E a proposito di questa straordinaria scultura c’è da riportare un’altra interessante fonte: “Poiché tornò, comunque in parte, la quiete del regno, il re, sperando il giudizio dei posteri da pietra muta che dalle sue leggi e dalle istorie, diede l’incarico all’insigne scultore Antonio Canova di ritrattarlo in marmo, in forme colossali e in fogge di guerriero” (cfr. Pietro Colletta, “Storia del Reame di Napoli, Sansoni,ed. consultata S.a.r.a, 1992, p. 284). Le opere canoviane di Caserta e Napoli sono cariche, come abbiamo visto, di un alto significato politico e sociale. Ferdinando, da persona accorta e intelligente quale era, aveva, ancora una volta e come avevano già fatto i suoi predecessori, riconosciuto nell’arte, o meglio nei capolavori dell’arte, il tramite più adeguato per riaffermare il proprio prestigio, potere, nonché la propria cultura, verso chi, il popolo ma anche una certa nobiltà o media borghesia, provava dei sentimenti verso di lui al limite del ridicolo, del patetico e del paternalistico. Tutte caratteristiche che forse il caro Ferdinando non aveva o che non voleva avere……
Luigi Fusco |
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UN RITRATTO DI PIO IX ALLA REGGIA DI CASERTA |
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Nella piccola cappella dedicata a Pio IX (al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti) della Reggia vanvitelliana, già sede di un oratorio di corte, è esposto un ritratto marmoreo raffigurante il pontefice su menzionato. Questa scultura è stata eseguita da Lorenzo Bartolini (Prato, 1777 – Firenze, 1850). Tale opera, al di là del suo pregio artistico, è la testimonianza del felice rapporto politico-religioso che, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta del XIX secolo, si instaurò tra il pontefice e la dinastia borbonica, al tempo rappresentata da re Ferdinando II. Il ritratto è un busto in marmo di Carrara alto 105 cm circa. Nella parte posteriore è incisa la seguente iscrizione: NEL MESE DI MARZO 1847 BARTOLINI MODELLO’ IN ROMA D’APPRESSO S.S. PIO IX / FACEVA IN MARMO IN FIRENZE IL 21 LUGLIO 1849 PER IL PRINCIPE ANATOLIO DI DEMIDOFF. Dalla biografia di Lorenzo Bartolini, scritta dal Tinti nel 1936, sappiamo che l’autore incontrò non poche difficoltà nel realizzare il ritratto suddetto. Pare che Pio IX posasse per lui in maniera alquanto distratta e frettolosa. Lo scultore deluso da tale atteggiamento lasciò Roma e ritornò a Firenze. Questa decisione fu poi da lui spiegata in una lettera destinata al suo amico Benericetti-Talenti. Nonostante il trascorrere di alcuni mesi, l’indifferenza del pontefice al ritratto non mutò. Bartolini ebbe modo di completare l’opera, presso la sua bottega fiorentina, soltanto quando gli fu spedito, dal Vaticano, il goletto papale che Pio IX indossava abitualmente. L’arrivo di questo indumento ecclesiale gli consentì di ultimare alcune rifiniture del busto. L’artista nuovamente amareggiato per il disdicevole comportamento assunto dal papa, ma anche dalle sue ambigue posizioni politiche, vendette il ritratto al principe Anatolio Demidoff. Questi, successivamente, lo regalò al pontefice, il quale, a sua volta, lo donò, insieme alla coppa in alabastro che oggi si conserva nella Sala di Marte del palazzo vanvitelliano, a Ferdinando II. Il Borbone accettò di buon grado i due “presenti” papalini, ma sapeva, in cuor suo, che di certo non erano stati fatti in maniera disinteressata, bensì essi rappresentavano il riconoscimento di un sostegno politico di non poco conto. E’ a tutti ben noto l’episodio che vide Pio IX tradire le scelte, precedentemente da lui stesso adottate, costituzionali, che da tempo erano state richieste dai maggiori esponenti romani del pensiero liberale. L’antefatto ci ricorda che il pontefice, nel marzo del 1848, concesse la Costituzione, ma anche che la sua riforma non fu certamente espressa attraverso nuovi criteri legislativi ed amministrativi, frutto del pensiero moderno, ma che, al contrario, nascondeva una evidente volontà a stabilire dei proficui compromessi con le forze patriottiche del momento. Ma tali comportamenti crearono non pochi malintesi, essi fecero capire al popolo, specialmente quando lo stesso pontefice autorizzò alcune truppe volontarie e regolari a partire per il nord e a schierarsi con l’esercito piemontese impegnato in duri scontri con quello austriaco, che il papa fosse una sorta di novello Cristo giunto in terra a diffondere nuove idee liberali e rinnovatrici. Il suo mito accrebbe maggiormente quando egli, durante il saluto alle milizie romane in partenza per il Piemonte, pronunziò la seguente frase: “GRAN DIO BENEDITE L’ITALIA”. Ad aprile dello stesso anno l’equivoco fu chiarito. Il pontefice dichiarò di non voler partecipare alla guerra contro l’Austria, adducendo ad una serie di motivi prettamente religiosi. Il mito del papa liberale così cadde, e, nell’immediato, fu sostituito da quello del pontefice traditore. Intanto Pio IX, nel tentativo di placare la popolazione e guadagnar tempo, istituì una serie di governi non dichiaratamente costituzionali. Il malcontento dei romani sfociò nella rivoluzione, e il vicario di Cristo, fortemente intenzionato a salvare la propria pelle, scappò dalla capitale papalina chiedendo asilo politico a Ferdinando II. La storia inoltre ci insegna che Pio IX non si rifugiò presso la reggia vanvitelliana, ma nella cittadina di Gaeta. E per strani scherzi del destino, quel suo ritratto in marmo, eseguito da Lorenzo Bartolini, che, l’anno precedente, egli aveva tanto snobbato, gli tornò utile come dono da fare al Borbone, in cambio della preziosa ospitalità ricevuta. Luigi Fusco |
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DELL’ATTIVITA’ DI GIUSEPPE CAMMARANO NEI SITI REALI CASERTANI
L’artista Giuseppe Cammarano (Sciacca, 1766 – Napoli, 1850) è stato tra i maggiori esponenti della pittura napoletana dalla fine degli anni Novanta del Settecento alla prima metà del secolo successivo. Egli svolse la sua attività di frescante, ornatore e ritrattista per più di settanta anni; diversi furono i suoi maestri, e sin dall’inizio della sua carriera fu al servizio dei Borbone, senza trascurare altre importanti committenze come quelle dei francesi e del resto della nobiltà regnicola. La produzione pittorica partenopea di Cammarano è sterminata, ma molte sue opere si trovano anche in Terra di Lavoro. Difatti alcune sue esecuzioni sono presenti nei siti reali borbonici di Caserta, Carditello e San Leucio. Già nel 1791 Giuseppe Cammarano venne impegnato per la realizzazione delle “pitture della Stanza da Letto” della Reggia di Carditello. Presso questa regal tenuta di campagna l’artista siciliano per l’esecuzione dei suoi affreschi si ispirò ai lavori, già conclusi, di Fedele Fischetti, di Domenico Chelli (suo primo maestro) e Jacob Philipp Hackert. La visione dei dipinti della fabbrica di Carditello consentì a Cammarano di coniare un nuovo linguaggio pittorico che facesse capo alle esperienze tardo-barocche di Fischetti, alle scenografie architettoniche ed illusionistiche di Chelli, ed ai fotografici paesaggi neoclassici di Hackert. Le stupefacenti prove dimostrate dal siciliano attraverso le pitture di Carditello furono premiate da Ferdinando IV di Borbone con un viaggio di studio a Roma. Durante il suo soggiorno romano ebbe modo di aggiornarsi sulle novità neoclassiche allora in voga. Il suo ritorno a Napoli fu segnato da un nuovo incarico da parte di re Ferdinando, questi gli chiese di restaurare tutti gli affreschi della reggia di Carditello, deturpati dalle truppe francesi durante l’occupazione del sito avvenuta a seguito della rivoluzione partenopea. Come è noto i Borbone non fecero in tempo a tornar dalla Sicilia dopo la parentesi repubblicana che dovettero ritornarvi a causa dell’arrivo delle forze napoleoniche. Anche durante il cosiddetto “decennio francese” Cammarano ebbe modo di esprimere la propria arte per importanti committenze; ma fu in particolare al tempo di Murat che egli raggiunse la massima notorietà. Sotto la reggenza del cognato di Napoleone Giuseppe Cammarano divenne pittore di corte e professore della Real Accademia di Belle Arti di Napoli. Immediato fu poi il suo impiego come frescante in alcuni ambienti della Reggia vanvitelliana. Nel 1814 dipinse “Minerva premia le arti e le scienze” nella volta della Sala del Consiglio dell’appartamento ottocentesco. Dopo qualche anno eseguì anche l’affresco raffigurante “Cerere” nel piccolo “cabinet” poi dedicato a Francesco II. La produzione artistica di Giuseppe Cammarano non conobbe arresti neanche con il ritorno dei Borbone, infatti per quanto possa esser stato maestro di fiducia dei napoleonidi, re Ferdinando, apprezzando ancora una volta le sue velleità artistiche, lo volle nuovamente suo pittore di corte, superando, con grande lungimiranza intellettuale, qualsiasi pregiudizio politico ed ideologico. Nel 1818 l’autore di Sciacca dipinse per la restaurata dinastia borbonica in una sala “murattiana” dell’appartamento nuovo del real palazzo casertano “Ettore che rimprovera Paride”. Ma il capolavoro di Cammarano eseguito nella Reggia di Caserta è l’affresco, stante nella “Camera da Letto di Francesco II”, raffigurante “La vittoria di Teseo sul Minotauro” (1824). In questo dipinto il pittore siciliano sintetizzò tutta la cultura neoclassica appresa attraverso la visione delle opere di Hackert e di Füger, senza omettere la sua personale interpretazione del classicismo rinascimentale di Raffaello. L’attività del pittore di Sciacca proseguì ancora in favore della corte borbonica anche sotto la reggenza di Francesco I. Nota è infatti la serie dei ritratti della famiglia del figlio di re Ferdinando, attualmente conservati nei depositi della Reggia vanvitelliana. Gli ultimi anni della sua carriera artistica pure furono spesi a Caserta. La stima accordatagli da Ferdinando II gli consentì di mantenere la sua posizione di pittore di corte, inoltre fu incaricato di procedere ai restauri di diversi affreschi del Belvedere di San Leucio, a cui aveva già accorso, sia nella veste di autore che di restauratore, diversi anni prima. All’indomani del trasferimento della sedia vescovile casertana dalla medioevale borgata di “Casa Hirta” alla ormai istituita città del piano, Cammarano venne impegnato nella decorazione di alcuni ambienti della nuova cattedrale di Caserta. L’opera massima di questi suoi ultimi interventi è la “Ultima Cena” (1843) dell’abside. Nel 1850 l’artista siciliano concludeva la sua esistenza, e già nel 1862, quindi a dodici anni dalla sua morte, veniva ricordato, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Londra, nell’elenco dei maestri più rappresentativi della scuola napoletana di fine Settecento e della prima metà dell’Ottocento. Nella relazione approntata in merito veniva così precisata la sua posizione: “surse tra noi il Cammarano Giuseppe in quella medesima guisa che a capo dell’Italiana pittura e in più grandi proporzioni d’importanza e di merito, sorgevano nella rimanente Italia il Camuccini, il Benvenuti, il Landi”. (Cfr. “Relazione sullo svolgimento delle tre arti, pittura, scultura ed architettura nelle province meridionali dal 1777 al 1862, scritta in occasione del sottocomitato speciale delle arti in Napoli, per l’esposizione di Londra del 1862”, in ‘Memorie di Belle Arti’, Napoli, 1862, Miscellanea XXVII, p. 32.). Luigi Fusco |
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