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Eroi
| Le Due Sicilie hanno dato i natali ad innumerevoli nonchè illustri personalità, distintesi in campo artistico, letterario, scientifico e culturale. |
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DELL’ATTIVITA’ DI GIUSEPPE CAMMARANO NEI SITI REALI CASERTANI
L’artista Giuseppe Cammarano (Sciacca, 1766 – Napoli, 1850) è stato tra i maggiori esponenti della pittura napoletana dalla fine degli anni Novanta del Settecento alla prima metà del secolo successivo. Egli svolse la sua attività di frescante, ornatore e ritrattista per più di settanta anni; diversi furono i suoi maestri, e sin dall’inizio della sua carriera fu al servizio dei Borbone, senza trascurare altre importanti committenze come quelle dei francesi e del resto della nobiltà regnicola. La produzione pittorica partenopea di Cammarano è sterminata, ma molte sue opere si trovano anche in Terra di Lavoro. Difatti alcune sue esecuzioni sono presenti nei siti reali borbonici di Caserta, Carditello e San Leucio. Già nel 1791 Giuseppe Cammarano venne impegnato per la realizzazione delle “pitture della Stanza da Letto” della Reggia di Carditello. Presso questa regal tenuta di campagna l’artista siciliano per l’esecuzione dei suoi affreschi si ispirò ai lavori, già conclusi, di Fedele Fischetti, di Domenico Chelli (suo primo maestro) e Jacob Philipp Hackert. La visione dei dipinti della fabbrica di Carditello consentì a Cammarano di coniare un nuovo linguaggio pittorico che facesse capo alle esperienze tardo-barocche di Fischetti, alle scenografie architettoniche ed illusionistiche di Chelli, ed ai fotografici paesaggi neoclassici di Hackert. Le stupefacenti prove dimostrate dal siciliano attraverso le pitture di Carditello furono premiate da Ferdinando IV di Borbone con un viaggio di studio a Roma. Durante il suo soggiorno romano ebbe modo di aggiornarsi sulle novità neoclassiche allora in voga. Il suo ritorno a Napoli fu segnato da un nuovo incarico da parte di re Ferdinando, questi gli chiese di restaurare tutti gli affreschi della reggia di Carditello, deturpati dalle truppe francesi durante l’occupazione del sito avvenuta a seguito della rivoluzione partenopea. Come è noto i Borbone non fecero in tempo a tornar dalla Sicilia dopo la parentesi repubblicana che dovettero ritornarvi a causa dell’arrivo delle forze napoleoniche. Anche durante il cosiddetto “decennio francese” Cammarano ebbe modo di esprimere la propria arte per importanti committenze; ma fu in particolare al tempo di Murat che egli raggiunse la massima notorietà. Sotto la reggenza del cognato di Napoleone Giuseppe Cammarano divenne pittore di corte e professore della Real Accademia di Belle Arti di Napoli. Immediato fu poi il suo impiego come frescante in alcuni ambienti della Reggia vanvitelliana. Nel 1814 dipinse “Minerva premia le arti e le scienze” nella volta della Sala del Consiglio dell’appartamento ottocentesco. Dopo qualche anno eseguì anche l’affresco raffigurante “Cerere” nel piccolo “cabinet” poi dedicato a Francesco II. La produzione artistica di Giuseppe Cammarano non conobbe arresti neanche con il ritorno dei Borbone, infatti per quanto possa esser stato maestro di fiducia dei napoleonidi, re Ferdinando, apprezzando ancora una volta le sue velleità artistiche, lo volle nuovamente suo pittore di corte, superando, con grande lungimiranza intellettuale, qualsiasi pregiudizio politico ed ideologico. Nel 1818 l’autore di Sciacca dipinse per la restaurata dinastia borbonica in una sala “murattiana” dell’appartamento nuovo del real palazzo casertano “Ettore che rimprovera Paride”. Ma il capolavoro di Cammarano eseguito nella Reggia di Caserta è l’affresco, stante nella “Camera da Letto di Francesco II”, raffigurante “La vittoria di Teseo sul Minotauro” (1824). In questo dipinto il pittore siciliano sintetizzò tutta la cultura neoclassica appresa attraverso la visione delle opere di Hackert e di Füger, senza omettere la sua personale interpretazione del classicismo rinascimentale di Raffaello. L’attività del pittore di Sciacca proseguì ancora in favore della corte borbonica anche sotto la reggenza di Francesco I. Nota è infatti la serie dei ritratti della famiglia del figlio di re Ferdinando, attualmente conservati nei depositi della Reggia vanvitelliana. Gli ultimi anni della sua carriera artistica pure furono spesi a Caserta. La stima accordatagli da Ferdinando II gli consentì di mantenere la sua posizione di pittore di corte, inoltre fu incaricato di procedere ai restauri di diversi affreschi del Belvedere di San Leucio, a cui aveva già accorso, sia nella veste di autore che di restauratore, diversi anni prima. All’indomani del trasferimento della sedia vescovile casertana dalla medioevale borgata di “Casa Hirta” alla ormai istituita città del piano, Cammarano venne impegnato nella decorazione di alcuni ambienti della nuova cattedrale di Caserta. L’opera massima di questi suoi ultimi interventi è la “Ultima Cena” (1843) dell’abside. Nel 1850 l’artista siciliano concludeva la sua esistenza, e già nel 1862, quindi a dodici anni dalla sua morte, veniva ricordato, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Londra, nell’elenco dei maestri più rappresentativi della scuola napoletana di fine Settecento e della prima metà dell’Ottocento. Nella relazione approntata in merito veniva così precisata la sua posizione: “surse tra noi il Cammarano Giuseppe in quella medesima guisa che a capo dell’Italiana pittura e in più grandi proporzioni d’importanza e di merito, sorgevano nella rimanente Italia il Camuccini, il Benvenuti, il Landi”. (Cfr. “Relazione sullo svolgimento delle tre arti, pittura, scultura ed architettura nelle province meridionali dal 1777 al 1862, scritta in occasione del sottocomitato speciale delle arti in Napoli, per l’esposizione di Londra del 1862”, in ‘Memorie di Belle Arti’, Napoli, 1862, Miscellanea XXVII, p. 32.). Luigi Fusco |
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DOMENICO MONDO, LA SUA ARTE, LE SUE VICENDE, IL SUO PALAZZO
Il pittore Domenico Mondo è stato tra le personalità artistiche più rilevanti della Terra di Lavoro durante l’età borbonica. Nato a Capodrise, nel 1723, ereditò dal padre molteplici interessi culturali, che spaziavano dalle rappresentazioni formali alla letteratura metastasiana, versatile fu inoltre la sua passione per la musica. Ma il suo grande amore fu di certo la pittura. Domenico Mondo fu allievo di Francesco Solimena. Presso il maestro di Solofra apprese il gusto barocco ed il senso dell’estetica “ben composta e di ottima colorazione”. La sua arte fu immediatamente compresa da Luigi Vanvitelli, il quale lo fece entrare nella sua cerchia per la realizzazione di lacune decorazioni per il palazzo borbonico di Caserta. Però nonostante fosse amato da principi ed illustri committenti, la vera fortuna di Mondo cominciò solo nel 1789: quando Ferdinando IV gli offrì l’incarico di condirettore, insieme al tedesco Tischbein, della Real Accademia di Belle Arti di Napoli. Purtroppo la sua pittura per quanto potesse essere squisitamente tardo-barocca, a tratti velatamente rococò, e di semplice grazia, egli non riuscì comunque a conseguire i successi che aveva tanto sperato. Nello stesso ’89 Domenico Mondo non divenne il pittore della corte di Ferdinando IV e Maria Carolina. Questo incarico venne affidato ad un altro tedesco: Jacob Philipp Hackert. La delusione del capodrisano fu tale che lo indusse a scrivere un sonetto per lo smacco ricevuto. Con le seguenti parole egli riuscì ad esprimere la propria amarezza: IL POETA DI CORTE A NIUN SIMILE, SIRE, IL GIUDIZIO VOSTRO HA SCELTO BENE MA SE ANCOR VI PIACESSER VARIE SCENE, RESTI PUR QUEL DI CORTE, IO DI CORTILE. CH’IO MI CONTENTO COL MIO BASSO STILE CANTAR A SOLO COME VIENE, VIENE, LASCIANDO ALTRUI LA GLORIA CHE CONVIENE E STARMI A UN CANTO, DISPREZZATO E VILE. Ma il disagio di Domenico Mondo non fu soltanto di tipo professionale, molti suoi dispiaceri vennero provocati da fatti prettamente economici. Difatti, diversi erano i debiti che la Corona borbonica aveva nei suoi confronti, e tanti erano gli arretrati che egli attendeva. Mondo, anche in questa occasione, riuscì a manifestare i propri dissapori attraverso la propria poesia. Ed un altro sonetto fu redatto, questa volta però indirizzato al ministro Bernardo Tanucci. Lo scritto così recitava: ASPETTAR PER QUATTRO ANNI LA RISERBA DI UN AFFAR CHE NON HA CAPO NE’ CODA, TRATTAR CON UN FISCAL FATTO ALLA MODA E CON UN ARCHITETTO ANCOR IN ERBA, STARE A DISAGIO IN VITA AMARA E ACERBA COLLA SPERANZA SOL DI AVER LA BRODA MENTRE SI DA’ AI COGLION LA CARNE SODA E TAL GENTE VEDER GONFIA E SUPERBA. Dalla lettura di questo componimento si evince che le lamentele del capodrisano non erano rivolte solo all’ex reggente toscano, ma anche al figlio di Vanvitelli, Carlo, il quale dal 1773, dopo la morte del padre, era stato nominato, dal Consiglio d’Amministrazione della Casa borbonica, Real Primo Architetto di Corte. Tra mille difficoltà e mancate opportunità Domenico Mondo riuscì comunque ad affermare il proprio linguaggio artistico, caratterizzandolo attraverso il recupero della fortunata tradizione barocca napoletana e mediandolo con il naturalismo di Mattia Preti e la pittura illusionista e piacevole di Luca Giordano. Mondo lavorò sostanzialmente tra Napoli e Caserta; molti sono i dipinti a lui attribuiti e ritrovati nelle tante chiese, nonché presso diversi privati, del napoletano e del casertano. Ma la testimonianza tangibile di questo pittore resta la sua residenza di Capodrise. Questo palazzo è il risultato di una visione architettonica fortemente barocca. Negli ultimi anni tale edificio è stato oggetto di vari interventi di restauro che ne hanno ripristinato, in parte, l’aspetto originario. In esso si sviluppano alcune sale di forma rettangolari, aventi la funzione di ambienti di rappresentanza, in cui è possibile riconoscere l’impianto decorativo che fu realizzato dallo stesso Mondo; altre pitture, invece, caratterizzate da un visibile quadraturismo scenografico sembra siano state eseguite dai fratelli Magri, già in forza presso il real complesso vanvitelliano di Caserta. Domenica Mondo morì nel 1806, quando a Napoli c’erano i francesi di Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone; ma ormai la sua pittura, come quella dei suoi coevi come Bardellino, Fischetti e tanti altri, era solo un ricordo del passato. Nuove tendenze affascinavano la moderna nobiltà napoletana, nuovi artisti d’oltralpe fecero la loro fortuna nella capitale partenopea. Ma questa è un’altra storia…………………
Luigi Fusco |
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TOMMASO DE VIVO ACCADEMICO ATELLANO AL SERVIZIO DEI BORBONE L’antica città di Atella, tra le sue tante beltà storico-artistiche ed archeologiche, ed i suoi innumerevoli personaggi storici, verso la fine del XVIII secolo, ha dato i natali anche al pittore Tommaso De Vivo. Nato da Pietro ed Elisabetta Marchesoni, l’artista atellano iniziò il suo apprendistato presso la Real Accademia di Belle Arti di Napoli. Ancora adolescente De Vivo conseguì la specializzazione in pittura eseguendo diverse copie di alcuni dipinti Cinque-Seicenteschi, conservati nel Real Museo Borbonico della capitale partenopea. I livelli raggiunti nell’arte del copiare gli consentirono, successivamente, di entrar a far parte di svariati circoli intellettuali composti dalla miglior nobiltà napoletana, nonché dalla più stimata borghesia locale. Principi, marchesi, avvocati e notai furono i principali acquirenti delle opere dell’atellano. La signoria partenopea tanto ambiva ad avere dentro casa una copia di un Caravaggio, Raffaello o Ribeira eseguita da Tommaso De Vivo. Un suo dipinto sostituiva egregiamente l’originale e rendeva alla parete, verosimilmente tappezzata in seta di San Leucio, di un appartamento di un qualsiasi palazzo, probabilmente sanfeliciano, un prestigio a dir poco effimero, ma quanto più efficace nel sostituire l’autentico. L’amicizia con il marchese Luigi Medici consentì al De Vivo di ricevere la protezione del sovrano Francesco I di Borbone; questi assegnò al pittore un sussidio di 24 ducati mensili, perché andasse a Roma a perfezionarsi nella disciplina pittorica. Nella capitale pontificia l’atellano conobbe l’arte del Landi e del Camuccini. Presso la città eterna De Vivo si esercitò nel disegno ed apprese i fondamenti dell’arte romana. Il soggiorno romano fece conoscere al De Vivo anche i grandi capolavori del Cinquecento e del Seicento, rispettivamente rappresentati dalle opere di Raffaello e Caravaggio. Nonostante gli entusiasmi dovuti alla nuova esperienza artistica al di fuori della propria patria, l’autore campano mantenne sempre forti legami con l’ambiente culturale insito nella cittadina napoletana. Gli anni Trenta del XIX secolo segnarono per Tommaso De Vivo il suo ritorno a Napoli e l’investitura di pittore della Real casa borbonica. Egli riuscì ad accattivarsi le simpatie dei sovrani partenopei nel 1830, quando presentò alcuni suoi lavori all’Esposizione Borbonica. Per l’occasione l’atellano dipinse “Diomede che scende dal Carro”, tela oggi esposta al Museo e Gallerie Nazionali di Napoli; “San Francesco di Paola in Estasi” ed un “Ritratto virile”, entrambi copie di Guido Reni; infine realizzò “Il soccorso all’indigenza”, opera attualmente conservata nei depositi della Reggia di Caserta. La committenza reale diede la possibilità al De Vivo di creare diverse opere di gusto seicentesco, marcatamente naturalistiche ed, in qualche caso, esclusivamente caravaggesche. Ma la “tempeire” culturale dell’Ottocento romantico influì non poco sulla sua pittura. Il richiamo e la celebrazione della cultura medioevale riecheggiò nelle tele di Tommaso De Vivo; le architetture romaniche e le scenografie gotiche divennero i soggetti principali di numerose sue rappresentazioni. Ma di fondo la sua cultura fu impregnata di elementi e dettami squisitamente accademici. Ed è proprio tal caratterizzazione, forse un po’ reazionaria, ma anche conservatrice, che offrì una ulteriore opportunità all’artista originario di Orta di Atella, cioè di ricevere alcuni incarichi relativi alla decorazione, attraverso specifici dipinti, di alcuni ambienti del palazzo reale casertano. Tra il 1845 ed il 1846 De Vivo eseguì la “Sibilla fa osservare ad Enea Tizio incatenato alla rupe, divorato dall’avvoltoio”, la “Zingara predice a Sisto V l’ascesa al pontificato” ed il ritratto di papa Pio IX. Tutte opere sapientemente ispirate all’idea, di tipo rinascimentale, di forma, grandezza, purezza e rispetto della composizione pura ed equilibrata, tanto cara all’arte degli antichi greci e romani. Il favore raggiunto negli anni di Ferdinando II di Borbone diede la possibilità al De Vivo di diventare tra i principali e più importanti pittori attivi a Napoli nella prima metà del XIX secolo. La sua gloria, la sua bravura, e non ultima la sua notorietà, vennero ripagate dal “re Bomba” da una serie di incarichi all’interno della Real Accademia di Belle Arti. La sua fama venne poi ricordata da un altro autore partenopeo, verosimilmente un suo allievo all’Accademia, e presumibilmente di origini atellane, di cui però conosciamo il nome; e questi, appunto, celebrò il maestro attraverso un suo busto-ritratto, oggi esibito nel circolo “Tommaso De Vivo” di Succivo. Luigi Fusco |
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Giacinto Gigante (1806-1876). Con il termine «Scuola di Posillipo» si intende una corrente pittorica che si sviluppò a Napoli tra il 1820 e il 1850. La corrente nacque dalla presenza a Napoli, a partire dal 1815, di un pittore di origine olandese: Antonio Pitloo (1791-1837). La pittura di paesaggio era una tradizione che a Napoli risaliva già alla metà del Seicento con Salvator Rosa. Per tutto il Settecento, la pittura di paesaggio era stata orientata a due filoni principali: il gusto dello scenografico e il gusto del vedutismo turistico. Protagonista del primo filone fu soprattutto Filippo Hackert, con quadri dal taglio orizzontale e ampio sviluppo grandangolare. Del secondo filone ricordiamo in particolare Paolo Fabris che probabilmente introdusse a Napoli la tecnica della gouache, caratteristica di una grandissima parte della produzione partenopea. I piccoli paesaggi realizzati a gouaches erano indirizzati al mercato dei turisti che, nel Settecento, avevano a Napoli una tappa obbligata del loro Grand Tour italiano per ammirarvi il Vesuvio, gli scavi di Pompei e di Ercolano, le isole del golfo. La novità introdotta da Pitloo, nella tradizione locale della pittura di paesaggio, consistette soprattutto nel disegno dal vero e nella resa impressionistica degli effetti di luce e di colore. La sua fu una ricerca che lo accomunò ad un altro grande pittore paesaggista di quel tempo: Camille Corot che, con la scuola di Barbizon, stava sperimentando per la prima volta la tecnica dell’en plain air. È da ricordare che l’ambiente napoletano era a conoscenza della pittura di paesaggio europea, anche perché i protagonisti di queste ricerche, come Corot, Constable, Turner, visitarono anche loro l’Italia facendovi conoscere le loro novità tecniche. Dopo il 1837, anno di morte del Pitloo, il protagonista indiscusso della scuola di Posillipo divenne Giacinto Gigante (1806-1876). Figlio di un altro pittore, Gaetano, il Gigante portò a livelli eccelsi la sensazione pittoresca dei suoi paesaggi e delle sue vedute, dove prevale sempre il sentimento di intimismo lirico. Gli angoli visivi non sono mai ampi, ma ristretti a piccoli spazi visti con taglio quasi fotografico. La sensazione intima è data dalla quotidianeità quasi banale delle cose raffigurate che però si trasfigurano in una visione calma e quasi malinconica della realtà. La scuola di Posillipo esaurì la sua maggior vitalità tra il 1850 e il 1860, quando le nuove tendenze naturalistiche, che a Napoli furono introdotte soprattutto dai fratelli Palizzi, resero inattuali la liricità così forte e così romantica dei pittori di questa scuola. Tra i protagonisti minori di questa scuola è da ricordare Achille Vianelli che dal 1848 al 1894, anno della sua morte, ha vissuto ed operato a Benevento. La sua pittura, di un vedutismo più fotografico e meno lirico rispetto a quella di Gigante, rimane come interessante documento iconografico per scoprire l’aspetto ottocentesco di luoghi ancora esistenti o scomparsi. |
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Giuseppe Tomasi di Lampedusa |
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Nacque a Palermo il 23 dicembre del 1896 da un’antica famiglia nobiliare. Giuseppe Tomasi, duca di Palma e principe di Lampedusa fu l’unico figlio maschio di Giulio Maria Tomasi e Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò. La primogenita ed unica sorella dello scrittore, Stefania, morì di difterite nel 1897 all’età di tre anni. La madre, donna di forte personalità, di spirito aperto e indipendente, esercitò una grande influenza su di lui, manifestando d’altra parte anche un’accentuata possessività nei suoi confronti. I rapporti con il padre, sicuramente più retrivo, furono invece piuttosto freddi. Alle lettere arrivò tardi, dopo un’esistenza fatta di viaggi all’estero e solitari, lunghi soggiorni nel palazzo paterno di Palermo e nella grande casa di campagna di Santa Margherita Belicea, la quale conteneva un teatro. Fu proprio qui che Tomasi di Lampedusa assistette per la prima volta all’Amleto messo in scena da una compagnia di girovaghi. Sempre a Santa Maria Belicea apprese a leggere e scrivere, sia in italiano, grazie ad una maestra elementare (Donna Carmela), sia in francese, per le cure della madre. La nonna, dal suo canto, lo allietava con la lettura di Regina dei Carabi di Salgari. Nel 1911 si iscrisse al liceo classico che frequentò prima a Roma, poi a Palermo. Si iscrisse, in seguito, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma, nel 1915, ma non conseguì mai la laurea, contrariamente a quanto è stato più volte affermato. Partecipò alle due ultime guerre mondiali e, fatto prigioniero nella prima, riuscì tuttavia a fuggire, traversando a piedi l’intera Europa. Ricoprì la carica di ufficiale effettivo sino al 1925, poi abbandonò l’esercito e si ritirò in Sicilia, allontanandosi da essa solo per compiere viaggi finalizzati alla conoscenza delle letterature straniere, in particolare della narrativa francese dell’Ottocento. Nella biografia di Tomasi di Lampedusa un’importanza decisiva ha la partecipazione al congresso letterario di San Pellegrino del 1954, al seguito del cugino poeta Luigi Piccolo. In quell’occasione, Tomasi di Lampedusa conobbe Montale, Ravegnani, Bellonci, Bassani. Della sua biografia, cosa che sfogliando libri ed enciclopedie lascia alquanto delusi, non si hanno molte altre notizie, oltre a quelle già riportate; sappiamo che gran parte del tempo fu speso dal nobile scrittore in letture e meditazione. Taciturno e schivo, tendeva volentieri all’isolamento; diceva: «Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone». In una recensione de Il Gattopardo apparsa nel 1959 su «Comunità», Geno Pampaloni, famoso critico letterario scomparso il 17 gennaio 2001, spiegava come anche dalla prosa di Tomasi di Lampedusa si riuscisse ad intuire che: «Tutta la sua vita era stata un’avventura spirituale intensa e sorvegliata, una consapevole lettura del mondo e del nostro tempo». Poco si sa circa l’origine e lo sviluppo dell’attività letteraria dell’autore siciliano, anche se si è accreditata l’ipotesi che, tornato a Palermo, egli si sia messo a scrivere quasi di getto Il Gattopardo. Eugenio Montale usava definirlo come uno di quegli «scrittori di un unico libro» di cui è piena la nostra letteratura tra i memorialisti-narratori, specialmente dell’Ottocento. Il Gattopardo, in effetti, è l’opera cui è legata la vastissima fama dell’autore siciliano e rappresenta, inoltre, una sorta di lascito ereditario, essendo giunto sotto gli occhi di tutti nel 1958, quando Tomasi di Lampedusa, a causa di un carcinoma polmonare, era già morto da un anno, precisamente il 23 luglio del 1957: «Ancora una volta il destino era stato fedele all’uomo, che era schivo del clamore, del successo, della retorica: e glieli aveva risparmiati», (G. Pampaloni). Il Gattopardo, vincitore del Premio Strega, fu anche oggetto dell’impegno di Luchino Visconti, che nel 1963 lo tradusse in film, lasciando interpretare a Burt Lancaster la parte del principe Fabrizio Salina. Il dattiloscritto de Il Gattopardo fece il giro di diverse case editrici e fu respinto da lettori autorevoli come Vittorini. Se ne interessò invece Bassani che, recatosi in Sicilia, ormai morto l’autore, trovò un manoscritto dell’opera, altri scritti, testi di saggi e racconti, riuscendo così a ricostruire la complessa personalità di Tomasi di Lampedusa. L’attenzione della critica si concentrò inizialmente sulla tesi conservatrice dell’opera, che sembrava giustificare la convinzione dell’immobilità della storia. In realtà il fulcro del romanzo è da ricercare nel motivo decadente del presagio della morte e nell’antico tema dell’ineluttabile fluire del tempo. Oltre al romanzo principale, sono apparsi postumi i Racconti (1961), le Lezioni su Stendhal (1977) e Invito alle lettere francesi del Cinquecento (1979). In un articolo apparso sulla terza pagina del «Corriere della Sera» del 6 dicembre 1996, il figlio adottivo di Tomasi di Lampedusa rivelava la filosofia del principe. Studioso di musica e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, Gioacchino Lanza Tomasi confessava: «Lampedusa era certamente un uomo di segreti». Riferendosi al capolavoro del genitore diceva: «Lampedusa si identificava con il principe Salina»; ma la famosa battuta del «cambiare per non cambiare», pronunciata da Tancredi all’interno della vicenda, come spiegava ancora Lanza Tomasi, «non è la morale del romanzo, altrimenti Lampedusa l’avrebbe fatta pronunciare al principe. Lampedusa, invece, considerava la morale del cambiare per non cambiare schifosa e inaccettabile». Si dice da sempre che il personaggio di Tancredi sia stato ispirato allo scrittore proprio da Lanza Tomasi, che rispondendo alle domande dell’intervistatore raccontava: «Nel 1953 Lampedusa sente di dover fare qualcosa per animare Palermo. E’ uomo di cultura mostruosa, ha letto tutto. E allora prende a frequentare un gruppo di giovani, conosciuti in casa del barone Bebbuzzo Sgadari di Lo Monaco. Bebbuzzo era un’originale figura di omosessuale, un aristocratico. In casa sua passavano gli intellettuali, da Bacchelli, a Berenson e Calvino. Da Bebbuzzo, Lampedusa conosce Francesco Orlando, Francesco Agnello, Antonio Pasqualino, me e la mia fidanzata di allora, Mirella Radice. Orlando diverrà suo discepolo, io verrò adottato». Lanza Tomasi continuava spiegando: «Dipingono Lampedusa come un conservatore, ma non lo era. Votò monarchico al referendum del 1946. Poi credo votasse per la Dc. Ma conosceva Marx, studiava Lenin, Croce, Gramsci. E credeva nella rivoluzione francese. Celebrato come scrittore dell’aristocrazia, considerava la decapitazione di Luigi XVI «la testa meglio staccata della storia». Era persuaso che la storia dovesse muoversi di tanto in tanto con delle scosse formidabili». Lanza Tomasi definiva ancora Lampedusa come «un uomo d’azione» che: «Tentò la fuga dal campo di concentramento, viaggiò in Europa con la madre, si fidanzò due volte. Poi sposò la principessa baltica Licy Wolffstomersee in Lettonia, prima donna psicanalista d’Italia. Psicanalizzò Bebbuzzo, me e Orlando, ma Lampedusa declinò sempre, sorridendo scettico». Entrando ancor di più nell’intimità di Lampedusa, Lanza Tomasi diceva: «Si levava al mattino presto, usciva di casa, comprava il «Corriere» e il «Giornale di Sicilia» e leggeva al caffè, lavorando. Seguiva la politica internazionale e si divertiva a segnare gli strafalcioni dialettali del «Sicilia». Dalla politica e dalla letteratura traeva una lezione morale: come si agisce. E questo insegnava a noi ragazzi. La televisione non gli piaceva. Non volle comprarla e quando un televisore gigantesco apparve in casa dell’amato cugino Casimiro Piccolo, sentenziò: «Con quell’apparecchio sulle ruote non si può più conversare». Disprezzando la provincia, l’immobilismo, Lampedusa ci spingeva a guardare altrove. Nessuno lavorava di quei nobili, non mio padre, non i Piccolo. Il solo Giovanni Grasso era dirigente ai cantieri navali ed era un caso. Si passava pigramente dai cocktail, dai miei genitori a palazzo Mazzarino, al calcolo dei bilanci in rovina. Lampedusa no: leggeva Moravia e gli piaceva, leggeva Pratolini. Disprezzava Patti, ma apprezzava Brancati. Diceva che Montale era secondo solo ad Eliot, nel Novecento». Alla domanda del giornalista sul perché Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, scrivendo al figlio Giuseppe ormai cinquantenne, lo nominasse sempre al femminile come fosse una donna, Lanza Tomasi alzava la mano in diniego: «Qualche critico ha parlato di omosessualità, ma nei testi non ce n’è traccia». Sui segreti di Tomasi di Lampedusa, che Lanza pareva conoscere ma non voler rivelare, forse rimarrà sempre il mistero o, ancora, il dubbio che siano più banali di quel che s’immagina. Un'ultima frase, riportata nel libro di Enzo Biagi, Dizionario del Novecento, può darci l'idea dell’eredità lasciataci da questo personaggio straordinario che così bene aveva colto l’avversione della classe dirigente italica al cambiamento: «Bisogna sempre lasciare gli altri nei loro errori». Colpisce, di queste parole così eticamente ambigue, la radice culturale aristocratica, mediterranea e cattolica, che per noi «europei» di oggi è facile mettere a confronto con la posizione sensibilmente più assertiva e pragmatista espressa in altri paesi dell’Unione, protestanti, di tradizione più solidamente borghese e democratica. Una posizione che si sintetizza nelle parole di un grande personaggio della cultura continentale, contemporaneo del Tomasi: «Chi non ritiene che la conoscenza debba convertirsi in obbligo morale, diviene preda del principio di potenza, e ciò produce effetti dannosi, rovinosi non solo per gli altri, ma anche per lui stesso» (Carl Gustav Jung). A cura della Redazione Virtuale | |
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