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Brigantaggio

Con il termine "Brigantaggio" la storiografia risorgimentale ha da sempre indicato e descritto quel movimento di liberazione popolare che si lev? spontaneamente nel Sud d'Italia all'indomani della spregiudicata Unit? realizzata dai Savoia. Per molti anni i briganti sono stati considerati alla stregua di comuni criminali, anarchici e sanguinari, quando avrebbero dovuto ricevere tutt'altre considerazioni.

Chi lotta e muore sotto una bandiera, difendendo la propria nazione dall'invasore nel nome del suo Re legittimo non pu? essere considerato che un patriota ed eroe cui devono essere rivolte soltanto parole d'elogio.

Questa sezione si propone l'obiettivo di contribuire alla restituzione della dignit? a quelle centinaia di migliaia di briganti che furono barbaramente trucidati dall'invasore piemontese attraverso una breve panoramica storica sul Brigantaggio, una rassegna di documenti e testimonianze dell'epoca e una galleria fotografica, piccola ma efficace.



LA BATTAGLIA DI BAUCO PDF Stampa E-mail

LA BATTAGLIA DI BAUCO

 

 

 

Le ingenti forze del generale sabaudo conte Maurizio de Sonnaz  alla fine di quel gennaio 1861 sono determinate a stroncare il centro della resistenza filo borbonica in Ciociaria che è tenuto in vita da Luigi Alonzi, detto Chiavone, generalissimo di S. M. Francesco II. Esse presidiano Sora, città natale del capobrigante, e riescono, per la preponderanza dei mezzi, a respingere il suo ennesimo tentativo di liberare la città dagli invasori piemontesi. De Sonnaz decide di inseguire la banda per farla finita una volta per tutte con la sicumera della sua stragrande superiorità numerica e di armamento.

I briganti si dirigono, come al solito nei rovesci di fortuna verso il confine papalino, per riorganizzarsi.  Passano, la sera del 21, per l’abbazia di Casamari e lì ricevono ospitalità e cure per i feriti, dati gli ottimi rapporti tra Chiavone e le istituzioni ecclesiastiche della zona.

Contravvenendo al diritto internazionale de Sonnaz ordina alla sua brigata di sconfinare nelle terre del Papa e si accinge ad assediare il convento per intrappolare i briganti.

Alonzi è coadiuvato da un altro comandante, il legittimista alsaziano Théodule de Christen che guida soprattutto ex soldati borbonici siciliani. I due, accortisi della presenza del nemico, il 22 gennaio partono in tutta fretta verso il torrente Amaseno e i monti ernici, attestandosi nell’antica Baùco. L’eccellente accoglienza dei baucani e il senso di sicurezza che infonde la cittadina sul monte Cologni e circondata da mura medioevali, dà tranquillità ai filoborbonici. 

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Li chiamarono ...briganti PDF Stampa E-mail

Dal blog da Ilovenaples2007 

Li chiamarono...briganti - Epilogo con Lina Sastri

Caporal Teodoro PDF Stampa E-mail

Gioseffi TEODORO

alias

Caporal Teodoro

Gioseffi Teodoro, alias Caporal Teodoro, nacque a Barile da una misera famiglia di contadini e guardiano campestre di professione, aderì sin dall'aprile 1861 al brigantaggio nella banda Crocco, e per questo fu ricercato per "cospirazione diretta ad attentare avente per oggetto di cambiare la forma del governo". Dopo essere stato nella banda Crocco passò in quella di Ninco Nanco e successivamente seguì Borjés, venendo appunto soprannominato Caporal Teodoro, prendendo parte, nell'autunno 1861, al sacco di Trivigno, Vaglio, Bella, Ruvo del Monte, Pescopagano e Pietragalla. Con il ritiro dello spagnolo, Gioseffi, finì per ereditare la banda del suo paesano Botte, agendo su un territorio che comprendeva i comuni di S. Fele, Ruvo del Monte, Rapone e Monticchio. La prima azione autonoma della banda Gioseffi risalì al 15 aprile 1862 e fu una disfatta perché fu costretta alla fuga da un reparto di bersaglieri, lasciando sul terreno quattro morti, la druda di Gioseffi, 29 cavalli, sei vacche e numerosi fucili, munizioni e bisacce. Il 16 giugno assieme alla banda Coppa la banda Gioseffi subì un'altra sconfitta, sempre ad opera dei bersaglieri, nelle vicinanze delle Crocelle, mentre il 12 marzo la banda Gioseffi in compagnia delle bande Coppa, Ninco Nanco, Caruso, Malacarne di Melfi, Marciano e Sacchetiello, guidate da Crocco, partecipò al massacro di 15 cavalleggeri Saluzzo, e successivamente il 26 luglio con le bande Caruso, Tortora, Schiavone al massacro di altri 23 cavalleggeri, presso la Rendina. La banda Gioseffi attuò numerosi reati minori: nel 1862 operò nel solo territorio di Melfi sei grassazioni, mentre nel territorio attiguo di Rapolla attuò una grassazione e una tentata estorsione. Il 15 aprile 1863 la sua banda fu decimata, nei pressi di Monticchio, da un reparto di bersaglieri, costringendo Caporal Teodoro ad unirsi dapprima, fino al maggio 1864, con la banda di Malacarne di Melfi, e successivamente con la banda Volonnino, forte di 17 elementi, per evitare che la sua banda, da sola, potesse essere facilmente catturata o distrutta da un semplice plotone dell'esercito piemontese. Il 26 maggio anche Caporal Teodoro fu tra i carnefici dei sette fanti del 4° reggimento trucidati presso il bosco di Civita. Ormai braccato dalle forze repressive guidate dal "traditore" Caruso, il 3 febbraio 1865 Caporal Teodoro si presentava a Rionero al generale Pallavicini. Sulla sua testa, come su quella di Michele Volonnino e di Totaro, pendeva una taglia di 9.000 lire. A carico di Gioseffi furono addebitati tredici capi di imputazione: associazione di malfattori maggiore di cinque, avente lo scopo di delinquere contro le persone e le proprietà dei comuni di Ripacandida, Melfi, Rapolla;

 

grassazione in danno di Ercole Siniscalchi, proprietario di Melfi, nel 1861;

 

arruolamento in banda armata a Rapolla nel 1861;

 

grassazione in danno di Mecca Antonio di Melfi nel 1862;

 

grassazione in danno di Laviano Michele di Melfi nel 1862;

 

grassazione contro Picchimenna Domenico di Melfi nel 1862;

 

omicidio di Cerone Giuseppe di Melfi nel 1862;

 

tentata estorsione di Mendia Giuseppe a Rapolla nel 1862;

 

grassazione contro Tolve Donato;

 

grassazione contro Pastore Luigi, in agro di Venosa, nel 1862;

 

grassazione contro Fasciano Anselmo e Aromatardo Nicola di Melfi nel 1863;

 

assassinio di Schirò Domenico di Melfi nel 1863;

 

sequestro di persona contro Farano Michele di Melfi nel 1863

 

Per questi reati fu condannato dal tribunale militare di Guerra di Potenza, con sentenza pronunziata il 16 giugno 1865, ai lavori forzati a vita.

 

 

da: http://www.brigantaggio.com/sitoteodoro.htm

 

José Borjes valoroso soldato cristiano PDF Stampa E-mail
Francesco Maria AGNOLI
José Borjes valoroso soldato cristiano
tratto da Il Timone, anno 8 (2006) marzo, n. 51, p. 26s.

In località La Lupa, comune di Sante Marie, un cippo marmoreo collocato dall'amministrazione comunale e dal Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio ricorda che lì, l'8 dicembre 1861, «s'infranse l'illusione del gen. José Borjès e dei suoi compagni di restituire a Francesco II il Regno delle Due Sicilie. Catturati da soldati italiani e guardie nazionali di Sante Marie al comando di Enrico Franchini furono fucilati lo stesso giorno a Tagliacozzo». Dall'8 dicembre 2003 questo cippo, sostituendo il precedente, che definiva Borges (o Borjés come si continua a scrivere in Italia) e i suoi seguaci, spagnoli e "duosiciliani", banditi e mercenari, ne riabilita ufficialmente la memoria, riconoscendo la dignità, morale e politica, della causa per la quale si battevano, che tuttavia andava ben oltre la semplice restaurazione della monarchia borbonica.

In realtà, tanto questa quanto l'unificazione politica italiana (per come la intesero e realizzarono i suoi protagonisti) si inquadrano nello scontro epocale fra due civiltà che, dopo oltre due secoli di preparazione, ebbe in Francia nel 1789 la prima esplosione in armi. Da entrambi i lati della barricata se ne era consapevoli. Non per nulla, per molti anni dopo la proclamazione del Regno d'Italia anche su giornali ufficiali ed ufficiosi si continuò a scrivere che le lotte per l'unificazione politica della nazione italiana non erano «rispetto all'umanità, null'altro che mezzi per conseguire quel fine, che a lei sta sommamente a cuore, della totale distruzione del medioevo nell'ultima sua forma: il cattolicesimo» (così scriveva "Il Diritto" dell'11 agosto 1863, il giornale che svolgeva la funzione di portavoce ufficioso di Agostino Depretis).

Nel campo opposto, nella primavera del 1861, la notizia dell'insurrezione del popolo napoletano contro il nuovo potere "piemontese" aveva entusiasmato i legittimisti di tutta Europa per il ritorno della Vandea, di una nuova Vandea che avrebbe saputo infliggere ai "giacobini" una sconfitta definitiva.

E' questa convinzione a spiegare l'accorrere da tutta Europa (e addirittura dagli Stati Uniti e dal Canada) di volontari pronti a battersi per restituire il trono a Francesco II. La simpatia per il giovane re, brutalmente spodestato contro tutte le regole del diritto internazionale, vi aveva la sua parte, ma la molla profonda era la consapevolezza di un nuovo scontro fra il "vecchio" mondo, nel quale la distinzione fra Dio e Cesare non negava l'influenza sociale della religione e l'obbligo del potere politico di rispettare i principi essenziali di un naturale ordine superiore (nient'altro significa la formula tradizionale "Trono e Altare"), e il "nuovo", deciso a distruggere la religione (e in particolare il cattolicesimo) o, nei più moderati, a ridurla a un fatto intimistico e privato.

Di questa guerra José Borges, nato nel 1813 a Fernet, piccolo villaggio catalano, fu per tutta la vita consapevole protagonista. Figlio di un militare legittimista e cresciuto nel clima e nel ricordo della gloriosa insurrezione del popolo spagnolo contro le armate napoleoniche, non ebbe esitazione a partecipare, ancora giovanissimo, alle "guerre carliste", schierandosi fra i legittimisti, che appoggiavano le aspirazioni al trono di don Carlos, fratello di Ferdinando VII, contro i liberali, sostenitori di Isabella, figlia minorenne del defunto re, e della reggente Maria Cristina.

Costretto dalla sconfitta all'esilio in Francia, Borges accettò con entusiasmo la proposta dei comitati borbonici di recarsi nell'Italia meridionale per dare organizzazione militare agli insorti (i "briganti" della nostra storiografia ufficiale) e assumerne il comando, ma si accorse ben presto che le capacità organizzative dei comitati non erano all'altezza dell'impresa. Quando, nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1861, sbarcò, con 18 spagnoli e 2 napoletani, sulla spiaggia di Gerace, nei pressi di Capo Spartivento, non solo non trovò ad attenderlo i duemila uomini ben armati che gli erano stati promessi, ma il momento d'oro dell'insorgenza borbonica, quando paesi e piccole città accoglievano in trionfo gli insorti sventolando le bianche bandiere gigliate, era passato e il paese giaceva prostrato sotto la cupa violenza di una feroce repressione.

Nonostante la delusione Borges volle persistere nell'impresa, utilizzando il migliaio di uomini che al comando di un contadino di Rionero, Carmine Donatello Crocco, pur costretti dalla controffensiva "piemontese" ad abbandonare i maggiori centri abitati, tenevano sotto controllo un vasto territorio fra Calabria e Lucania. Tuttavia Borges era troppo buon cristiano e troppo soldato per tollerare l'eccessiva inclinazione alla violenza e al saccheggio di Crocco, che considerava un brigante e che, a sua volta, mal sopportava di obbedire ad un forestiero di troppi scrupoli. Il fallimento, dopo alcuni illusori successi, del tentativo di prendere Potenza per insediarvi un governo provvisorio rese inevitabile la separazione. Crocco, in vista dei difficili approvvigionamenti invernali, suddivise l'armata contadina in piccoli gruppi; Borges, con una dozzina di spagnoli e otto "duosiciliani", prese la via di Roma per fare rapporto al re.

Il viaggio, con freddo intenso fra le montagne abruzzesi coperte di neve, è reso ancora più duro dalla necessità di evitare le pattuglie di bersaglieri e guardie nazionali. Nella tarda notte fra il 7 e l'8 dicembre nei pressi di Tagliacozzo, a quattro miglia dal confine pontificio, la salvezza è a portata di mano, ma i napoletani, che non hanno cavalcature, non sono in grado di proseguire. Per non abbandonarli il generale ordina una breve sosta alla cascina Mastroddi in località La Lupa.

La decisione segna il destino di tutti. Poche ore dopo la cascina è circondata dai bersaglieri del maggiore Enrico Franchini. Nello scontro cadono tre spagnoli. Gli altri sono costretti ad arrendersi dopo che il maggiore ha fatto appiccare il fuoco ai piani bassi della fattoria. Da soldato, Borges porge la spada al maggiore che, sprezzante, la rifiuta.

I prigionieri sono trasportati a Tagliacozzo e qui, verso le otto della sera, frettolosamente fucilati. Il Franchini concede un confessore, ma nega la fucilazione al petto. Lo spagnolo Pedro Martinez chiede un foglio e, anche a nome dei compagni, scrive un ultimo messaggio: «Gesù e Maria. Noi siamo tutti rassegnati ad essere fucilati. Addio. Ci ritroveremo nella valle di Giosafat; pregate per tutti noi». La scarica dei fucili tronca le preghiere recitate ad alta voce dai condannati.
La reazione di Ariano PDF Stampa E-mail

I fatti di Ariano del settembre 1860

I fatti di Ariano sono la storia di uomini semplici, poveri e disperati che, disorientati dagli eventi del tempo, si lasciano trascinare in una vicenda troppo più grande di loro e che rapidamente diviene ingestibile tanto da farsi travolgere completamente.

Siamo nel settembre 1860. Garibaldi con i suoi uomini sta saccheggiando il regno delle due Sicilie. E alle porte di Napoli e continua a combattere con quello che resta dell'esercito Borbonico, ancora perfettamente organizzato e potente. In tutte le città, in tutte le contrade si viene a proporre prepotentemente il dilemma: con chi stare? I garibaldini, i liberali, i rivoluzionari, agli occhi della gente comune sono forestieri, usurpatori che dall'esterno pretendono di capovolgere lo stato delle cose. Non è ancora chiaro cosa possono offrire alla gente in caso di vittoria. E minacciano i lo stato delle cose, la struttura rurale ancora tanto radicata in una società contadina millenaria. E minacciano lo Stato Pontificio e quindi la Chiesa, inaccettabile per la comunità di una città come Ariano sempre stata dalla parte del Papa. Il Clero che è fortemente e strettamente legato ai signori di Ariano. I Signori di Ariano che possono disporre di eserciti di contadini, di villani, al loro servizio. A questo punto ai contadini, di Ariano appare quasi scontato mettersi dalla parte dei Borbone. Perch? non possono scegliere diversamente. E in questa storia si inserisce la figura di Bartolomeo Lo Conte detto Meo Scarnecchia. Colono del Marchese d'Afflitto, sa che è il momento di mettersi in prima linea per difendere la civilt? e le tradizioni e ?contro chi potrebbe generare dolore e miseria. E un valido esecutore di decisioni politiche infinitamente più grandi di lui. E ne pagherà le conseguenze.

Nei giorni che precedono il 4 settembre 1860 ci scatenano accanite discussioni nel palazzo del potere di Ariano. Il Comitato Centrale d'Ordine di Napoli, per il coordinamento insurrezionale e dei Comitati periferici si avvale dell'opera di tre Irpini: il Marchese Rodolfo D'Afflitto di Ariano, Antonio Ciccone da Savignano e Antonio Miele da Andretta. Ariano divenne così il centro del Movimento Insurrezionale Irpino e Sannita. Già dal 25 agosto 1860 Ariano è nota come località proposta per il concentramento delle forze insurrezionali e il Generale Vincenzo Carbonelli viene inviato emissario di fiducia, da Garibaldi. Il Carbonelli, che può disporre di circa 600 uomini giunti da Avellino con il Generale De Conciliis e da S.Angelo con la banda musicale di Taurasi, dà subito disposizione che ad Ariano si concentrino tutti gli insorti di Foggia, del Molise, del Beneventano e di Terra di Lavoro. Nel frattempo il Generale Borbonico Flores avanza da Bari e si ricongiunge a Cerignola con il Generale Bonanno. I borbonici armati a Cerignola sono ormai 6000. I liberali invece attendono l'arrivo del Maggiore De Marco da Benevento con circa 2000 persone armate.

Nella notte dal 3 al 4 settembre ad Ariano ci fu movimento. Non ci si limitò a strappare i manifesti inneggianti alla rivoluzione. E verosimile immaginare come si siano moltiplicate le visite e le raccomandazioni ai contadini da parte dei preti e dei capi-contrada perchè stessero pronti ad affrontare i forestieri, quelli che volevano esporre la citt? alla vendetta del generale Flores con le conseguenze immaginabili per le proprietà, per le case, per la stessa statua di S. Oto tutta d'argento. E, se pure avessero vinto, ci sarebbero state lo stesso conseguenze negative, perchè dietro Garibaldi c'era l'anarchia e il disordine. I filoborbonici erano da tempo impegnati ad organizzare il malcontento e la mobilitazione. Ad Ariano era stato il conte Gaetani che aveva incontrato Leopoldo Parzanese, di cui era compare, lasciandogli anche una somma di denaro per promuovere la sollevazione.

La famiglia Anzani fece pesare il suo potere concreto. Don Nicola era provicario al Vescovado, Don Giuseppe era il depositario dei sali per Ariano e per i paesi circostanti, Don Francesco era Colonnello dello Stato Maggiore borbonico e su Don Girolamo, gi? comandante della Guardia urbana, era corsa la voce che dicesse: Se vince Francesco II io sarò re di Ariano. Vero o falso che fosse il sogno di questa autoincoronazione di don Girolamo, la voce stava a dimostrare che godeva di un notevole potere di cui darò prova concreta.

Alleato degli Anzani era Peppe Santosuosso cappellano di Torre d'Amandi ed arbitro assoluto della volontà di quei villici Il disimpegno dei moderati, in seguito alla precisa direttiva del d?Afflitto, dette spago ai filoborbonici e forza ai loro argomenti.

Lo stesso don Raimondo e i suoi amici si prodigarono per diffondere le direttive del marchese. L?indomani il colono del d'Afflitto, Bartolomeo Lo Conte detto Scarnecchia, sarà in prima fila ad aizzare i contadini contro gli invasori e poi ad aggredirli.

E le guardie nazionali il giorno dopo si trovarono tutte in servizio di ordine pubblico nelle contrade "calde" partecipando attivamente al massacro.

La mattina del 4 settembre arrivano, alla guida di Camillo Miele, dopo due giorni di estenuante marcia, circa 300 "militi della libertà", provenienti da S.Angelo dei Lombardi. E si sdraiano e bivaccarono e oltraggiarono lo spiazzo del Palazzo Vescovile cercando di trovare un poco di sollievo. Intanto, sin dal primo mattino, le campane del centro e delle borgate suonavano a distesa. Il clero svolgeva il suo ruolo, chiamando a raccolta cittadini e villici asserviti ai notabili del paese rimasti fedeli alla monarchia Borbonica.

Verso le 10 si riunirono nel Vescovado i capi dell'insurrezione. Furono subito rimesse in discussione le decisioni prese ad Avellino due giorni prima. I convenuti non erano d'accordo sulla composizione del Governo provvisorio. Ai problemi di rappresentanza ?tutti i capi dei diversi drappelli volevano essere ministri?, si aggiunsero quelli di equilibrio politico. Ma il governo provvisorio proposto non dava garanzie sulla possibilità di difendere la città dalla colonna di Flores. Intanto la gente cominciava a raccogliersi sotto il Vescovado esprimendo ostilit? nei confronti dei forestieri; andassero a radunarsi altrove. Le divisioni, che si determinarono all'interno dell'Episcopio, furono portate in piazza e contribuirono ad aggravare il giudizio su quei liberali che non riuscivano a mettersi d'accordo.

I ?militi della libertà erano stanchi ed erano innervositi sia dalle lungaggini della politica sia dalle minacce degli arianesi che si facevano sempre pi? pesanti.

Il Generale Carbonelli cercava di organizzare la difesa dei suoi uomini da un assalto che ormai appariva quanto mai probabile; gli era già stato sparato un colpo di fucile da una finestra che aveva potuto schivare per miracolo.

Qualcuno tagliò il filo del telegrafo, "la corda elettrica". Un gesto che significava l'isolamento della città, sul quale i capi della sommossa fecero leva per scatenare il dramma.

Da ogni dove i legittimisti a frotte affollavano frettolosamente le vie e le piazze della cittadina al grido di: Viva Francesco II, morte ai forestieri!, mentre Bartolomeo Lo Conte detto Meo Scarnecchia, adunava e inquadrava i villici armati delle contrade prossime. L'atteggiamento provocatorio e minaccioso delle migliaia di monarchici, favorirono lo sbandamento delle poche centinaia di liberali che trovarono rifugio nella vallata. Solo un centinaio d'insorti liberali rimasero a disposizione del Carbonelli asserragliato nel Vescovado. Camillo Miele, Cipriani, i santangiolesi? e altri gruppi sparsi? ritennero pi? opportuno di ritirarsi verso Grottaminarda. Questa divisione delle forze, già così scarse, aggravò la situazione perchè gli aggressori capirono che ormai erano padroni del campo.

Lungo la strada, a S. Rocco, a Cardito, i volontari furono affrontati dai contadini dai quali cercavano di difendersi più con la fuga che con le armi. Si spiega anche così che tra gli assalitori arianesi non ci furono morti. La sproporzione delle forze era tale che non dava nessuna speranza.

Ma a contrada Manna i fuggitivi trovarono una vera e propria imboscata preparata dal prete Santosuosso e da Meo Scarnecchia uomo membruto, robusto e feroce?. E qui si scatenò una ferocia che lascia allibiti. Si trovarono presto alla merc? dei contadini filoborbonici armati che, nascosti tra le siepi e gli arbusti, miravano all'uomo e il comandante Miele esortò i suoi ad allungare il passo senza accettare il combattimento. Poca strada fecero che si accorsero di essere circondati da ogni parte, fu giocoforza fermarsi, prendere posizione e battersi . La lotta fu impari: meno di trecento patrioti allo scoperto contro circa 4000 legittimisti in agguato guidati da Meo Scarnecchia. Quelle masse, sconvolte da giorni e giorni di insistente propaganda sui banditi che sarebbero arrivati per rapire il Santo e attentare alle proprietà e all'onore delle donne, assassinarono, travolsero, si accanirono sui cadaveri. E si aggiunsero le Guardie Nazionali: sia quelle che erano state epurate sia quelle in servizio.

Calata la sera il combattimento cessò, ma i padroni del campo restarono i villani a compiere scempio verso i caduti: denudandoli e anche decapitandoli prima di seppellirli per minimizzare la strage. Al mattino sul terreno si contavano ancora 33 liberali caduti contro gli 80 legittimisti e numerosi furono i feriti da ambo le parti.

Il Magg. Giuseppe De Marco comandante i Cacciatori Irpini, che si trovava ancora nel Beneventano, alla notizia della sanguinosa strage, rimase indignato e promise vendetta.

Il sorgere del sole del 5 settembre fu accolto nuovamente dal suono a distesa dai campanili di tutte le chiese del centro di Ariano e delle campagne alle quali facevano eco gli squilli dei paesi vicini e alle campane a martello si univano i villici che frastornavano l'aria con campanacci e "tofe" rudimentali di corna di bue, al grido di: Viva Francesco II, morte a Garibaldi!

Il gruppo rimasto in Vescovado era assediato da una popolazione minacciosa e ormai esaltata dalle notizie che arrivavano dalle campagne che erano state teatro del massacro.

Fu avviata una trattativa con quelli che erano immediatamente apparsi i capi della sommossa. Convinsero don Girolamo Anzani, don Francesco Gelormini, il canonico Forte, ed altre primarie persone, ad accompagnarli sino ai confini del paese verso le cinque pomeridiane. In realtà Anzani e i suoi amici avevano vinto e accompagnando i filo-garibaldesi fuori della città si accreditavano ancora una volta come i suoi veri dirigenti. Si accreditavano magnanimi e generosi a tutta quella gente, a quella folla che al loro passaggio si apriva obbediente. I superstiti della colonna raggiunsero Greci, dove furono accolti con entusiasmo e tanta ospitalit?. Incombeva però il pericolo dell'arrivo della colonna del generale Flores. E quindi bisognava andar via. E poichè la zona più sicura era quella che confinava con Benevento che era già stata liberata, De Concili e gli altri si avviarono verso Casalbore. Di qui partirono all'alba del 6 settembre salutati dalla popolazione in festa.

Nei giorni 6 e 7 Settembre Ariano era ancora nelle mani dei borbonici e l'entrata in città delle truppe dei Generali Flores e Buonanno fu accolta festosamente dai rivoltosi che credevano di aver definitivamente vinta la partita. Alla notizia dell'ingresso in Ariano delle truppe borboniche, le milizie rivoluzionarie dei Cacciatori Irpini, con in testa la fanfara del battaglione, guidate dal De Marco l?8 settembre si mossero da Apice a marce forzate verso il territorio Arianese.

Il mattino successivo fu istituito il Governo Provvisorio a Buonalbergo. La composizione era diversa da quello che era stata stabilita ad Avellino.

La reazione di Ariano, oltre che la vittoria sul campo, otteneva anche quella politica: l'emarginazione degli azionisti. Si consolidava sui morti della contrada Manna quella larga convergenza che già si era costruita per organizzare il fallimento dell'insurrezione. Quello stesso giorno 7 settembre Garibaldi entrava a Napoli.

L'8 settembre Il Generale Carbonelli fu nominato, dal Governo Provvisorio Arianese, Comandante Generale delle forze insurrezionali.

Invece il 9 settembre arrivò il Magg. De Marco e i suoi Cacciatori e De Blasiis con la colonna del Matese. Erano le forze che dovevano arrivare ad Ariano sei giorni prima.

Sempre il 9 settembre Francesco de Sanctis veniva nominato Governatore della Provincia di Principato Ultra. Il Governo Provvisorio non aveva più ragione di esistere.

Intanto Ariano rimaneva nelle mani dei sollevati. Girolamo Anzani, Leopoldo Parzanese, Francesco Ciani, Raffaele de Paola, i fratelli Forte, Ettore ed Emilio Figlioli diventarono i dirigenti della citt?. Il Sindaco, F. Carchia, abbandon? il comune dandosi ammalato.

I filoborbonici capeggiarono la "ribellione" invece che farsi travolgere da essa. La capeggiarono in nome della difesa di una monarchia: furono portate in giro festosamente le immagini di Francesco II e Maria Sofia. .

Alla notizia che Garibaldi era entrato a Napoli l'esercito borbonico cominciò a sbandarsi. Il Generale Flores il 9 settembre si era recato ad ispezionare la rete stradale tra Grottaminarda, Mirabella Eclano e Montemiletto con a seguito Ufficiali dello stato maggiore e un reparto armato di scorta. In avvicinamento ad Ariano il Magg. De Marco ebbe notizia di questa sortita del Flores e, con sorpresa, attaccò la scorta che fu sopraffatta dai Cacciatori Irpini e il Generale Flores, con tutto il seguito, fu fatto prigioniero sulla rotabile tra Pietradefusi e Campanariello (attuale Venticano). Cattura che favorì lo sbandamento della colonna borbonica e la pi? sicura tenuta di Napoli da parte di Garibaldi e più agevoli manovre per le successive battaglie.

Il 10 alla notizia dell'arresto del Generale, la colonna Flores di stanza in Ariano si dissolse con un totale sbandamento dei soldati che abbandonarono in loco un ingente bottino di armi, munizioni, casermaggio, vestiario che divenne preda della popolazione.

Il giorno 13 settembre il Magg. Giuseppe De Marco entra, con i suoi Cacciatori Irpini e la fanfara, in Ariano tra lo scontento del popolo e lo scompiglio creato dalla diserzione delle truppe borboniche.

Il 14 giunsero in Ariano le legioni del Matese e del Molise a dare man forte al De Marco che aveva trovato una gravissima situazione di ribellione al nuovo stato. Fu eseguito un primo setacciamento delle campagne con arresti e sequestro di armi e materiale di provenienza bellica, ma si rinvennero pure indumenti dei liberali massacrati dai reazionari borbonici e cadaveri sepolti sotto un sottile strato di terreno. Nello stesso giorno mentre nella cattedrale si cantava il Tedeum, il Generale Carbonelli, Comandante Generale della forze insurrezionali, conferiva al Magg. De Marco tutti i poteri militari e civili su Ariano e l?intero circondario ove maggiori erano le ostilit? e la presenza di gruppi reazionari bene armati.

Il De Marco ristabilì subito la calma nel centro cittadino con perlustrazioni permanenti diurne e notturne e l?impiego di due compagnie di Cacciatori suddivise in tre reparti di 80 uomini con fucili pronti allo sparo e baionette in canna. I reazionari non accettavano di buon grado le misure repressive del De Marco: la vigilanza rafforzata e l'epurazione in tutto il circondario delle autorità sospette e non affidabili. Ordin? il disarmo di tutti i cittadini con la consegna d' ogni tipo di arma da fuoco e da taglio e intensificò gli arresti dei responsabili del sanguinoso scontro del 4 settembre e del successivo .

Tra gli arrestati non mancarono prelati ancora fedeli alla monarchia Borbonica e tra i più illustri: il Canonico Forte, il francescano Ciardulli e i sacerdoti Giuseppe Santosuosso e Nicola Vernacchia. Il comportamento vigoroso, del De Marco aveva domato, senza spargimento di sangue, i legittimisti sempre pronti per organizzare nuove sommosse e per la qual cosa fu costretto a proclamare lo stato d'assedio e il coprifuoco in tutto il circondario.

In seguito alla pressante protesta dei cittadini che si lamentavano per la eccessiva severità dei provvedimenti, il De Marco il 21 settembre tolse lo stato d'assedio e il 26, sicuro di aver ristabilito l?ordine in Ariano e dintorni, partì per compiere analoga opera di repressione a Mirabella Eclano il 27 e a Pietradefusi il 28 settembre.

Fu così che, riportata la calma tra quella gente che arditamente si era battuta, con molto spargimento di sangue, per la causa di fedeltà al Regno delle Due Sicilie e dopo avere assicurato alla Gran Corte del Principato Ultra i combattenti e i responsabili della resistenza, il De Marco e il Generale Carbonelli il 29 settembre, lasciano nella pace la citt? di Ariano e l'Arianese per trasferirsi al Volturno, sui luoghi di combattimento agli ordini diretti del Dittatore Garibaldi.

I fatti di Ariano contribuirono ad accendere reazioni anche in altri comuni della provincia. Le più note sono quelle di Montemiletto e di Torre le Nocelle dove, però, la rabbia dei contadini si rivolse contro i "galantuomini" del posto.

Nel caso di Ariano i ceti possidenti furono facilitati nel disegno di evitare l'urto con i contadini da due condizioni: dalla assenza di ogni spinta in direzione del coinvolgimento dei contadini che era rimasta, in Sicilia, soffocata dall'intervento di Bixio e dalla alleanza nella difesa della terra tra borbonici e contadini. Vegliate, per Dio! che non si discrediti il movimento con la mancanza di rispetto verso la terra? aveva gridato il D'Afflitto a Raimondo Albanese.

Egli difendeva certamente una politica: quella di compiere una rivoluzione senza rivoluzione?. Ma questa politica aveva le sue radici anche nella sua condizione di essere cioè uno dei più grandi proprietari terrieri di Ariano.

Cosa ne fu di Bartolomeo Lo Conte detto Meo Scarnecchia? Fu condannato a 20 anni di carcere, all'età 53 anni. Il suo sogno di libertà finì massacrato sotto le sue stesse mani, armato di odio fino ai denti,in nome di una patria saccheggiata e in compagnia di un prete e con il benestare dei sui concittadini, con la stessa violenza con cui lui stesso aveva massacrato i liberali in fuga sulla strada di Grottaminarda in quella notte del 4 settembre 1860, la notte della speranza che poi svanì con la fine di uno stato aggredito ed ora obliato.

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